Tutto e il contrario di tutto: Everything Everywhere All At Once
Tutto e il contrario di tutto: ogni cosa in ogni luogo e tutto nello stesso momento e ancora di più; percorrere per intero la Teodicea di Leibniz in un cellulare senza però che ci sia un punto di arrivo. Se Matrix era la versione cinematografica del dualismo Cartesiano, Everything Everywhere All At Once, il film di Daniel Kwan e Daniel Scheinert che ha sbancato gli Oscar 2023 (miglior film, miglior regista, miglior attrice protagonista, migliori interpreti non protagonisti, miglior sceneggiatura originale e miglior montaggio), è la rappresentazione della sostanza di Spinoza nei suoi infiniti modi e nei suoi ancora più infiniti attributi.
Inutile sperare che vi dia qui un riassunto della trama. Dirò solo che inizia nel modo più piatto concepibile (che cosa può esservi di più noioso di una lavanderia di immigrati cinesi nella periferia americana?), per poi impennarsi in una accelerazione esponenziale di trame il cui orizzonte continua a moltiplicarsi. A ogni passo il film attraversa non solo la realtà, ma anche i mondi dell’immaginario, in un gioco di metacitazioni che confondono fantasia, realtà e apparenza. È un film che ci trasporta in un mondo infinito che supera ogni immaginazione e che, mutatis mutandis, ha analogie con quello che deve essere stata l’esperienza dei contemporanei dell’Ariosto quando ascoltarono l’Orlando Furioso per la prima volta; qualcosa che «non sembra neanche scritto da un essere umano; sembra scritto da un’orda di folletti, coadiuvata da un’equipe di fatine sotto l'effetto di sostanze psicotrope»: così racconta Roberto Mercadini nel suo strepitoso spettacolo dedicato al poema ariostesco.
«Non vuoi realizzare il tuo pieno potenziale?» Chiede Waymond Wang (il bravissimo Ke Huy Quan) alla sbigottita e terrorizzata Evelyn Quan Wang (Michel Yeoh)? E lei all’inizio rifiuta. Accettare tutti i possibili vuol dire perdere se stessi. Il potenziale non è uno ma è molti. Saltare sul trampolino verso il tutto/niente dell’alphaverso è proiettarsi verso un buco nero, anzi una ciambella! Ma perdere se stessi è l’unico modo per essere tutto e tutti (e allo stesso tempo).
Everything Everywhere All At Once (da qui in poi EEAAO) rompe con la tradizione del mondo unitario. Il mondo non è uno, ma è molti! E non è una semplice collezione, come il multiverso della Marvel, ma molti in uno. Ogni cosa è allo stesso tempo qui e altrove. EEAAO ha fatto invecchiare il multiverso in un attimo. E stesso destino è toccato alla nozione di Metaverso di Mark Zuckerberg (a proposito, il più grande fallimento tecnologico mai avvenuto) che, non a caso, era basato sull’idea Cartesiana di sole due realtà. Ma l’esistenza è bulimica di se stessa e così si procede all’alphaverso dove non c’è spazio per l’apparenza. Come in uno Sliding Doors all’ennesima potenza, non solo tutto è possibile e reale, ma allo stesso tempo, ogni cosa esiste spinozianamente in tutti i modi.
La chiave di volta di EEAAO è che la realtà non è una, ma è multipla. Ogni possibilità è realizzata: il possibile è in atto. Dimenticatevi anche la contrapposizione canonica tra soggettivo e oggettivo, tra realtà e apparenza. Siete obsoleti. Tutto è sullo stesso piano e nello stesso tempo: il film mantiene alla lettera la promessa del titolo.
È interessante vedere come, un passo alla volta (ma in questo caso con un bang!), filosofia e fisica entrino dentro la dimensione narrativa dell’immaginario. Sono secoli che Galileo ci ha spiegato che le proprietà fisiche sono relative; un centinaio di anni da quando un giovane Einstein osò proporre che spazio e tempo sono declinazioni di «un mondo impensabile ancora da ogni teoria». Ma finora queste intuizioni sono rimaste al margine di un immaginario prigioniero dell’idea di un mondo umano troppo umano, antropomorfo e antropocentrico. Come la protagonista, la nostra cultura resiste all’infinito vuoto del possibile. Vorrebbero tornare al punto di partenza, al centro di una esistenza ferma, rassicurante e mortifera. Ci culliamo nell’idea di una verità assoluta e data da un’autorità paterna o materna.
Secondo l’interpretazione dei molti mondi possibili del fisico Hugh Everett III (poi ripresa dal filosofo David Lewis) ogni lancio di dado crea un nuovo mondo, ogni collasso della funzione di Schrödinger crea molteplici universi: in un universo il gatto è vivo e in un altro è morto. E in infiniti altri universi, o nell’alphaverso, il gatto esiste in ogni possibile combinazione.
Il film mette in scena un mondo copernicano in senso metafisico. Poiché tutto è dappertutto allo stesso tempo, anche il concetto di qui e ora viene meno. Ogni punto è un qui e ogni istante è un ora a pari diritto. Non a caso come titolo sarebbe stata ancora meglio una E al cubo, ovvero E³ = Everything Everywhere Everywhen. Laddove ogni every è il ripudio di un antropo-centro. L’alphaverso è così perfettamente democratico e isotropico realizzando un puzzle multidimensionale dove ogni pezzo continua a scambiarsi con gli altri pezzi. Io sono te e tu sei me. Ognuno è ciascuno e, anzi, ogni cosa. Le persone sono cose.
L’alphaverso è la cosa più vicina all’Aleph di Jorge Luis Borges che abbia visto, il punto che contiene tutti i punti (e ovviamente il gioco è contenuto anche nelle parole in una sorta di Uroboro metamagico che non sarebbe spiaciuto al matematico Martin Gardner). Anzi, in EEAAO ogni momento contiene tutto allo stesso istante. Spazio, tempo, causalità sono fusi in un’unica sostanza che però torna a dispiegarsi in un prisma infinito di riflessi.
Dall’universo semplice, dell’unica verità, il mondo assoluto dell’unica luce, di Apollo e della nostra infanzia, si passa all’alphaverso, l’universo relativo dove tutto è reale e proprio perché tutto è reale, tutto è uguale. Tutto nasce e tutto muore.
Nel passato eravamo chiusi nel monoverso (copyright mio!), e infatti vi era un’unica direzione escatologica possibile: dal basso degli inferi all’alto dei cieli. Questa monodimensionalità metafisica è stata messa in discussione da Galileo e da Bruno. E così oggi non esiste più un’unica direzione, ma infinite. Le direzioni verso cui andare sono diventate infinite al punto che in un eterno ritorno ripartono ricorsivamente dall’inizio (che però non è mai uguale): l’alphaverso è un infinito tornare verso l’Alpha sapendo che non si sarà mai ciò che si era stati. Ogni momento di esistenza è anche già bruciato.
Questa indigestione di ontologie non è solo uno sfizio degli sceneggiatori, ma è la condizione dell’uomo contemporaneo (mi dispiace, cari Pippo Brunelleschi, René Magritte e Bill Gates: dobbiamo mettere da parte la vostra metafora preferita, la finestra…). In cento anni o poco più abbiamo dovuto abbandonare la rassicurante unicità dell’orbe terracqueo e abbiamo accettato un universo di infiniti sistemi solari, e poi di infinite galassie. Tutto quello che è sarebbe potuto non essere e tutto quello che non è sarebbe potuto essere. La scelta crea la realtà, ma è possibile perché la realtà contiene già ogni scelta possibile. Solo la scelta di Dio, notava maliziosamente Luigi Pareyson, crea l’alternativa. Ma diventando il tutto, diventiamo dio: «In fondo – diceva una barzelletta yiddish – uno di noi ce l’ha fatta!». Se tutto è dentro una ciambella (meravigliosa l’allegoria con il buco-nero-ciambella … in inglese doughnut riecheggia l’espressione do nothing), il senso di tutto è quello di una ciambella.
Siamo la società che rifiuta la scelta perché persegue l’eterna giovinezza e quindi il possibile contrapposto al compiuto. Il mondo vuoto della periferia americana è lo spazio perfetto per iniziare il film. Pensare che esistano tutti i possibili (e quindi che non siano possibili ma realtà in atto) mette in discussione la nozione di verità e di giustizia e di valore. L’abbondanza infinita riempie ogni vuoto. La non-scelta trova nell’infinito la sua giustificazione finale. Che cosa è la verità in un mondo dove l’esistenza di tutti i possibili ha saturato l’ontologia?
L’alphaverso è come un labirinto degli specchi dove il motore è la lotta mortale tra il caso e la necessità. Non a caso il deus ex machina è un motore a improbabilità che i protagonisti attivano con i loro auricolari (avete riconosciuto la citazione della trilogia in quattro volumi dell’autostoppista galattico di Douglas Adams?). Esteticamente è ovviamente una costruzione che fa l’occhiolino ai meccanismi videoludici, ma rivela un contenuto molto più profondo e metafisico.
Ma nel film, che ammette più di una interpretazione, si conclude sottolineando che il valore dell’esistenza è contenuto proprio nella forza di una scelta, che nella misura in cui circoscrive il circo degli infiniti casi, contrappone il finito all’infinito. E così da un lato vi è l’accettazione della scelta dell’orientamento sessuale di Jobu e dall’altro, perfettamente detto, vi è Evelyn quando dice a Waimond: «Anche se mi hai spezzato il cuore di nuovo, volevo dirti che, in un’altra vita, sarei stata felice di passare la mia vita in una lavanderia insieme a te». Quando il finito non è costrizione, ma scelta libera, contiene in sé la capacità di trovare valore, che invece si perde nell’infinito del possibile.
EEAAO mostra la pienezza dell’esistenza. E proprio Giordano Bruno, credo, lo avrebbe commentato con le sue parole: «Io penso a un universo infinito. Stimo infatti cosa indegna della infinita potenza divina che, potendo creare oltre a questo mondo un altro e altri ancora, infiniti, ne avesse prodotto uno solo, finito. Così io ho parlato di infiniti mondi […]. L’altezza è profondità, l’abisso è luce inaccessa, la tenebra è chiarezza, il grande è piccolo, il confuso è distinto, la lite è amicizia, il dividuo è individuo, l’atomo è immenso». E così è l’alphaverso di EEAAO: una rutilante e stroboscopica successione di eventi la cui connessione si intreccia in un caleidoscopio psichedelico di possibilità relative in atto. Posso annegarmi nel vuoto del possibile, ma la scelta libera crea la cosa che è me.