Vita, avventure e morte di Francesca Woodman

20 Luglio 2011

Un giorno qualsiasi del 1977 una ragazza entra nella libreria romana Maldoror e porge al proprietario, Giuseppe Casetti, una scatola grigia esclamando “Sono una fotografa”. La giovanissima donna, nemmeno ventenne, si chiama Francesca Woodman. Nata in America nel 1958, figlia di artisti – padre pittore, madre ceramista – interessata alla fotografia sin da quando aveva tredici anni, si trova a Roma per seguire i corsi della Rhode Island School of Design. Non è il suo primo viaggio in Italia, dato che da piccola ha vissuto un anno a Firenze e soggiornato varie estati nella vicina Antella; ma quello che era nato come periodo di studio si tramuterà in un’esperienza artistica ben più importante, sia per lei che per coloro con cui strinse amicizia nella capitale.

 

Francesca Woodman è una delle figure più emblematiche dell’arte degli ultimi trent’anni, benché il suo percorso creativo si sia interrotto sul nascere. Dopo l’Italia infatti, e il diploma al RISD, la giovane fotografa si trasferisce a New York: nel gennaio del 1981, a 22 anni, meno di quattro anni dopo l’incontro con Casetti e pochi giorni dopo l’uscita del suo unico libro d’artista, Some Disordered Interior Geometries, si lancia dal tetto del palazzo in cui abita. Cinque anni dopo viene organizzata la sua prima mostra postuma, e presto la critica femminista del tempo si appropria della figura della giovanissima e geniale artista suicida – come feticcio ideale per un discorso critico incentrato sull’esposizione del corpo femminile nudo utile a decostruire lo sguardo maschile.

Un contribuito a una revisione delle teorie “ufficiali” viene ora dalla mostra Francesca Woodman, photographs 1977-1981 allestita da Giuseppe Casetti nella libreria-galleria Il Museo del Louvre a Roma - erede dell’antica libreria Maldoror - lo scorso giugno. Negli ultimi anni la figura della fotografa in Italia ha avuto un gran ritorno di interesse, e questa è solo l’ultima di una serie di esposizioni monografiche dopo quelle di Siena e Milano nel 2009-10. Che questo sia indice di una volontà di ritornare su un’esperienza che in parte si è realizzata proprio in Italia, o al contrario il segno di una crescente mitologizzazione della sua figura artistica, è un dubbio non ancora chiarito.

 

L’iniziativa di Casetti sembra partire da un desiderio di restituire alle fotografie qualcosa dell’atmosfera in cui vennero realizzate, accompagnandole con un gran numero di lettere, disegni, cartoline, istantanee inedite di Francesca all’opera, o intenta ad allestire le sue fotografie nella galleria di Ugo Ferranti nell’estate del 1978 assieme a Giuseppe “Pepe” Gallo, Bruno Ceccobelli, Angelo Segneri, Gianni Dessì. A metà fra la memoria nostalgica e la documentazione storica, si parla di progetti e pranzi, ricette e fughe al mare. Si potrebbe dire che il concetto di rarità, quale valore attribuito anche all’oggetto più insignificante in virtù della sua relazione con qualcosa divenuto importante, confermi qui lo status definitivo di Mito Artistico che Francesca Woodman ha acquisito negli ultimi vent’anni. Dai documenti emergono anche notevoli riflessioni sul suo modo di lavorare: la fotografa, solita a scattare solo dopo una minuziosa pianificazione di ogni singola immagine, racconta e disegna agli amici passo per passo le proprie idee. I testi esposti quasi sommergono le fotografie, qui presenti in un ruolo secondario rispetto al discorso personale sviluppato nelle lettere. Destinatari più frequenti sono lo stesso Casetti, da lei chiamato Cristiano, il già citato “Pepe” Gallo, Edith Schloss, incontrata a una conferenza tenuta da quest’ultima nella sede italiana del RISD, e l’amica Sabina Mirri con cui realizza la famosa Storia del Guanto ispirata al ciclo dell’artista tedesco Max Klinger ritrovato dalla stessa Francesca nella rivista del 1957 “Le Surréalisme, même”. Questa e altri volumi d’arte, antiche stampe, fotografie surrealiste allora inedite ritrovate nella Libreria Maldoror, costituirono un background che influenzò attivamente la sua opera a metà tra esercizio scolastico ed elaborazione indipendente.

A Roma, in particolare, Woodman realizza la serie Calendar Fish – una sorta di diario fotografico con un numero diverso di anguille e pesci a simboleggiare i giorni dal 1 al 7 marzo – e Self Deceit, riguardo al quale gli appunti di Francesca rivelano l’evoluzione del progetto:

 

L’idea per Space [una serie realizzata nel 1975-76 a Rhode Island] era molto più solidificata due o tre anni fa. Avevo l’idea di illustrare fisicamente metafore letterarie (the white lie) e di fare metafore fisiche per idee morali (la reputazione). E tuttavia, lavorando lentamente ad altri progetti, ho smarrito la particolarità di questa idea e sono venuta fuori con un gruppo di immagini che non illustravano nessun concetto specifico ma sono la storia di qualcuno che esplora un’idea […] seguiamo la figura che cerca di risolvere l’idea come se fosse un problema matematico e di inserirsi dentro l’equazione. Un paio di mesi dopo […] sono ritornata alla teoria originale per illustrare Self-deceit […] la cosa che mi interessava di più era la sensazione che la figura, più che nascondersi da se stessa, fosse assorbita dall’atmosfera, fitta e umida.

 

In poche righe vengono qui riassunte alcune idee-chiave del lavoro di Francesca Woodman, in primis l’attenzione alla costruzione formale dell’opera che si traduce in “un’equazione” da risolvere. Non a caso il libro Some Disordered Interior Geometries è composto da una serie di fotografie che si relazionano ai precetti di un vecchio libro scolastico di geometria in forma di elaborazioni concrete di concetti ideali. Nelle sue fotografie Woodman non espone il corpo nudo in quanto sovrastruttura culturale; piuttosto, lo utilizza sempre e solo in relazione con l’ambiente naturale o architettonico circostante, che lo confonde – alberi, carta da parati, la deformazione derivante dall’immagine sfocata nel movimento – o come lei stessa dice,lo assorbe. Concetto di basilare importanza per rivedere il legame tra Woodman e il femminismo, poiché,malgrado questa sia tuttora l’analisi più popolare, quasi uno standard interpretativo, nel tempo guardando con maggiore attenzione al suo lavoro l’associazione diretta dell'artista alla lettura femminista è apparsa sempre più una eccessiva semplificazione, motivo per cui si è poi gradualmente sviluppata una visione alternativa rivolta maggiormente ai valori formali e alle influenze surrealiste presenti nella sua opera. Il piano visivo domina sempre quello speculativo, allorché “la teoria dietro l’opera è importante ma per me è sempre secondaria alla soddisfazione dell’occhio.” In altri termini, l’intento è di fare, se possibile, tornare i conti; o altrimenti fissare su pellicola l’incongruenza tra immagine e idea.

 

La mostra prosegue l’esposizione dei documenti secondo intenti di riepilogazione storica: il diploma, la scoperta della stampa fotografica su carta comune, il blue print, la tecnica della diazotipia usata in Temple Project per riprodurre in un formato imponente un tempio greco con figure femminili a sostenerne in qualità di cariatidi la facciata, il trasferimento a New York. Le ultime lettere inviate agli amici italiani, colme di nostalgia per il soggiorno romano, sono una spia del disagio che Woodman prova nel tentativo di affermarsi professionalmente nella grande metropoli americana. Il desiderio di ritornare è contrastato dalle difficoltà che la sua attività incontra poiché “ l’unico problema è che il mondo dell’arte qua ti dimentica se vai via cinque minuti”.

 

Francesca non tornerà mai più in Italia: anche la libreria Maldoror scomparirà, ma il suo amico “Cristiano” Casetti, conserverà tutte le lettere e le fotografie di cui era venuto in possesso, prestandole di volta in volta a musei e mostre e facendole visionare a studiosi e critici d’arte contemporanea. Il suo infatti rimane, dato il valore storico, un catalogo tuttora imprescindibile per chi voglia avvicinarsi al lavoro di Francesca Woodman, e, attuando una necessaria opera di lettura e selezione dei testi, costruire a partire dalle parole dell’artista le basi di un futuro discorso critico.

 

 

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