Vonnegut: letteratura, elettrodomestici e nubi
«Mio fratello Bernard è un fisico delle nubi. Ha nove anni più di me, ed è stato una mia fonte d’ispirazione sin dalla giovinezza. Lavorava nel laboratorio di ricerca della General Electric a Schenecdaty. Anch’io, anni fa, lavoravo per la General Electric, e circondato com’ero da macchine e idee per macchine ho scritto un romanzo, Piano meccanico, per persone e macchine in cui spesso queste ultime hanno la meglio, come poi succede. Dai critici ho poi scoperto che ero un autore di fantascienza. Non lo sapevo». Così parlò Kurt Vonnegut in Divina idiozia (traduzione di Stefano Travagli, Bompiani, 2023), una raccolta di testi dimenticati nel cassetto, saggi, discorsi pubblici, una sceneggiatura per un cortometraggio, un’intervista rilasciata a Playboy. Non mancano neanche: «panzane pensate per dare conforto alle anime semplici», annota lo stesso Vonnegut nella prefazione.
Ma cosa ci faceva il futuro autore di Mattatoio n. 5 e Ghiaccio-nove, a Schenecdaty, una cittadina a nord dello stato di New York, difficilmente definibile come “amena”, ma soprattutto alla GE, la General Electric, l’azienda fondata da Thomas Edison per la commercializzazione della lampadina elettrica a filamento incandescente e, in seguito, produttrice di locomotive, turbine, motori d’aereo, sistemi militari, ma soprattutto di ventilatori, fornelli elettrici, aspirapolveri, frullatori, refrigeratori, tostapani? Quegli stessi elettrodomestici vantati dall’allora vicepresidente degli Stati Uniti Richard Nixon nell’incontro con il Segretario generale del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, Nikita Krusciov – nel luglio del 1959 a Mosca, in occasione dell’Esposizione Nazionale Americana, confronto passato alla “storia” come The Kitchen Debate – in cui Nixon glorificò, a tutto campo, la supremazia della tecnologia americana su quella d’oltre cortina. Già, perché la Guerra fredda si combatteva anche a colpi di propaganda di bollitori e lavatrici.
Kurt, chimico mancato e redattore junior
E, a lavorare fra quei bollitori, quelle lavatrici, quei sistemi militari saranno proprio i fratelli Vonnegut: Bernard e Kurt. Bernie che fin da bambino, facendo esperimenti scientifici nel seminterrato di casa, aveva deciso di andare all’università e di diventare uno scienziato (studierà chimica al MIT finendo per occuparsi di meteorologia alla General Electric e inventare metodi per far piovere o nevicare, inseminando le nuvole); e Kurt che, tornato in patria dopo essere stato fatto prigioniero dai tedeschi, nel 1944, durante l’offensiva delle Ardenne, mandato in un campo di lavoro a Dresda e essere sopravvissuto al bombardamento alleato – un diluvio di bombe incendiarie che rase al suolo la città – finirà anche lui per lavorare alla General Electric, come “redattore junior” del News Bureau, posizione che lo vedrà impegnato a scrivere comunicati e articoli scientifici sulle invenzioni, brevetti e scoperte che lo stabilimento sfornava a getto continuo.
La scrittura era sempre stata il suo pallino – gli sporadici studi di chimica fatti prima della guerra, per seguire l’esempio del fratello, non lo avevano mai appassionato, sentiva di non avere la stoffa per fare lo scienziato – e nonostante il lavoro all’ufficio stampa non fosse il massimo, per lui che aspirava alla Grande Letteratura, era comunque grato di aver trovato un posto in cui avrebbe fatto, più o meno, ciò che gli piaceva, guadagnando abbastanza da mantenere una famiglia in perfetto stile americano, con una casa, un giardino, un piano pensionistico, una cucina piena di elettrodomestici GE.
La General Electric era fantascienza
Vite parallele, quelle di Bernard e Kurt, raccontate dalla biografa Ginger Strand nel libro I fratelli Vonnegut – sottotitolo: Fantascienza nella Casa della magia (traduzione di Margherita Emo, Prefazione di Fabio Deotto, Treccani, 2023) – una storia di famiglia poco conosciuta e molto complessa che coinvolge scienza e politica, etica e progresso, libro nato dalla fortuita scoperta dell’autrice che, negli anni Cinquanta, l’amministrazione comunale di New York aveva in bilancio un programma per provocare la pioggia, a cui aveva lavorato, per l’appunto, Bernard Vonnegut per conto della GE, proprio mentre, negli stessi anni, il fratello minore, Kurt, affrontava una lunga ed estenuante gavetta aziendale grazie alla quale sarebbe diventato lo scrittore che conosciamo: «la General Electric era fantascienza», come disse Kurt a Playboy.
Racconterà la Strand al giornalista Patrick Sauer: «Mi immaginavo Kurt le sere, a casa, mentre lottava con la frustrazione di essere un uomo d’azienda, e intanto sbattere la testa contro il muro perché ancora non aveva trovato la sua voce di scrittore». E dire che le sue qualità di narratore avevano già fatto capolino nella lettera inviata ai suoi, nell’autunno del ’45, appena dopo essere stato liberato dalla cella frigorifera del Schlachthof-Fünf, il mattatoio cittadino numero cinque in cui era stato tenuto prigioniero e che, grazie alla sua più che solida struttura in cemento armato, gli aveva salvato la vita.
La lettera, dieci brevi capoversi, era il suo primo tentativo di scrivere della sua esperienza di guerra, un gioiello di coincisione: «Sono prigioniero dal 19 dicembre 1944», annotava. «Intorno al 14 febbraio sono arrivati gli americani, seguiti dalla Raf, e con i loro sforzi combinati in ventiquattr’ore hanno ucciso 250.000 persone e distrutto tutta Dresda, forse la città più bella del mondo. Ma non me (...) Ho troppe cose da dire, il resto dovrà aspettare». La lettera – una sorta di anteprima di Mattatoio n. 5, bestseller che vedrà la luce un quarto di secolo più tardi – fu pubblicata, a sua insaputa, in prima pagina dall’Adirondack Record, il giornale locale della cittadina dove viveva la famiglia Vonnegut.
Nel 1973, quando Kurt, ormai famoso, intervistato da Playboy che gli chiederà se l’esperienza di Dresda – che in seguito avrebbe definito un’Atlantide che affondava sotto onde di fuoco – lo avesse cambiato in qualche modo, risponderà: «No. Capisco che si possa pensare il contrario, perché il cliché è questo. L’importanza di Dresda nella mia vita è stata enormemente esagerata solo perché il mio romanzo su quella vicenda è diventato un bestseller. Dresda è stata un’esperienza sconvolgente, ma si possono vivere esperienze sconvolgenti senza esserne cambiati».
Pioggia e neve su ordinazione
Nel 1946, presso i laboratori General Electric di Schenecdaty, quattordici anni dopo essere stato insignito del Nobel per la chimica, Irving Langmuir, il primo scienziato industriale a vincere quel premio, notò che, spargendo ghiaccio secco (anidride carbonica compressa) sopra le nubi, si riusciva a far piovere. Soprattutto senza dover danzare con le nuvole, la pioggia, il tuono, gli spiriti del tempo, come avrebbe fatto uno sciamano qualsiasi. Eppure Langmuir era quanto di più vicino a uno sciamano si potesse immaginare, con quel suo essere un generalista vecchio stampo in un’epoca postbellica in cui le discipline scientifiche cominciavano a dividersi in compartimenti distinti, e i cui confini si stavano sempre più settorializzando. Era un chimico che aveva lavorato nel campo della fisica, sconfinando spesso nel mondo della biologia, della matematica, persino della psicologia. All’epoca Langmuir era in predicato per dirigere la Commissione per l’energia atomica, un incarico più che prestigioso, ma niente era più lontano dai suoi pensieri delle bombe atomiche e dell’energia nucleare. Lui era sulle tracce di qualcosa di ancora più importante: il controllo del clima.
Al suo fianco c’era Vincent Schaefer, collaboratore apparentemente improbabile visto che non aveva finito nemmeno le superiori, e che il suo curriculum scolastico si fermava al corso di formazione per apprendisti operatori di macchina della GE. Eppure Vincent, a detta di tutti, era un genio. Si era rapidamente guadagnato la fama di saper inventare qualunque apparecchio servisse agli scienziati, e soprattutto aiutava a progettare gli esperimenti con la competenza necessaria, e a Langmuir non interessavano lauree e titoli: a lui interessavano i risultati. E Vince era l’uomo giusto per far parte di quello che sarà battezzato il “Progetto Cirrus” dove, ben presto, verrà cooptato Bernard Vonnegut grazie al fatto che, come ricorda Ginger Strand, aveva inventato – per la sua tesi dal titolo Un misuratore del punto di congelamento – un apparecchio per calcolare il punto esatto in cui l’acqua gelava quando conteneva altre sostanze disciolte.
Le qualità del ragazzo Vonnegut non sfuggirono a Langmuir, e Bernard non lo farà pentire della scelta, soprattutto alla luce della sua scoperta delle fondamentali proprietà “nucleanti” dello ioduro d’argento nell’inseminazione delle nuvole. «Si tratta di un composto con caratteristiche molecolari molto affini al ghiaccio», spiega il climatologo Luca Mercalli, «che, cosparso in finissime particelle sulla sommità di una nube, con temperatura di decine di gradi sotto zero, stimola la formazione di cristalli di ghiaccio precursori di neve o pioggia».
La nuova superarma
Il “Progetto Cirrus” fece nevicare per la prima volta sul monte Greylock, nel Massachussetts occidentale, nel 1946. Giornali e agricoltori ne furono estasiati, finalmente si sarebbe potuta avere pioggia e neve su ordinazione. Le cose – come si scoprirà immergendosi nella lettura di questo appassionante “thriller” atmosferico-storico-letterario – non andranno esattamente come sperato, anche se a vedere future applicazioni ed essere veramente entusiasti erano i militari che, immaginando le infinite possibilità che un’“arma” del genere poteva avere nel creare e reindirizzare uragani e tifoni, produrre siccità o disperdere la nebbia, avevano assunto il controllo degli esperimenti. Insomma, non avrebbero forse avuto a disposizione un giocattolo atomico, ma uno strumento che si annunciava decisamente più importante dal punto di vista tattico. Non a caso il contrammiraglio Luis de Florez, il primo direttore delle ricerche tecniche della CIA, si disse certo che il controllo del tempo atmosferico sarebbe stato la nuova superarma.
E, dal suo punto di vista non aveva tutti i torti, visto che durante la Seconda guerra mondiale le condizioni atmosferiche avevano contato, eccome. Fu la prima guerra, ricorda Ginger Strand, in cui le forze aeree svolsero un ruolo decisivo, nonostante l’aeronautica fosse particolarmente vulnerabile al maltempo: «la nuvolosità interrompeva i bombardamenti; la neve disturbava i segnali radio; il ghiaccio costringeva gli aerei a terra. Mentre pioggia e neve rallentavano i mezzi corazzati, soldati e linee di rifornimento».
Ma non solo. Le condizioni meteo intralciavano anche la marina militare: il giorno del bombardamento di Dresda, nel Pacifico la Terza flotta dovette vedersela con un tifone. La tempesta affondò tre cacciatorpediniere, distrusse centoquarantasei velivoli sulle portaerei e uccise settecentosettantotto soldati, totalizzando un numero di vittime superiore a qualunque attacco giapponese. E non a caso l’offensiva delle Ardenne, quella in cui Kurt fu fatto prigioniero, fu pianificata a dicembre per un buon motivo, ricorda ancora Strand, «la presenza di una fitta nebbia fredda avrebbe disorientato la fanteria alleata, rintanata in buche e trincee, distratta dalla necessità di scaldarsi, mentre lo strato di nuvole avrebbe costretto a terra gli aerei inglesi e americani. Tutto era stato previsto nel piano operativo che il generale Alfred Jodl aveva preparato per il Reichsführer. L’operazione si chiamava, non a caso, Herbstnebel: Nebbia d’autunno».
La macchina di von Neumann
Poi arrivò il tempo dei computer. E le giornate passate dagli scienziati a fare ipotesi per stabilire se una certa distorsione nella struttura delle nuvole fosse stata il risultato della semina di ghiaccio secco o ioduro d’argento, se l’uragano che aveva virato a ovest o a est era merito del “Progetto Cirrus” o meno, erano finite. Grazie alla sempre più elevata potenza di calcolo di questi “cervelli elettronici” (che qualcuno chiamava ancora ”integratori numerici” o “macchine logiche”) si sarebbe dimostrato che molte delle precipitazioni e inondazioni attribuite ai “fabbricanti di pioggia” della GE non erano stati che prevedibili fenomeni naturali. «I giorni in cui le previsioni del tempo si basavano sulla storia e sull’intuizione umana stavano per finire. Il computer sarebbe diventato sempre più veloce e intelligente, avrebbe risolto sempre più problemi umani», scrive la Strand.
Nel maggio 1952 era infatti stata messa a punto la “macchina di von Neumann”, il Maniac – Mathematical Analyzer Numerical Integrator and Automatic Computer, un calcolatore che doveva, nelle intenzioni del suo creatore, «afferrare la scienza alla gola scatenando un potere di calcolo illimitato» – che, grazie alle sue valvole termoioniche e ai cilindri, era in grado di eseguire qualcosa come duemila moltiplicazioni o centomila addizioni al secondo. Una bazzecola rispetto al più scalcinato dei cellulari che abbiamo in tasca, ma avrebbe aperto la strada alla rivoluzione informatica, risolvendo, già allora, una previsione giornaliera del tempo atmosferico in sole tre ore. Non a caso si diceva in giro, come ricorda la Strand, che John von Neumann non fosse umano, che fosse un semidio (la storia affascinante di questo congegno e del suo inventore è raccontata da Benjamin Labatut in Maniac, traduzione di Norman Gobetti, Adelphi, 2023).
E i progressi fatti poi dall’elettronica con l’invenzione dei transistor, più piccoli, più veloci, più durevoli e più efficienti delle valvole termoioniche, renderanno sempre più abbordabile la realizzazione di calcolatori che non dovranno più far muovere pesanti bielle e ruote metalliche, bensì dovranno spostare solo cariche elettriche.
Ma, al contempo, si prospettava quella realtà che Kurt avrebbe descritta in Piano meccanico (Bompiani, 2020, traduzione di Vincenzo Mantovani), libro ferocemente ironico, al limite del luddismo, un forte atto di accusa nei confronti degli scienziati e dell’atteggiamento scientifico di guardare al mondo e a quel progresso che, per motivi diversi, avrebbe cambiato per sempre la vita dei fratelli Vonnegut.
Operazione Braccio di Ferro
Kurt lascerà la GE quando cominciò a guadagnare bene vendendo racconti. La parentesi aziendale gli era servita per sopravvivere economicamente, ma soprattutto gli aveva permesso di sbirciare dietro le quinte di un mondo di magia e fantascienza che avrebbe nutrito la sua fantasia per i giorni a venire. Mentre Bernard non si riconosceva più nell’azienda che lo aveva assunto nel primo dopoguerra, ancora pieno di quegli ideali che gli avevano insegnato nei corsi di educazione civica, a scuola, durante la Grande Depressione. La GE era cambiata radicalmente anche dal punto di vista politico, spostandosi sempre più a destra, mettendo, come ricorda la Strand, sulla lista nera i dipendenti che non collaboravano pienamente con la Commissione per le attività antiamericane del senatore McCarthy. E se era cambiato il paese, anche lui non era più lo stesso. Ora che la chimica era stata superata dall’elettronica, non avrebbe voluto certamente sentirsi dire come e a cosa avrebbe dovuto lavorare, soprattutto se a dirglielo erano dei militari.
Passò a insegnare Scienze dell’atmosfera all’Università di Albany e inorridì quando venne a conoscenza dell’Operazione Braccio di Ferro, quella in cui era stata usata la sua scoperta, l’inseminazione delle nuvole con ioduro d’argento, in combattimento, in Vietnam: l’aviazione aveva eseguito più di duemilaseicento missioni di inseminazione delle nubi sopra l’Indocina, spruzzando ioduro d’argento vaporizzato nelle nubi di Vietnam e Laos con lo scopo di produrre pioggia che spazzasse via i guadi e infangasse il sentiero di Ho Chi Minh, per rallentare le linee di rifornimento e i movimenti dei soldati. La notizia suscitò talmente scalpore che i tentativi di modificare gli eventi atmosferici in tempo di guerra saranno, alla fine, messi al bando dall’Onu. Aveva fatto bene ad andarsene, si disse, e seguire l’esempio di Kurt.
Ricorda la Strand: «Per la prima volta in vita sua, Bernie aveva seguito le orme del fratello, invece che il contrario».