Speciale
Tre stelle a McDonald's
Nel noto film di Mark Mylod The Menu (2022) c’è una scena raccapricciante. Siamo in un ristorante di fine dining, su un’isoletta appartata e oscura, pochissimi tavoli e soltanto dodici ospiti. Julian Slowik, lo chef acclamatissimo del locale, prepara ogni volta un menu speciale per i suoi commensali, ricco di sorprese d’ogni sorta. Non soltanto gastronomiche. A un certo punto Julian presenta al suo pubblico Jeremy, un sous chef bravo ma non geniale che, finito lo sproloquio del cuoco-santone, si infila una pistola in bocca e si suicida. Poi viene servita la quarta portata del Menu chiamata “Il Massacro”. E il film va avanti in un crescendo più splatter che horror, dove le esternazioni metafisiche del cuoco – il palpito della natura, il sapore dell’oceano, il respiro del mondo, la vita vera e via dicendo – non mirano affatto alla pacificazione interiore, meno che mai all’accordo sociale, quanto piuttosto alla violenza e alla morte. Il senso del gusto, ci viene suggerito, sarebbe l’inizio e la fine di tutto.
Ecco una perfetta allegoria, esasperata e caricaturale, di quel che sta accadendo oggi nel mondo dell’alta ristorazione, che tanti onori e oneri ha avuto negli ultimi decenni – anche e soprattutto nella sfera mediatica. Da una parte la ricerca gastronomica sempre più esasperata della novità e della sorpresa, la corsa verso un wow a ogni costo, con legioni di ammiratori pronti a stupirsi per l’ennesima trovata dell’ennesimo chef. D’altra parte, la crescente sensazione che tutto questo non sia affatto la celebrazione di un palato sempre più competente e consapevole ma il suo esatto opposto: una forma di mitologizzazione del cibo che tende ad annientarlo, a cancellare i sani piaceri della gola in nome di un intellettualismo fine a se stesso.
All’inizio del film lo chef esorta i suoi commensali non a mangiare ma a “gustare, assaporare, centellinare ogni boccone”; tuttavia quel che propone loro non è affatto sostanza alimentare, come dire cibo (termine da lui usato per palese denegazione), ma quello che viene chiamato “un mistero”, ossia una degustazione concettuale in cui – si saprà – gli stessi commensali si trasformano in ingredienti di base. Alla fine c’è una specie di fuoco purificatore che prende tutto il sistema: la brigata di cucina, i clienti, il critico, il direttore della rivista, l’edificio stesso del ristorante, i suoi proprietari. La gastromania, se così vogliamo chiamarla, sembra avere un cattivo destino.
A salvarsi sarà solo Margot, giovane e bella accompagnatrice di Tyler – una specie di stupidotto appassionato di alta cucina che usa un linguaggio assai stereotipato (adopera in continuazione parole come “palatabilità” o “molecolarità”) –, ma solo perché estranea a quell’ambiente tanto sofisticato quanto inconsistente. Per farlo, usa uno stratagemma niente male: rifiuta i piatti dello chef, cosa che nessun altro fra i suoi abituali clienti aveva mai osato fare, e gli chiede di prepararle un cheeseburger, un “vero cheeseburger” con doppia polpetta, formaggio rigorosamente americano, tanta cipolla e, ovviamente, patatine fritte. Julian sta al gioco: cedendo alla richiesta della ragazza, smette i panni dello chef ispirato, prepara il panino e, come se non bastasse, lo mette in una doggy bag che Margot porterà con sé per addentarlo altrove. Ecco realizzato un vero e proprio mondo alla rovescia: il più tipico prodotto da fast food preparato in un ristorante di gran lusso che, dal canto suo, gioca letteralmente al massacro.
Deve aver visto questo film, e ben compreso il suo messaggio (a dir il vero un po’ manicheo), Rafael García Santos, noto – e temutissimo – critico gastronomico spagnolo che, in una recente intervista a “El Pais”, ha provocatoriamente dichiarato che oggi l’unico ristorante dove si fa reale ricerca culinaria è McDonalds: “il miglior ristorante, quello che sta inventando la gastronomia in questo momento, è McDonald's”. Questa affermazione, va chiarito, viene pronunziata dal critico alla fine di un ragionamento molto preciso: “Ci sono periodi di 10 anni in cui uno chef sviluppa una leadership mondiale. Negli anni Settanta c'era Michel Guérard, negli anni Ottanta Joël Robuchon, negli anni Novanta Michel Bras, nel 2000 Ferran Adrià, e dal 2010 non c'è stato nessuno chef di importanza storica”. Oggi, prosegue Rafael García Santos, “gli chef sono rockstar, sono interessati a vivere da signori e a essere valutati”. Dunque: “Il sistema è morto. Non si preoccupano del cliente, lo imbrogliano, senza vergogna. Chi pagherà 500 euro per andare al ristorante?”. Difficile dargli torto: la recente notizia che, dopo El Bulli di Ferran Adrià, anche il Noma di Copenaghen, regno del venerato René Redzepi, è in procinto di chiudere i battenti lo conferma. Quanto a McDonalds, ecco le sue ragioni: “McDonald's si rivolge alle nuove generazioni e si rivolge a nuovi clienti. E si sta liberando di camerieri e cuochi. Sta usando l'intelligenza artificiale, che sta per invadere l'industria dell'ospitalità. Questo è il futuro. Poi arriveranno questi chef e diranno di averlo inventato. McDonald's dovrebbe nutrirvi, anche se non direi che si tratta di gastronomia, ma è il futuro”.
Ora, che McDonald’s non sia più il mostro globale qual è stato per decenni lo sappiamo già. A lungo la sua forza è stata quella di coniugare efficientismo e divertimento, creando un luogo dove l’intensità e l’immediatezza dei sapori stavano racchiuse dentro i celebri Golden Arches, come a creare uno spazio protetto e rinchiuso dove tutto è possibile a condizione di non uscirne (“succede solo da McDonald’s”, recitava una celebre pubblicità). Da un lato nutrire presto e bene. Dall’altro, lavorare sui sapori facili e forti, e soprattutto a buon prezzo. Oggi, anche a causa delle vigorose critiche ricevute, i menu di McDonald’s sono stati diversificati per paesi, si presta una certa attenzione alla dietetica, alla salute, alla sostenibilità e, ovviamente, si potenzia lo spazio infantile dove far giocare i bimbi. Il celebre logo giallo e rosso è diventato verde, segno chiaro di questa svolta che non rinnega il passato ma lo trasforma, lentamente e coerentemente. Per certi versi, il cheeseburger tanto amato da Margot – e cucinato da Julian – resta l’emblema più evidente ed efficace di un marchio della ristorazione che segue la propria strada, snobbando i lustrini e i patemi del fine dining, e fidelizzando sempre di più una clientela transgenerazionale. Il cinema, si sa, fa teoria coi propri mezzi: e spesso ci indovina.
Capiamo che, per quanto paradossalmente, il problema oggi non è McDonald’s ma i suoi avversari, quelli che, snobbandolo, finiscono per ricadere in uno star system che ammazza ogni forma di sperimentazione gastronomica. La provocazione di Rafael García Santos indica uno scenario poco allegro, che occorre mettere bene a fuoco per poterci riflettere, con calma e passione.
La fiction (chiamiamola a malincuore così) è forse più avanti del dibattito a parole su questi temi, e ha proposto diverse serie tv e pellicole cinematografiche che, se pure non forniscono vere e proprie risposte, propongono utili domande. E in linea di principio dovrebbero farle porre ai loro spettatori affamati di una gastromania che, a dispetto dei suoi tanti becchini, è più viva e vegeta che mai. Prendiamo il caso di The Bear, serie televisiva di grande successo. Lì è tutto un problema di chef. Chi è il capo? e perché? e percome? C’è Carmy Berzatto, un gran cuoco – d’origine italiana – che abbandona il palcoscenico dei ristoranti stellati per andare a lavorare in una specie di hamburgheria di famiglia, a Chicago, dove, al di là dei soliti saliscendi e digressioni tipici delle serie, prova a ripensare alla radice, in un sol gesto, sia il ristorante sia, soprattutto, se stesso. Basta col fine dining ottuso e mortifero, sembra dire, e ripartiamo da zero. Così, una delle prime cose che s’inventa è una sistematica decostruzione della brigata di cucina, e dell’organizzazione militaresca che, sembra, il grande Auguste Escoffier aveva inventato – oltre alla pesca melba – a fine Ottocento. Non si sono più executive chef e chef de cuisine, sous chef e chef de partie, commis, saucier, garde mange, communard etc., tutti impilati in rigida gerarchia. Anzi, con effetti esilaranti che sarebbero piaciuti ad Achille Campanile, tutti si chiamano chef a vicenda, in una ricerca di parità, però, più detta che realizzata. Ma comunque rivendicata ideologicamente. Alla fine gli amorazzi prendono il sopravvento, eppure il messaggio della serie, arrivata alla terza stagione, è abbastanza spiazzante: anche una panineria può aspirare al successo, tant’è che l’obiettivo della non-brigata finisce per essere, con una significativa giravolta, quello di andare dalle stalle alle stelle. Riorganizzarsi sì, ma sempre col il medesimo scopo: entrare nella Guida Michelin.
La questione della riorganizzazione del lavoro in cucina torna spesso nei film gastronomici più recenti, come per esempio in una pellicola francese di un paio d’anni fa intitolata significativamente proprio Sì Chef – La brigade. Anche qui una transfuga dall’alta cucina, la giovane Cathy, che per campare finisce questa volta per stare ai fornelli in uno sperduto centro per migranti. Dove, si capirà, l’ultimo dei problemi è in linea di principio quello di preparare manicaretti originali. Fra mille difficoltà la protagonista, inizialmente tristissima, riesce a coinvolgere tutti quanti, fra un rimpatrio e una crisi depressiva, nella sua smania di creazione gastronomica. Di modo che, novella Babette, fa della cucina il luogo e il mezzo per la costruzione di una comunità interetnica non più soltanto immaginata. Se in The Bear la brigata era il nemico da abbattere, qui è piuttosto lo strumento per superare i drammi quotidiani del centro accoglienza. Ma il finale è assai disarmante: una volta costituito l’esercito variopinto di cucinieri, il premio arriva dalla televisione. Cosa fa difatti uno chef che vuol affermarsi socialmente? Evidente: vince a MasterChef. Come accadrà a Cathy.
Resta una lezione importante per il futuro: l’innovazione gastronomica passa sì dal ripensamento del cibo e del suo valore, ma anche e soprattutto da una profonda riprogettazione sia della sala sia soprattutto della cucina. In entrambi i casi – l’esperienza del commensale e il lavoro in cucina –, sembra si stia andando verso una dimensione che, superando gli individualismi isterici, si fa necessariamente collettiva, collegiale, purale. Che ne è di quel collettivo implicito che è l’andare a cena fuori? con chi? come? perché? E come riformare in senso positivo lo stress paramilitare del cucinare per professione? siamo certi che sia necessario, naturale, inevitabile? Non sembra proprio. Le questioni sono tante, e andranno affrontate seriamente. Altrimenti occorrerà ammettere che, alla fin fine, The Menu non esagerava.
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