Xylella, la strage degli ulivi
Anch’io ho un piccolo pezzo di storia personale da raccontare sulla morte degli ulivi. In una delle mie estati al mare, in Puglia, agosto 2014, vado a trovare due amici in Salento. Decido di passare da Alezio, paese a ovest di Gallipoli dove fanno un buon vino, ma sbaglio l’ora. Arrivo a ridosso delle due, in piena controra, quella in cui il sole più morde e tutti stanno rintanati in casa o a mollo al mare, i negozi sono chiusi, il paese è deserto. Decido di prendere la strada della campagna, in cerca di qualche ditta che venda vino. E all’improvviso mi fermo. Un campo di ulivi sembra una landa fantasma, i tronchi grandi e contorti sono disseccati; i rami, di innaturali colori tra il rossastro e il grigio, sono senza foglie, o con foglie accartocciate. Così ho incontrato la peste degli ulivi, la Xylella, l’epidemia causata da un batterio che ha sterminato in pochi anni ventuno milioni di piante nel tacco d’Italia, diffondendosi dalla provincia di Lecce fino a quelle di Brindisi e Taranto e ai confini con quella di Bari. Un intero paesaggio devastato.
Di Xylella trattano due libri recenti, La morte dei giganti di Stefano Martella (Meltemi, 2022) e Il fuoco invisibile di Daniele Rielli (Rizzoli, 2023). Entrambi, in modo differente, legano il disastro naturale a una storia umana e alle storie particolari di singoli individui, vecchi contadini e nuovi imprenditori agricoli, ricercatori e cittadini. Iniziano con viaggi nel paesaggio disseccato, con persone che hanno dedicato la vita a questa pianta che dall’antichità greca segna le coste del Mediterraneo. Rielli inizia da un sogno del nonno e poi, continuamente, ricorda il padre, medico a Bolzano, che appena può scende a curare i suoi ulivi; Martella parte dalla desolazione di Enzo Marzano, 67 anni, che mostra allo scrittore il “Gigante di Alliste”: “il più antico albero di ulivo della Puglia, risalente a circa duemila anni fa, si apre verso il cielo privo di chioma con grandi rami mozzati, in una maestosità amputata, come un re nudo e sfigurato […] circondato di grandi ulivi secchi”.
Quale sogno aveva raccontato, poco prima di morire, il nonno di Rielli? “Un ulivo di una sua campagna, un grande albero che si affacciava verso la strada vicinale, era completamente bruciato. Ed era bruciato senza fiamme, come consumato da un fuoco invisibile. […] Non era stato un normale fuoco a ucciderlo, ma il risultato era lo stesso”.
I due libri narrano quindi, con la forma del reportage, i fatti, incontrando persone che da quando sono stati scoperti i primi sintomi della malattia, nel 2013, si sono occupati della ‘strage’ in diversi modi, con differenti posizioni. Entrambi contrastano le tesi negazioniste e complottiste, a lungo alimentate dalla narrazione popolare di chi non si capacitava che il territorio intero di una parte della regione, basato sulla monocultura dell’ulivo, potesse radicalmente mutare. Rielli costruisce una vera e propria cronaca della scoperta della malattia, ad opera dei ricercatori del Cnr di Bari – Donato Boscia, Maria Saponari e altri –, che dopo le opportune analisi attribuiscono i disseccamenti a un batterio, la Xylella fastidiosa, definita poi del ramo pauca, importato con piante ornamentali dal Costa Rica. La cura dell’infezione dovrebbe essere, secondo i paradigmi dell’Unione Europea, l’eradicazione delle piante infettate e la creazione di zone cuscinetto tra esse e quelle sane, senza peraltro avere la certezza che l’epidemia non si sia già diffusa. I negazionisti, sostenuti da vari personaggi del mondo dello spettacolo, da Sabina Guzzanti a Emma Marrone ad Al Bano e Nandu Popu, frontman dei Sud Sound System, cercano altre cause: funghi, dovuti all’incuria in cui è stato abbandonato il territorio, con vasti appezzamenti trascurati da padroni sempre più inurbati, avvelenamento delle acque e della terra, complotti delle multinazionali, in particolare la Monsanto, che vogliono introdurre organismi geneticamente modificati e colture intensive. Assistiamo a cure più o meno fantasiose, processioni, irrorazioni con ritrovati che richiamano pratiche del mondo magico. Ma l’epidemia continua, colpendo e devastando una coltura in realtà nel Salento poco produttiva, ma molto identitaria, ridotta negli anni principalmente a paesaggio, ma effettivamente abbastanza trascurata.
Di fronte alla scelta, suggerita dagli scienziati e dai protocolli europei, di tagliare le piante infette, il potere politico è prudente se non volutamente elusivo: come nota Rielli, “un politico fa quello che vogliono i suoi elettori ed Emiliano [il presidente della Regione Puglia] è stato votato non solo una prima volta ma anche una seconda”. Il grottesco si raggiunge con gli interrogatori ai ricercatori del Cnr che avevano individuato il batterio e la loro incriminazione con accuse pesanti: “diffusione colposa di una malattia delle piante, inquinamento ambientale colposo, falsità materiale ideologica, getto pericoloso di cose, distruzione o deturpamento di bellezze naturali”. Rielli introduce questa pagina non proprio luminosa dell’operato della magistratura, chiusa con un’archiviazione arrivata tre anni dopo, non a caso con una frase dal Processo di Kafka.
Di fronte al dramma ambientale e umano, di esistenze legate intimamente all’ulivo, i due libri tracciano la storia della coltura dell’ulivo, narrando come nel Settecento vada a sostituire il paesaggio precedente costituito di querce e lecci, e di come l’ulivo salentino abbia sempre fornito, fino all’avvento dell’elettricità, principalmente olio per illuminazione, olio lampante, di bassa qualità, e come solo più recenti siano stati i tentavi di superare questo uso e quello della produzione da taglio, cercando di ottenere prodotto extravergine. Racconta Rielli la vita di uno spremitore di ulive nel secolo dei lumi, in ipogei angusti e malsani, dove si accumulavano olive in stato di fermentazione, in coabitazione con le bestie.
Martella riprende quelle storie e quelle del traffico del porto di Gallipoli, che il lampante diffondeva fino alla corte di Russia. Le integra con le lotte delle raccoglitrici di olive, costrette fino ai primi del Novecento a un lavoro sfiancante, in posizione china, “da stella a stella”, dall’alba al tramonto. Ricorda come l’ulivo, poi, sia stato trascurato e come l’ulivicoltura dal 1966 viva soprattutto di sussidi europei. E l’abbandono favorisce il degrado ambientale. “Da allora, nel Salento, l’ulivo iniziò a legarsi soprattutto al paesaggio. La Puglia, sotto la presidenza di Nichi Vendola, riuscì a reinventare l’immagine di quest’albero, a brandizzarlo, e a renderlo appetibile all’industria turistica. Adesso che anche questo aspetto sta svanendo, il territorio rischia la frantumazione della propria identità economica e culturale”.
Storia economica e storia di persone. Continua Martella: “Per la popolazione salentina è il dissolvimento di una memoria collettiva, lo scioglimento di un legame primitivo, quasi spirituale. Per questo Enzo, il proprietario del ‘Gigante’, richiama il padre defunto e teme la sua immaginaria reazione alla vista del monumentale seccato. Per questo Roberto [Gennaio, un tecnico dell’Arpa che per passione ha fotografato gli ulivi più antichi] ha dato un nome a ogni secolare e torna a contarli, uno per uno, per vedere quale si è salvato”.
Accanto a pagine liriche che descrivono la bellezza meravigliosa di ulivi più che centenari e l’affetto che lega a questi giganti della terra, Martella ricorda qualcos’altro: “Il Salento, a discapito della narrazione commerciale da cartolina esotica, è già terra martoriata da tassi tumorali tra i più alti d’Italia, ospita la centrale a carbone e il cementifico più grandi del paese, l’acciaieria più grande d’Europa [l’ex Ilva di Taranto] e il terminale di depressurizzazione del gasdotto Tap (Trans Adriatic Pipeline). Non si può comprendere il caso Xylella nel Salento e l’isteria di massa che ha provocato, se non si scava nelle ferite più profonde di questa terra, se non si conoscono i demoni che sono penetrati nella mente e nel corpo della popolazione. Il territorio, sotto il profilo dell’impatto ambientale, è saturo. I drammi sanitari hanno attecchito nelle famiglie. Lembi di terra incontaminata sono stati colonizzati e trasformati radicalmente dai grandi colossi industriali, che dopo anni di attività stanno lasciando il conto: delocalizzazione, disoccupazione, inquinamento. Lo sfregio del paesaggio, le neoplasie, le malformazioni neonatali con tassi tra i più alti d’Europa, hanno prodotto paura, scetticismo, una costante percezione di insalubrità mentale”. E hanno rafforzato quello che gli studiosi della narrazione, come Jonathan Gottschall, chiamano i “bias di conferma”, “il processo cognitivo per cui tendiamo a non accettare nuove informazioni se sono in aperta contraddizione con ciò che sta alla base della nostra visione del mondo”. Cito, qui, da Rielli, ma anche Martella dedica alcuni passaggi a questa forma di post-verità, che non si lascia convincere neppure dalla scienza.
Assistiamo a qualcosa che abbiamo visto bene in atto nella pandemia di Covid-19, con la lotta tra scienziati, in quel caso per altro spesso in disaccordo tra loro, e negazionisti. Nel caso degli ulivi gli esiti sono stati a volte grotteschi, come l’esortazione di Nandu Popu a curare l’emicrania: “invece di prendere quelle stronzate, prendete un bel cucchiaio di olio extravergine e vi passa tutto”.
Certo, tra i contrasti radicali, in questi ormai dieci anni di tragedia si sono dispiegate anche posizioni intermedie, paure di ogni tipo, perplessità in parte legittime, reazioni estreme a uno shock post traumatico. Martella, puntando il dito verso una monocultura che in fondo ha reso più fragile tutto il territorio, racconta anche tentativi di uscire dall’emergenza, “partendo da produzioni diversificate e da una biodiversità diffusa, in grado di proteggere le economie dai possibili attacchi, che siano climatici o parassitari. Per rispondere alle sollecitazioni delle fitopatologie, del mercato aperto [quello che non pone filtri se non flebili all’importazione di specie potenzialmente infette], del cambiamento climatico, lo scenario indicato è quello di un sistema agricolo e quindi di un paesaggio resiliente, in grado di modificarsi ogni qual volta una nuova variabile entra nel sistema ecologico”. Riscoprire querce e lecci dove furono impiantati ulivi per la produzione di olio lampante? Non solo: come fanno alcuni agricoltori testardi – Giovanni Melcarne, Mimmo Primiceri, Chiara Paladini e altri – sostituire le piante morte sperimentando l’impianto di varietà di ulivo resistenti all’infezione, vedere sbocciare sui vecchi patriarchi seccati polloni verdi, rendere produttive varietà selvatiche di cui l’Italia è piena. Guardare anche di più ai paesaggi del nord della Puglia, dove varietà di ulivi più giovani, meno monumentali, sono schierati in file ordinate di un’agricoltura più intensiva e razionale, in alternanza con altri tipi di coltivazione.
Speranze, forse flebili, alimentate dalla fiducia nella scienza, che comunque ha sempre modificato quel paesaggio che ci ostiniamo a chiamare naturale; nutrite dal bisogno di sperimentazione, dalla voglia di ripopolare, di vedere tornare verdi le terre ingrigite. Speranze e volontà narrate in questi libri attraverso l’esempio di persone che non si sono arrese nel disastro, in mezzo ai cumuli di tronchi secchi pronti a essere bruciati o sbriciolati e ridotti a lettiere per animali; di individui mossi dall’amore per quegli ulivi che i vecchi, dalle mani nodose come i tronchi, speravano di precedere nel Grande Oblio.
Stefano Martella, La morte dei giganti. Il batterio Xylella e la strage degli ulivi millenari, Meltemi, 2022, pp. 158, euro 15
Daniele Rielli, Il fuoco invisibile. Storia umana di un disastro naturale, Rizzoli, 2023, pp. 304, euro 18.