Vancouver, provincia di Londra, Svizzera
Girando per le strade di Vancouver in compagnia di Umberta Telfener – gli unici due italiani laggiù in questa stagione – abbiamo apprezzato la posizione paesaggistica. Dopo un po’ ci è venuta in mente la Svizzera. Se la Svizzera fosse un canottino gonfiabile, ci s’immagini di gonfiarlo e gonfiarlo, fino a farlo diventare enorme. Hai fatto il Canadà. Dove, a differenza di quanto si canta, di case ce n’è ma sono enormi e non c’è proprio niente di piccolino.
Escursione il giorno prima del congresso. Si perde un po’ di tempo e si prende un ferry che porta dall’altra parte – in Canadà c’è sempre un’altra parte ancor più bella – una delle insenature. Arriviamo a Gibson, come la chitarra elettrica di Neil Young.
Centoventi abitanti? Duecento? Una locanda, come quelle dei film dei fratelli Cohen. Ti aspetti che da un momento all’altro entri il cattivone con la monetina. Un birra e due polpettine di granchio (piccoline!) 20 dollari. Poi si torna, ma Umberta è inguaribilmente curiosa. Essendo che è romana (come dicono a Roma), è un’incredibile faccia di tolla (come dicono a Milano). Chiede tutto a tutti. Inquisiamo una giovane donna che se ne va da Vancouver per tornare a vivere a Gibson, nella sua comunità. Vancouver per lei è una metropoli sconvolgente – immagina se la portassimo a Rio o a New York – ma lo dice in tono mesto, sembra quasi che stia per piangere. Forse sto proiettando, ma è così!
Di comunità come Gibson ne ho vista una sola, Julian nel deserto di San Diego, là tutti fanno la torta di mele, ma almeno fa caldo! Qui d’inverno va a meno venti. Che ci fa una giovane donna a Gibson? Dove per andare a lavorare si sveglia la mattina alle cinque, prende il ferry, sta a Vancouver tutto il giorno e rientra alle sei di sera?
Con le lacrime agli occhi, per il freddo, la pioggia, l’emozione di parlare con due forestieri, la giubilazione di essersi rifugiata a Gibson, o che altro, la mesta donna dice che durante i fine settimana ha deciso di stare con la sua comunità, parola chiave. Da queste parti si esprime un bisogno di comunità: to belong to my own community. Svizzera sì, ma quella degli anni Sessanta, dove se gettavi un mozzicone per terra gli appartenenti alla comunità ti rimproveravano, ti facevano sentire forestiero, barbaro, sudista e sudicione.
Chi viene da fuori, come noi, che andiamo al cinema, immagina il cattivo che fa una strage, lo scuolabus che scivola fuori strada e massacra i bimbi della scuola, qualche cantante locale kitsch. Ma chi vive laggiù, e non va al cinema, non ha idea di Altman, dei Cohen, ecc. Non si è mai visto dal di fuori. Come diceva Heinz von Foerster: “Noi non vediamo ciò che non vediamo”, così la community canadese. Una società monoculturale, che si figura multiculturale.
Arrivi in aeroporto, tutte le scritte bilingui. Esci: il francese sparisce immediatamente, fuori dall’aeroporto non esiste più. In questo a Vancouver sono diversi da Ville de Québec. A Québec criticano il mondo anglosassone, rivendicano le propria differenza, prendono in giro – oppure protestano contro – i Nord-Americani per via dell’imperialismo linguistico. A Vancouver, fuori dall’aeroporto, il francese semplicemente non esiste, nessuno lo parla, non se ne parla. Si parla delle comunità dei nativi, delle arti native. L’impressione è che ci sia più folclore turistico che memoria storica. Tant’è, impari per disconferma che i francesi non esistono. Venendo dalla madrepatria (il Regno Unito) ti confondi persino con le monete, la testa della Regina dappertutto e non sai più esattamente cos’hai in tasca: sterline o dollari canadesi? Mais la France n’existe pas.
Siccome il convegno era sui rapporti tra Gregory Bateson e Gilles Deleuze, all’intervallo di pranzo mi permetto di segnalare alcuni interventi di Deleuze riguardo a Bateson su youtube. Risposta: “sono sottotitolati? Qui nessuno capisce il francese”, “Ma non è, insieme all’inglese, lingua ufficiale del Canada?”. Sguardi nel vuoto, come quando becchi il bambino con le mani nella marmellata.
Accade, anche qui, per esempio alla Svizzera tedesca nei riguardi di quella italiana. Però in Svizzera non si predica il dialogo assoluto come copertura di qualcosa che non va. In un contesto così marcato, l’unica possibilità per sopravvivere è il dialogo ideologico. Ogni forma di dissenso viene vista come pericolosa, disruptive (perturbante).