«Arte» / Yasmina Reza, una Houellebecq in vaudeville

30 Ottobre 2018

Nel bianco tutti i colori scompaiono. Nel bianco tutto si perde, come sotto la neve le cose, le figure. Nel bianco un uomo scia, solo, e poi scompare... 

Serge ha comprato un quadro tutto bianco. O meglio, non è proprio solo bianco: sottili filettature diagonali emergono dall’uniformità monocromatica creando un rilievo e qualche ombra che lascia immaginare riflessi, suggestioni, sotto i margini, di altri colori. Il suo miglior amico (forse), Marc, lo vede. E scoppia in una incontenibile risata inarrestabile, offensiva, quando Serge racconta di averlo pagato 200mila franchi, perché è un Antrios, esprime una ricerca (degli anni ’70, veramente, ma l’artista sta tornando a lavorare in quella direzione), e poi può solo rivalutarsi. Con i due, due borghesi – Serge è separato e ha un ambulatorio, Marc è un ingegnere aeronautico innamorato del passato – c’è Yvan, che ha provato qualche mestiere senza successo e sta per sposarsi con una ragazza che gli ha procurato un impiego come commesso nell’ingrosso di cartoleria dello zio. 

 

Siamo nella Francia di provincia, nei dintorni della metropoli, qualche anno prima dell’euro. Siamo tra i vezzi di un ceto sociale abbastanza benestante, parecchio disperato. Serge misura il proprio successo cercando di essere alla moda, investendo in arte contemporanea, parlando o blaterando di decostruzionismo, eccetera; Marc si fa vanto di condurre una vita appartata, fuori dalle mode, seguendo i consigli omeopatici della sua spigolosa compagna, Paula, nevrotica a suo modo e a tutto tondo, secondo la visione degli amici; Yvan è il vertice accomodante, di scarico, della figura geometrica in cui si può emblematizzare il loro rapporto, un triangolo in cui si attua continuamente un rimescolamento di conflitti e alleanze. Yvan riuscirebbe conciliatore se quel quadro, quel bianco apparentemente pacifico, pacificato, insulso perfino, non bastasse a strappare ogni maschera di politesse e a trasformare il legame tra i tre in un gioco al massacro che porta allo scoperto le rispettive idiosincrasie, le rispettive solitudini, le singolari ferocie dei tre.

 

Yasmina Reza.


Questa pièce teatrale del 1994 porta la firma di Yasmina Reza, drammaturga francese di madre ungherese e padre iraniano che sbanca i botteghini con commedie intelligenti e perfide. L’unica parola del titolo, arte, la mette tra virgolette. Suona perciò, nella recente traduzione italiana per Adelphi di Federica e Lorenza Di Lella, «Arte» (nell’originale «Art»). E le virgolette stanno a indicare, credo, non solo che quel quadro si possa discutere come arte, sempre che si accetti di calarsi nelle rivoluzioni dei linguaggi contemporanei – fa notare Serge – e non ci si ritragga dietro pregiudizi – come accusa Marc di fare. Ma significano soprattutto che l’arte, quella moderna dell’Antrios bianco, ma anche la crosta che si vede sul camino nella casa di Yvan e che sarà opportunamente, ferocemente derisa, o il tradizionale quadro di paesaggio nel soggiorno di Marc sono solo pretesti, maschere appunto, come le virgolette, che nascondono insofferenze, spostamenti, proiezioni, egotismi, nevrosi, sottintesi. Eccetera. Come l’amicizia, come la conversazione che all’improvviso, con un pretesto, si incendia in conflitto.

E sottotraccia, sotto il prezzo del quadro come sotto il costo dell’analista di Yvan, c’è un discorso sul valore, su quanto abbiamo e su quanto dimostriamo di avere, lasciando da parte, nascondendo, velando sotto strati profondi ma pronti a essere strappati, l’essere. Marc, rispondendo a una domanda di Serge, che chiede perché è violento con Yvan, che non ha stigmatizzato il quadro come lui si aspettava: “perché è un ruffiano servile, accecato dai soldi, accecato da quello che crede essere la cultura, cultura che del resto ormai mi fa proprio schifo”.

Pretesti di pretesti, anche che “quel quadro è una merda” (Marc), la bordata iniziale che tutto innesca, oppure il ridere per compiacere l’altro se prima è l’altro a dare il la ridendo, oppure affermare che dietro quel bianco c’è un pensiero, non solo un frammento figurativo spacciato per realtà evocativa come in un tradizionale paesaggio; ma davvero c’è un pensiero, oppure lì c’è solo il niente, che essendo niente, effettivamente, non si può trovare orrendo?… Eccetera, come in un gioco al massacro, in una carneficina che ha per posta l’identità da affermarsi a ogni costo, disgregando anche una piccola insicura instabile microscopica comunità.

 

Un momento di un allestimento francese di «Arte».


Yasmina Reza lo fa con le armi di un umorismo crudele che fa ridere, tanto, a denti stretti. Carica i caratteri, ma non troppo, perché i veli che ricoprono la realtà dei rapporti appaiano con una loro, pur discutibile, plausibilità; affinché l’arte della rivelazione finisca per essere brutale ma non irrimediabile, avvolta da una risata che ci fa dire alla fine: in fondo sono caratteri, umori – alterazioni dell’equilibrio dei flussi vitali si sarebbe detto nell’antichità, alterazioni delle rappresentazioni psichiche del sé diciamo oggi – e come tali si possono emendare, curare. Forse.

È scarnificante e rassicurante nella sua quotidianità di conversazione mai interrotta la lingua di Reza, che ci offre dopo Il dio del massacro (2007, traduzione Adelphi 2011: in realtà «Arte» è scritta prima, anche se in Italia arriva più tardi) un’altra accelerazione verso l’abisso sul quale galleggiano in equilibrio instabile i nostri corretti rapporti sociali. Sotto l’esplosione, sotto la fossilizzazione rimproverata a Marc, sotto il nuovismo a tutti i costi, sotto l’arte “moderna” che deve sorprendere, come Marc rinfaccia a Serge, sotto l’assenza di midollo spinale imputata a Yvan ci sono lo sgretolarsi di un’amicizia, l’emersione della costellazione delle cose non dette e della trama dei rapporti di forza o di debolezza. Ci sono la ripetizione, la convenzione, l’assenza di sincerità. C’è un male che oggi, venti e più anni dopo la scrittura della pièce, è divento la malattia alla moda: il sospetto, che allontana dagli altri, li rende temibili, ci rinchiude nelle patrie sempre più piccole, in questo caso nelle nostre stesse monadi, alimentando diffidenza che si trasforma in odio.

 

Reza ha raccontato più volte l’accelerazione della disperazione nella carneficina psichica (nel Dio del massacro due coppie riunitesi per risolvere civilmente una violenta lite tra i figli preadolescenti finiscono per farsi a pezzi), nell’omicidio per futili motivi (nel romanzo Babilonia), l’esaurimento delle possibilità di rapporto, la casualità di relazioni opacizzate dall’abitudine, dalla passività, pronte a deflagrare o a consumarsi in un quietismo disperato. La scrittrice ci racconta il quotidiano ribollente di mostri, che riusciamo con sempre maggiore difficoltà a tenere a bada. 

Alla fine in «Arte» sembra arrivare una conciliazione, i tre paiono ritrovare un intento comune. Affogano in un’azione liberatoria sul quadro i contrasti verbali che costituiscono la fitta trama della commedia, svolta in tre ambienti neutri, simili l’uno all’altro, anzi lo stesso, intercambiabile, per rappresentare le case dei tre personaggi. Sporcano il bianco dell’Antrios con un disegnino colorato, insieme, un uomo che scia nella neve: come a dire che bisogna darsi un intento comune e passare dal pensiero (dal concettualismo) e dal conflitto verbale alla creazione concreta, alla performance, allo scarico fisico. Ma un altro finale è in agguato…

 

Questa autrice ricorda, con inclinazioni diversissime, Houellebecq, anche se lo sguardo spietato dello scrittore, cinico e senza speranze, è più profetico, mentre quello di Reza, intinto nel vaudeville con comicità all’acido cloridrico, si ferma a decifrare la società borghese basata su vanità, finzione sociale, solipsismi. Questi francesi, mi sembra, diversamente ci descrivono con bisturi chirurgico il mondo della metropoli globale, nella quali navighiamo tutti alla deriva, senza neppure più la rassicurazione della piccola Itaca antica dell’amicizia, della relazione affettuosa faccia a faccia. Ognuno per sé, con sospetto e odio. Disperatamente, con livore o crudele umorismo.

 

Di Yasmina Reza si può vedere in tournée un nuovo urticante divertente lavoro ancora inedito, Bella figura, con Anna Foglietta, Paolo Calabresi, Lucia Mascino, David Sebasti, Simona Marchini, regia di Roberto Andò, una produzione Gli Ipocriti (alla Pergola di Firenze dal 30 ottobre al 4 novembre, poi Salerno, Ancona, Pistoia, e dal 9 al 27 gennaio all’Ambra Jovinelli di Roma).

 

Yasmina Reza, «Arte», Adelphi, pp. 101, euro 10.

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