Absolute Everything: la Palermo di Vasta e Fazel 

21 Settembre 2022

Vedere un luogo, scriverlo, sono probabilmente tra le azioni più complesse nel ventaglio di possibilità psichiche, organiche, motorie, emotive in cui l’uomo possa cimentarsi: tra le variabili umane, geografiche, linguistiche, storiche, l’ultima variabile fondamentale che ne determina il risultato è lo sguardo stesso che cerca di vedere, di scrivere – sapere cosa cerca, da dove arriva, per quali strade è giunto lì. Il libro edito da Humboldt Books Palermo – Un’autobiografia nella luce è l’elegantissimo, potente esempio di quanto gli occhi e la parola possano trovarsi abbagliati, disorientati nel complesso di un’urbanità che non lascia scampo, di un’umanità che senz’altro è lì, sempre apparentemente uguale a se stessa, da millenni.

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Il duetto che Giorgio Vasta e il fotografo Ramak Fazel portano in scena è pressappoco teatrale, miniato sul midollo di quella che è sofferta patria per Vasta, allunaggio per Fazel. Le prime quaranta pagine che Vasta ha composto risuonano maggiormente nel sottotitolo: l’autobiografia dello scrittore intreccia i piani temporali e spaziali in un impeto estremo, quasi si fosse trovato a potersi finalmente confessare a se stesso per giungere infine in quel punto luminoso che è il guardarsi davvero.

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L’ossessione che fin da piccolo gli occhi di Vasta hanno per la luce, espressa lucidamente nel fiato trattenuto sulle candeline del suo quarto compleanno, nei film di Bresson e Cassavetes in cui la luce è padrona selvatica e indomabile, nei lunghi pellegrinaggi compiuti tra le stesse vie, nelle stesse camere d’albergo, svela l’insofferenza di un “wanderer” divenuto cosciente di una meta da dover raggiungere, ma senza sapere quale, o dove.

Il flusso, considerabile una vera prosa poetica, ricorda quasi più un Sanguineti nei momenti di lirica sincerità che un Joyce, il grado di prostrazione anche alla luce più flebile rende doveroso seguire dalla prima all’ultima riga il monologo-viaggio risolutivo di Vasta. Viaggio che condurrà proprio a Palermo, nelle strade dell’infanzia, nella casa all’Addaura in cui ospiterà Fazel per guardare per un periodo Palermo con lui. Così, come accade nelle sinfonie, all’adagio seguirà un movimento che prenda il tema lirico di quello precedente per risolverlo e rinnovarlo, e Ramak Fazel, percorrendo con Vasta le pregne strade palermitane, propone il proprio sguardo abbagliato, abbagliante.

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Dopo poco più di un anno, Ramak Fazel racconta al pubblico una storia ben diversa da quella che, nel marzo 2021, aveva iniziato a divulgare della Silicon Valley, in California: questa volta il fotografo si trova proiettato nella stratificazione, nello spazio eterogeneo, nel centro e allo stesso tempo al limite della civiltà tutta. Anche in questo caso, per affrontare il viaggio, Ramak Fazel imbraccia la sua Rolleiflex, anche questa volta usata come mezzo d’indagine sui misteri che immaginiamo averlo circondato giorno dopo giorno.

Raramente si vede letteratura e fotografia dialogare insieme in questo modo, indipendentemente pur rimanendo complici, come le due colonne a elica del DNA: nelle immagini inghiottite dal flash di Fazel ritroviamo l’abbacinamento di Vasta nello scoprire il ponte che lo lega alla sua luce, alla luce di Palermo; ogni scena descritta verbalmente crea l’aggancio “filamentoso” – come direbbe Vasta – ma resistente, per l’innesto della base azotata sull’altra colonna. A quella che pare un’improvvisazione su un pianoforte, Fazel contrappone scorci di vie, scenari umani dei più disparati, famiglie a cena su tovaglie di cera a quadretti verdi, processioni, pescatori, motociclisti, ognuno colto in una luce non più propria, ma universale, asetticamente democratica, posta a rispondere non più al dove, ma semmai al chi, al come, al perché di ciò che illumina.

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Sempre senza titoli, come già nel lavoro della Silicon Valley, le immagini sono il secondo flusso in cui il libro conduce, il disorientamento naturale – geografico e simbolico – in cui accade di trovarsi. Vasta, infatti, facendo riferimento a un progetto precedente svolto con Ramak Fazel, così parla del lavoro su Palermo: “[...] se i deserti nordamericani di Absolutely Nothing ci erano serviti a descrivere il senso di rarefazione vissuto all’ingresso della cosiddetta età adulta, Absolutely Everything avrebbe aggiornato quel discorso chiarendoci che la vita adulta è davvero un tempo smisurato e disperso [...] e ci piaceva l’idea di passare dal nulla dei deserti al tutto di Palermo [...]”.

Un viaggio come allegoria multipla e molteplice, in cui non solo la città diventa il dedalo in cui l’esistenza può trovare svolgimento, ma anche l’Itaca di un Ulisse di nuovo bambino, come nei quadri di De Chirico. È a Palermo infatti che Vasta ritrova i vecchi filmini che ritraggono i suoi primi giorni di vita e scopre di essere stato, un tempo, guardato da uno sguardo colmo di paura, comprendendo che quel genere di paura non è la stessa che lo conduceva via dalla città natale, ma l’anticamera dell’amore incondizionato. Tornare a casa, così, significa tornare a sé, alla prima vera luce in cui il mistero della vita diventa intimamente connesso al miracolo del guardare.

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Ed è in questo modo che il salto dalle parole alle immagini diventa forse più innocuo e indolore, sebbene significhi per forza crescere, e guardare le cose con i filtri propri di chi è destinato a sopravvivere: così allora Fazel diventa guida di un mondo meno edulcorato, privato delle sfumature del sentimento e del ricordo, per dare al luogo stesso un nuovo senso.

Palermo non è più principio o meta di una vita, è vortice a spirale, come in Hitchcock, e solitaria: pochissimi soggetti nelle immagini di Fazel ci guardano negli occhi, ci invitano a sedere in mezzo a loro. Dall’uomo che legge il giornale col titolo “Rifiuti” che più volte ritorna anche nell’immaginario di Vasta, alle ragazze indiane che passeggiano, alle donne impellicciate che orgogliosamente ci voltano le spalle per perdersi nella fisiologica penombra in cui anche il flash riduce i suoi soggetti, ogni cosa compie il proprio stesso scorrere, non badando alla luce che lo genera e incorona.

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La luce di Fazel è un’aura breve, artificiosa, scavalcata la quale impera il buio nonostante possa essere anche pieno giorno; ed è così che congelare una vita mentre si compie diventa un’operazione altrettanto estrema quanto riassumere la propria nella lucida ossessione che l’ha sotterraneamente guidata per anni. 

Il molteplice, l’“everything” di Palermo, viene così sezionato da Fazel in porzioni singole e a sé stanti, analizzato un atomo per volta, estratto dal suo secolare e quotidiano fluire: a ogni pagina l’occhio si chiude e si riapre su un attore differente, un significato nuovo ma partecipe dell’insieme in cui è compreso. Se è vero che il tutto è più dell’insieme delle sue parti, il discorso di Fazel rende l’assioma inequivocabilmente esplicito, prendendo in considerazione ogni cellula dell’organismo nella sua esistenza univoca. 

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Il passaggio dalla Palermo di Vasta a quella di Fazel pare quasi quello che nel corso dell’evoluzione ha portato alla nascita delle piante carnivore: se prima la città, nei ricordi e negli sguardi sempre più consapevoli di Vasta, si nutre di una luce naturale, della sua propria luce, di quella che il Sole genera sbattendo sui suoi palazzi, le sue strade, le sue persone, in Fazel la fotosintesi si interrompe in favore del fagocitamento carnivoro della luce artificiale. Chi guarda è preda di una Palermo viva pur nella propria immobilità, lucida anche nelle proprie penombre, esattamente come Vasta nel narrare il suo approssimarsi alla meta.

La fotografia, a differenza della letteratura, è difficile che possa inventarsi qualcosa, intersecare i piani spaziali e temporali, ed è per questo che così bene si sposa all’intreccio narrativo di Vasta. Il continuo rimarcare il presente delle immagini di Fazel propone un contrappeso necessario al girovagare figurato in cui ci conduce Vasta, al labirintico peregrinare nei recessi della memoria. A tutto questo risultano fondamentali un qui e un adesso non tanto utili a proporre un inverosimile orientamento tra le strade palermitane, quanto a confermare una presenza e, quindi, un’esistenza: così come Vasta trova il nucleo della sua ricerca nel primo degli sguardi, anche Fazel ricalca il concetto di un vedere imprescindibile per la vita di un qualsiasi fenomeno. 

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Allo stesso tempo, se gli anni si possono ricomporre in qualche secondo per guardare una fotografia, allora il tempo risulta una finzione finalmente non solo letteraria, ma anche fotografica. Così è possibile contemplare davvero l’esistenza del dinosauro con cui va a chiudersi l’intero viaggio, che è stato pellegrinaggio e ritorno verso una luce che si scopre essere anche dominio della letteratura, e non solo della fotografia. 

Non può esserci seguito a un lavoro simile; il progetto su Palermo condotto da Vasta e da Fazel costituisce l’atto unico così come lo costituisce l’età adulta che si propone di rappresentare, ed è così che Palermo stessa non trova più storia se non nel suo presente avulso dal tempo, nel suo esistere solamente sotto lo sguardo di chi la vede. Un simile processo genererà necessariamente una sospensione, quell’immobilità possibile di chi vive nel tempo, e di chi, nel tempo, ha imparato a vedere e ad essere visto. 

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