William Klein fotografo chic e choc
Tre sono i grandi maestri di quella che è stata chiamata Street photography: Walker Evans (1903-1975), Robert Frank (1924-2019) e William Klein (1928-2022). Il primo era un aspirante scrittore volto poi alla fotografia; il secondo un fotografo di moda – se ne è andato tre anni fa –; il terzo, Klein, ci ha lasciati l’altro giorno: era un pittore, o almeno così aveva cominciato. Tre autori, insomma, entrati per vie diverse nella storia della fotografia, portatori di una novità visiva che proveniva da altri ambiti.
Nel 1948 il newyorkese Klein, figlio di una famiglia di immigrati ungheresi, arriva a Parigi per studiare pittura. Tra i suoi maestri c’è André Lhote, pittore, con cui avevano studiato diversi artisti poi diventati celebri, e, tra questi, Cartier-Bresson che alla fine della sua carriera tornò alla pittura, rovesciando il cammino di Klein, che a ragione veduta possiamo considerare la sua antitesi: tanto formale è la fotografia del francese, tanto sformata e aggressiva quella dell’americano.
Klein non è solo un fotografo; anzi, a rigore non lo è affatto: usa la fotografia per dipingere, per scrivere, per graffiare, per impaginare e per ritrarre. Fotografo contro la fotografia, quella letteraria, in posa, che vuole raccontare il mondo attraverso la notizia, il contesto, l’avvenimento o l’incidente. Klein, invece no: la sua è una action-photography, come scrive Alain Sayag nel catalogo di una grande mostra di qualche anno fa (William Klein, Éditions du Centre Pompidou et Éditons du Marval), anche questo un oggetto ben diverso da quello dei suoi colleghi, simile ai tanti cataloghi irreverenti che ha prodotto nella sua lunga carriera. Nell’opera dell’artista americano, che per altro iniziò studiando sociologia per fare poi l’assistente a Parigi ad artisti come Léger, domina una fluidità assoluta, una forma di scorrimento, come se il mondo non fosse altro che superficie disposta su un solo lato dello spazio, e come se l’occhio del fotografo (ma anche del cineasta o grafico o pittore o impaginatore, tutte figure presenti in lui) un obiettivo di vetro sempre aperto, pronto a catturare ogni viso, muro, oggetto, vetrina, corteo o palazzo che gli si para davanti. Basta riguardare oggi Roma (1958) e Mosca e Tokyo (1964).
Se Walker Evans fa carezze al mondo, come è stato detto da Luigi Ghirri, Klein sembra prenderlo a schiaffi, così da trascriverne il movimento insensato quasi l’avesse provocato il suo occhio di vetro: la fotografia come choc. Ma al tempo stesso la sua arte è anche chic. Così che si può dire che il suo sia lo chic dello choc. In un testo per Close Up (1989) Klein ha definito le proprie immagini: “Lo choc di Match più lo chic del Bauhaus”. Giusto. Ma è vero solo in parte. Chi ha avuto tra le mani gli splendidi libri consacrati alle città (Parigi, New York, Roma, Tokio, Mosca), sa che lo chic di Klein tende al glamour, senza raggiungerlo mai, e tuttavia lo sfiora, lo corteggia, lo insegue, ma poi si ferma un attimo prima di caderci dentro. David Campany, scrittore, curatore, ma anche artista, in una delle pagine del suo libro Sulle fotografie (Einaudi) si sofferma su un celebre servizio di moda di Klein: Fashion del 1959 per “Vogue”.
Il lavoro per la rivista patinata viene tre anni dopo Life in Good & Good for You in New York: Trance, Witness, Revels, libro fotografico che rivoluzionò il genere e mostrò una città meravigliosa e insieme crudelissima. Se questo volume va “contro ogni regola del buon gusto”, il servizio di moda che imbastisce sul tetto di un palazzo crea un altro spiazzamento. Siamo nello chic, ma non è quello di Avedon, contro cui fotografa Klein, con il suo formalismo da studio – è il Cartier-Bresson della moda, americano tanto quanto Klein è francese.
Qui niente ritratti: il gruppo delle modelle, bellissime ed eleganti, è squadernato sul tetto piatto dell’edificio, due di loro tengono in mano uno specchio, così l’immagine risulta moltiplicata: sono tre mannequin, ma se ne vede una quarta nel riflesso, che non c’è, o è lì accanto. L’inesistenza della moda e insieme la sua esistenza: è l’immagine. Poi Klein fa scendere le ragazze per strada con i loro specchi, “improvvisando pose ironiche, moltiplicando lo spettacolo di cui si prendono gioco”. Klein sa bene che cosa è il gioco della moda: futile, ma serissimo. Ama questa futilità, come accade a un pittore che per dipingere deve usare sia il serio che il faceto, il futile e il grave, l’allegro e il doloroso. Il gioco della moda, come ricorda Campany, lo giocava benissimo. Sulle pagine di “Vogue” il servizio sembrò una parodia ma ebbe un immediato successo. Il che la dice lunga su cosa è la moda come immagine.
Nelle sue fotografie, sfuocate, in movimento, dettagliate, parziali e insieme generali, non c’è dramma o tragedia, piuttosto il loro contrario: il magma della visione caotica che non discrimina se non sé stessa. Quello che resta della lezione della “scuola superiore della forma” di Weimar, da cui viene la sua ispirazione, è semmai l’inquadratura innovativa di Feininger, quella di La cima delle scale vista attraverso l’occhio dell’obiettivo (1925-30), non il rigore formale o il piacere del montaggio e del collage disassato, sbilenco, trasversale, eppure sempre in equilibrio della Bauhaus. Klein è dotato di sguardo eccessivo, non certo problematico. Nessuna delle sue fotografie, impaginate senza cornice, senza margine, spesso spezzandola a mezzo per metterla in pagina (i suoi libri sono sempre innovativi nel lay out), si trasforma in documento: attimi estetici tagliati via nel flusso caotico del reale.
L’ex pittore tende alla ripetizione, rifà la medesima inquadratura, la reitera più volte con disinvoltura, e gli riesce; usa il jump cut tipico dei fumetti, come scrive Quentin Bajac in quel catalogo della esposizione al Centre Pompidou. La sua mano salta, sobbalza, scarta; oppure è la realtà a farlo, perché la realtà non è mai ferma se non nelle immagini degli altri fotografi. Quella di Klein è un’arte gestuale che vira verso il grafismo, come se il mondo fosse un cartellone pubblicitario, una superficie di carta su cui operare continui décollages. Il giovane Klein, pittore negli anni Cinquanta, collaboratore di Mangiarotti per pitture murali, autore di alcune delle più belle copertine di Domus, aiuto regista di Fellini – lo aveva voluto come assistente alla regia per Roma, ma non gli fece fare nulla, o almeno così si tramanda nella leggenda felliniana –, oltre che fotografo stabile di Vogue (è Liberman ad averlo scoperto come fotografo per riprendere New York), si è sempre posto un solo problema: come fotografare senza fare della fotografia?
Le sue sono scene grafiche in cui il mondo esterno appare sotto forma di Remix: registrare su un unico nastro, mescolando suoni e colori, dialoghi e musica, movimenti e segni. Un’operazione di secondo livello, perché l’impaginazione, come la stampa delle fotografie, è per lui remixaggio, tema su cui ha qualcosa da dire ancora oggi e di cui è stato un autorevole esponente. Cos’altro sono i Contacts Peints, dove i fotogrammi sono ridipinti, biffati, giustapposti, se non questo? In quella grande mostra parigina, in cui la sua città di imprinting lo celebrò anni fa, era esposto il lavoro a cui Klein s’era dedicato a partire dalla metà degli anni Novanta: pittura e fotografia, disegno in bianco e nero e colore acceso. Per dirla con una formula: Warhol e insieme la Farm Security Administration. Avrà imparato da lui il giovane cecoslovacco degli inizi, vetrinista di talento, oltre che da Saul Steinberg, altro maestro segreto di quella New York anni Cinquanta?
La grande bravura di Klein è quella di farci percepire il proprio sguardo come naturale, rovesciando le nostre attese, muovendo la macchina e tenendo fermo l’occhio, o agendo al contrario. Il risultato è qualcosa di non-visto, meglio: di appena visto, forma fluens. La sua capacità di essere sempre in movimento è stata divorata dalla moda, di cui è il fortunato beniamino. Perché la moda, la realtà più costruita e manipolata che vi sia, ha bisogno continuamente di sembrare naturale, leggera, immediata, come appare in Fashion. Klein ne è uno dei profeti, il più convincente tra i grandi fotografi del glamour, perché non è mai solo un fotografo, ma appunto qualcosa d’altro. Lo dimostrano i suoi film. Nel 1966 girò Who Are You, Polly Maggoo?, film considerato “la miglior descrizione dell’assurdità seducente della moda” (Campany). Qui la sua diversità, la sua bulimia del reale, raggiunge l’apice insieme alla naturale inclinazione al grottesco.
Ed è nel cinema che il suo sincretismo raggiunge l’apice e ci fornisce, per paradosso, una visione del reale per nulla acquietata o irenica. Con il suo Mister Freedom del 1967-68 (ampiamente copiato da Mattew Barney nei suoi video) produce il fumetto dell’America imperale dell’ultimo quarantennio, mentre con Muhammad Alì the Greatest (rifacimento nel 1974 del film girato nel 1964-65) porta il cinema d’avanguardia dentro il documentario sociale, come confermano le opere cinematografiche sulle Black Panters, sul Festival delle culture panafricane e Grands soirs & petits matins sul Maggio 68 al Quartiere Latino.
Klein rivoluzionario? Sì, ma prima di tutto del gusto. Congedandosi da lui non si può fare a meno di pensare che anche la rivoluzione è, alla fin fine, un fatto estetico e che, caduta l’etica che la sosteneva, ciò che ne resta è un carnevale colorato di cui William Klein è stato, e resta, l’energetico e inesausto ritrattista. Vale Gran Maestro dello spettacolo del mondo!