Varese, California
Una delle scene più famose di Quarto potere (1941), è quella in cui la cinepresa di Gregg Toland si sofferma, con l'estrema profondità di campo esaltata dal grandangolo, sull'infinita distesa di opere d'arte che Citizen Kane ha accumulato nella sua vorace attività di collezionista. Come è noto, il protagonista del film di Orson Welles ritrae il magnate dei media William Randolph Hearst e la sua dimora è ispirata al castello di San Simeon, a metà strada tra San Francisco e Los Angeles. Hearst era un personaggio che esprimeva il gusto del suo tempo, proprio come Henry Frick, John Pierpoint Morgan, Isabella Stewart Gardner o Henry Kress del quale si narrano le gesta ne L'eredità Contini Bonacossi, l'ipnotico memoir di Elsa De Giorgi.
Tappa obbligata per molti di quei collezionisti era la villa “Ai Tatti”, sulle colline sopra Firenze, che lo storico dell'arte Bernard Berenson aveva allestito come un magnifico showroom dove mostrare ai suoi facoltosi visitatori una possibilità di elevazione della vita quotidiana da trascorrere in mezzo agli Old Italian Masters e agli squisiti pezzi che venivano dall'Estremo Oriente e, perché no, spingerli, non proprio disinteressatamente, all'acquisto di opere arte antica. Quei miliardari, mossi dal desiderio di inventarsi un araldico passato, svelavano il complesso d'inferiorità che gli Stati Uniti ancora provavano per la più civilizzata Europa. Tutto cambia dopo la seconda guerra mondiale.
Nel 1954, Giuseppe Panza di Biumo, allora poco più che trentenne, trascorre molti mesi a New York e in giro per gli Stati Uniti. Lo colpisce l'energia vertiginosa, la natura incontaminata, l'uomo artefice del proprio destino, ma non mette piede in un museo. Tornato in Italia, questo giovane silenzioso e dalla natura un po' umbratile, sposa Giovanna – per i gli amici saranno Beppe e Pupa – e insieme iniziano una nuova vita, allietata dall'arrivo di cinque figli. Cominciano a collezionare Fautrier, Tàpies, ma Giuseppe, sfogliando «Civiltà delle Macchine », è colpito dai segni neri, violenti di una riproduzione di Franz Kline – le fotografie diventano uno strumento di conoscenza decisivo per Panza, esattamente come per Berenson, Longhi, Zeri, che così, fin dall'inizio della sua vicenda, rivela la sua natura di collezionista-studioso – e decide di acquistarla senza averla vista dal vero.
Panza è pronto a tornare a New York con una nuova consapevolezza. Dopo gli incontri con una coppia di grandi galleristi come Leo Castelli e Ileana Sonnabend, le conversazioni con Marcel Duchamp, un maestro di libertà di pensiero, acquista senza esitazioni sette Rothko e undici Rauschenberg. È il 1960 e il pendolo della capitale dell'arte si sta spostando da Parigi a New York. Il timing è perfetto e negli anni successivi – c'è di mezzo la famosa Biennale 'americana' del '62 – si aggiungono alla nascente collezione opere della pop art di Lichtenstein, Oldenburg e Rosenquist, oltre che altri Kline.
C'è un bellissimo servizio fotografico di Ugo Mulas della villa di Biumo, la dimora settecentesca sopra Varese acquistata dalla famiglia Panza nel 1935, dove Giuseppe ha trascorso le lunghe stagioni dell'adolescenza immerso in letture solitarie. Il collezionista è infatti un autodidatta, un tratto che è stata la sua grande forza e, qualche volta, il suo limite. Siamo nel 1966 e alle pareti, un po' affastellate, sono appese le opere acquistate di recente a New York. Anche gli arredi ancora non dialogano con i quadri – Panza diventerà anche un grande collezionista di arte primitiva africana – come avverrà in seguito in maniera magistrale. Una fotografia ritrae la giovane coppia e mi pare di avvertire in quella foto un sottile disagio, come se ancora non avessero metabolizzato la straordinaria avventura nei territori del nuovo di cui sono protagonisti. Racconterà poi Pupa: “venivano a casa i nostri amici e ci prendevano in giro, non capivano la nostra passione”.
Quell'incertezza, se davvero l'hanno provata, dura poco tempo. I figli crescono con naturalezza in mezzo a quell'arte nuova e Panza resta al passo con l'evoluzione della scena artistica newyorchese. Si rammaricherà poi di non aver collezionato Warhol, ma in realtà la pop art che corrisponde a una civiltà dei consumi matura non gli appartiene intieramente. Dalla metà degli anni Sessanta – è il momento della minimal art – acquista opere, quasi sempre dopo averne visitato gli studi, di Robert Morris, Dan Flavin, Richard Serra, a cui seguono Carl Andre, Joseph Kosuth, Bruce Nauman, Lawrence Weiner e Donald Judd. La coppia va a New York almeno una volta all'anno e poi ci sono le Biennali, Documenta. Panza, uomo certamente non di sinistra, di profonda fede cattolica, è una mosca bianca nel panorama dell'arte italiano, anzi è accusato di non collezionare artisti di casa nostra, di “fare il gioco degli americani”. Ma direi, avendolo conosciuto e frequentato per molti anni, pur col rammarico di non aver approfondito il rapporto – ripensandoci lo vedo avvolto in una luce manzoniana, mi fa pensare all'orgoglio rinfoderato di padre Cristoforo – che la sicurezza in se stesso, pur celata dietro un'educazione impeccabile, risultava evidente già a un primo incontro. Non credo quindi che le critiche lo abbiano mai toccato, anzi comincia la seconda fase della sua collezione, la più entusiasmante, quella che ha per oggetto la mostra “Aisthesis. All'origine delle sensazioni: Robert Irwin e James Turrell”, a Villa Panza fino al 2 novembre.
In contatto col LACMA (Los Angeles County Museum of Art), i Panza arrivano in California alla fine degli anni Sessanta. La costa orientale è in pieno boom economico; a Los Angeles, città senza centro, sta nascendo un embrione di downtown, l'uso dell'aria condizionata permette che grandi società vi installino i propri headquarters, mentre l'industria aereonautica e militare trainano l'intero settore meccanico. I romanzi dei grandi scrittori che hanno lavorato a Hollywood (Scott Fitzgerald, Nathaniel West, James Cain), con la descrizione di una sterminata distesa di casette unifamiliari dove vivono giovani arrivati da tutto il paese inseguendo le illusioni della celebrità, non sono più attuali. Siamo all'apogeo del secolo americano, Neil Armstrong sbarca sulla luna e il LACMA inaugura un programma per unire arte e scienza, condotto da Edward Wortz, uno psicoanalista comportamentale che ha lavorato per la NASA. Vi partecipano Robert Irwin e James Turrell. Per entrambi è stata un'esperienza fondamentale e il mondo culturale californiano sostiene questi artisti un po’ come oggi accade per quelli dei paesi in crescita dell'Estremo Oriente.
Ho incontrati entrambi mentre preparavano la mostra di Varese. Un tempo amici, da tempo tendono a non incrociarsi. Irwin è più anziano (1928), alto, magro, con penetranti occhi azzurri e un cappellino da cui non si separa mai. Turrell (1943) ha più il tipo del cowboy, con gli stivaletti, un gran barbone bianco ben curato, la sicurezza di sé di una star di recente osannata al LACMA e al Guggenheim di New York. Sembra che il trono di Grande Artista Americano, l'esploratore di un'ennesima frontiera, ora sia suo.
Irwin all'inizio della conversazione afferma, rovesciando l'affermazione attribuita a Picasso: “Io non cerco, io trovo”, che l'importante è porre le giuste domande. Racconta poi la sua vita mirabolante: un'infanzia felice nella Los Angeles della Grande Depressione, il viaggio iniziatico a Parigi, la crisi, otto mesi passati a Ibiza (1949) senza parlare con nessuno, finché un giorno entra in un cinema dove danno Singin' in the rain. Torna negli Stati Uniti. “Nostalgia di casa?” gli chiedo. “No, è come se una bolla di sapone fosse scoppiata”. Poi le prime esperienze artistiche in una Los Angeles ancora provinciale, la precisazione della sua arte per via di levare, la chiusura dello studio e i mesi trascorsi nel deserto dove è investito dalla sua energia ctonia. Essere artista diviene per lui girare per gli Stati Uniti a parlare d'arte, la discussione diviene una forma d'arte, legge e annota Cartesio come fosse un contemporaneo. Viene poi chiamato dai grandi musei americani (il giardino del Getty Center di L.A., il DIA Beacon) per interventi che sollecitino il visitatore ad avvicinarsi all'arte in modo diverso, attraverso la creazione di nuovi spazi fisici. Ancora oggi, seppur stanco, appare un uomo che cerca.
Turrell, dopo averci fatto aspettare una mezza giornata (sono con Simone Pera, mio sodale di avventure documentaristiche), si concede. D'origine quacchera, è anche lui un uomo colto: rintraccia una genealogia nella storia della pittura dei grandi artisti che lavorano con la luce (Caravaggio, Vermeer, Turner). Delle esperienze degli anni Settanta – “creiamo la realtà nel modo in cui la percepiamo” – gli interessa oggi la perdita di percezione come forma di ricerca dell'assoluto, una strada verso lo spirito senza un particolare indirizzo confessionale, anzi l’esperienza artistica è una forma di immanenza. Le esperienze di volo – è un appassionato aviatore, anzi ha anche campato aggiustando vecchi aerei – le ha riversate nella comprensione delle alterazioni degli stati di percezione e nell'affrontare il rapporto, fisico e mentale, tra spazio interno ed esterno. L’esempio più noto è l'infinito e affascinante progetto del Roden Crater, un vulcano dell'Arizona che sta lentamente rimodellando.
I Panza li incontrano a L.A. agli inizi degli anni Settanta e vengono condotti nel deserto dell'interno della costa orientale. È un'esperienza fondamentale: “il deserto è un luogo senza vita, dovrebbe provocare una sensazione di morte, ma invece suggerisce l'idea del suo opposto, perché la luce riempe tutto (…) anche la luce cambia in modo evidente a causa della mancanza di umidità sospesa nell'aria, per cui le cose sono visibili con una chiarezza molto maggiore, anche quelle più lontane”. Sto citando da un testo di Panza inedito e non datato, ma che sembrerebbe risalire al 1980 circa. È ormai una celebrità anche negli Stati Uniti, è stato tra i primi a comprendere “la grande energia psichica latente” dell’espressionismo astratto, ma “New York è una città in grande misura europea”. Los Angeles al confronto è una città quasi senza storia, le case sono fatte con materiali non durevoli, “i modelli culturali più diversi sono accostati con indifferenza”, mancano monumenti che testimoniano il trascorrere della Storia, mentre è il luogo della costruzione di un immaginario (Hollywood, Disneyland) che dura l'espace d'un matin e dove si vive immersi in un eterno bel tempo (è il tema dell'arte di David Hockney, l'esatto opposto degli interessi di Panza).
“A Los Angeles difficilmente l’ambiente urbano avrà una durata più lunga di quella degli individui, la prossima generazione vedrà certamente una realtà diversa”. Panza si chiede quale sia il posto dell’arte in una società come questa: “Gli artisti di Los Angeles che negli anni 60 e 70 hanno esplorato il territorio illimitato dell'interiorità, stimolati da una situazione obiettiva forse unica al mondo, hanno raggiunto una conoscenza di una situazione che è fondamentale nella storia della cultura del XX secolo. È ancora in gran parte sconosciuta, per la difficoltà di creare vasti ambienti, dove la luce, lo spazio, la percezione, la coscienza, si fondono per determinare una esperienza nuova, per la sua intensità e precisione, nella storia della cultura occidentale. Rischia di sparire, lasciando poche tracce nella memoria di chi avuto la fortuna di vedere negli esempi efficacemente realizzati, e subire il destino di ciò che avviene a Los Angeles, sparire rapidamente e piacevolmente”.
Panza reagisce mettendo a disposizione per le creazioni di Irwin, Turrell e di altri artisti americani, gli ambienti della villa di Biumo, magnifica dimora neoclassica in cui ha lavorato Luigi Canonica e sistemata nel XX secolo da Piero Portaluppi, l'architetto di fiducia dell'alta società milanese. Varese, per paradosso, è una delle zone più piovose d'Italia e i due artisti, forse anche colpiti da un cielo che più distante dalla California non si potrebbe, operano delle aperture nei rustici della villa che invitano a meditare, attraverso i cieli cangianti, sulla natura della luce e della percezione. Procedimenti che oggi chiamiamo site specific. Poi Irwin si allontana da Panza, collezionista che dialogava alla pari con gli artisti, anzi entrava nei processi di creazione dell'opera, forse anche infastidito dal tentativo da parte del collezionista di indurre i due artisti a realizzare progetti da offrire alla Chiesa cattolica come strumento per combattere la secolarizzazione della società. Turrell invece partecipa a qualche iniziativa dal contorno un po' incerto (ad esempio la partecipazione al meeting di Rimini, ma forse la radice per Panza sta nella stessa disperazione che indusse Giovanni Testori a collaborare con i giovani di CL).
Villa Panza diventa, dalla seconda metà degli anni Settanta, sempre di più un luogo di pellegrinaggio degli studiosi e degli amanti della nuova arte americana. Michael Gowan, attuale direttore del LACMA e curatore, insieme ad Anna Bernardini, della mostra, racconta come Panza gli abbia insegnato ad affinare la sua capacità percettive quando arrivò da giovane studioso a Biumo. La villa è stata donata nel 1996 da Giuseppe e Giovanna Panza al FAI, ma ancora oggi è possibile cogliere, passando da una sala all'altra, la volontà dei Panza di far comprendere come sia possibile, non solo mescolare forme di arte tra loro diverse, ma vivere in ambienti dove l'arte contemporanea è una strada per una personale ricerca di spiritualità e dell'ascolto di sé.
A quarant'anni di distanza i due artisti sono tornati a Biumo e hanno creato per l’occasione nuovi ambienti e scelto opere recenti che proseguono e affinano le ricerche di quegli anni e la mostra, con la sua ricca mole documentaria, racconta una bellissima storia ormai storicizzata.
Il giorno della conferenza stampa Irwin è già partito, il presidente del FAI, Andrea Carandini, pronuncia un discorso alato, la Bernardini e Gowan fanno la loro parte, ma la scena è tutta per Giovanna Panza e Turrell, Pupa e Jim, che, complici, incantano la sala rievocando un giorno di molti anni fa in California... Per citare John Ford: “Print the legend”.