Addio alla prossemica
Chi ricorda la prossemica? Chi ha tuttora presente quell’affascinante serie di studi che, venti o trent’anni fa, cercavano di osservare i comportamenti delle persone, e soprattutto i modi con cui esse si accostano o si distanziano reciprocamente? Pochissimi ritengo, almeno fra i matti gestori di quelle odierne sale cinematografiche che sempre più affliggono le nostre serate libere, la nostra inesausta voglia di godere delle magie del grande schermo. Sentite che cosa mi è successo qualche tempo fa. E ditemi se non sarebbe il caso di rendere obbligatoria, a certi personaggi, la lettura di un libro luminoso come La dimensione nascosta di Edward Hall o di certi scritti del mai troppo compianto Erving Goffman.
L’idea era semplice: niente di meglio che andare a vedere il pluripremiato The Artist, film muto sul film muto, nostalgicamente in bianco e nero, in un vecchio cinema di periferia, meglio ancora se in provincia. Immaginiamo compiaciuti sedie cigolanti col velluto rabberciato, un cinefilo d’antan al botteghino e l’odore acre di umidità dalle pareti: un’esperienza estetica tanto vintage da far invidia a Peppuccio Tornatore.
L’occasione si è presentata durante le sonnacchiose feste natalizie, quando nel corso di un piccolo giro per
Quando finalmente il gestore ci fa accomodare, compunto come un bancario alle prime armi, si mette l’aria più professionale che può e ci chiede: “sala o tribuna?”. “Mah, faccia lei, non c’è nessuno”, replico sorridendo. Lui si irrigidisce, prova a celare l’incazzatura, e precisa: “È per i posti numerati. Non vi preoccupate, vi do i migliori”. Capisco che è meglio tacere, allungo i soldi e ritiro i biglietti. Entrando nella sala deserta e gelida, tutto è impeccabile: pavimenti lustri, pareti inappuntabili, sedili con la stoffa profumata e, soprattutto, rigorosamente numerati per fila e seduta. Altro che esperienza vintage. Sembra di essere in una multisala da centro commerciale.
Raggiungiamo i sedili G5 e G6, proprio al centro, di quelli che puoi allungare i piedi e guardare lo schermo senza nessuna testa di spilungone che si agita davanti a te. “Effettivamente sono i posti migliori”, commentiamo inorgogliti, posando capotti e borse ai lati della nostra posizione – è il caso di dirlo – esclusiva. Ma dopo pochi minuti entrano due persone, anch’esse col biglietto numerato in mano e… vengono a sedersi vicino a noi. Non vicino per modo di dire, ma proprio attaccati, nel senso che ci chiedono di spostare i nostri effetti personali per accomodarsi nel posto dove li avevamo appoggiati e condividere i nostri braccioli, mescolando il fiato delle nostre bocche con il loro. “Ci hanno assegnato questi sedili”, si giustificano serissimi. Passa qualche altro minuto e succede la stessa cosa dall’altro lato. Il tipo alla cassa, pignolo e vendicativo, ha colpito duro.
Ecco allora – al momento in cui si fa buio e parte il film – sei persone, tre coppie fra loro sconosciute, sedute vicino-vicino-vicino mentre tutto il resto della sala è vuota. Io voglio cambiare posto, ma la situazione mi intimidisce. E desisto. Poggio il cappotto nel sedile davanti, un po’ distante, e i quattro mi guardano male. Lo riprendo, lo piego nelle ginocchia, e così resta per le due ore del film. Mi faccio piccolo piccolo, scomodissimo, dando e ricevendo gomitate con il mio vicino per tutto il tempo dello spettacolo. Nuovo Cinema Inferno?