Alexandre Kojève. Diario del filosofo

14 Novembre 2013

Un’aura di leggenda ammanta i seminari sulla Fenomenologia dello Spirito di Hegel che Alexandre Kojève tenne a Parigi fra il 1933 e il 1939, presso l’École pratique des Hautes Études. Erano in pochi ad ascoltarlo, ma tra di loro si potevano annoverare Merleau-Ponty e Lacan, Leiris e Bataille, Breton e  Caillois. Da quei seminari, raccolti da Raymond Queneau, nascerà nel 1947 L’introduzione alla lettura di Hegel (Adelphi, 1996), inizialmente conosciuta in Italia nella versione parziale dal titolo La dialettica e l’idea della morte in Hegel (traduzione di Paolo Serini, Einaudi, 1948).

 

 

 

Nato nel 1902, Kojève apparteneva all’intelligencija esule dalla madre Russia dopo la rivoluzione d’ottobre. Nipote di Vasilij Kandinsky (il suo Kandinsky è tradotto da  Quodlibet), membro della classe borghese dedita ai commerci, Kojève se ne va dalla Russia nell’autunno del ’20; finisce in carcere in Polonia sospettato di essere una spia sovietica e perde la valigia in cui custodiva le sue riflessioni giovanili. Dovrà riscrivere il suo Diario del filosofo, ora edito da Aragno e curato dal massimo studioso italiano di Kojève, Marco Filoni.

 

Marco Filoni

 

Nell’officina giovanile del Diario già si delinea la molteplicità d’interessi del pensatore: la filosofia classica pagana e le religioni, con particolare attenzione ai culti orientali, in primo luogo a quella religione “senza Dio” che è il buddismo; le novità scientifiche del primo Novecento, accostate con presunzione adolescenziale: “è possibile che dopo di me la matematica subirà una svolta analoga a quella che subì nell’antichità classica agli albori della cultura occidentale”. L’elemento dominante è costituito dalla messa a tema della nozione di “inesistente”: anche il non-essere, essendo un prodotto del pensiero, è reale, argomenta il giovane Kojève; e se la religione è un modo per pensare l’inesistente, l’arte è un tentativo di rappresentarlo.

 

Attraverso gli abbozzi di una “filosofia dell’inesistente” (per formulare la quale spesso soccorre il lessico del taoismo), si delinea una sorta di fragilità del pensiero e dell’esistenza umana, segnata dalla consapevolezza della morte. Non si può fare a meno di pensare che Kojève si apra già il sentiero verso quell’“immane potenza del negativo” che è al cuore della dialettica hegeliana; la cifra dell’umano diverrà per lui la negatività, intesa in primo luogo come libera capacità di trasformazione della realtà.   
    Prima di giungere in Francia, naturale approdo degli esuli russi, Kojève si laurea ad Heidelberg con Karl Jaspers con una tesi su Solov'ëv (si veda Sostituirsi a Dio. Saggio su Solov'ëv, curato da Marco Filoni per le edizioni Medusa, 2009).

 

Alexandre Kojève

 

Sulla cattedra parigina sostituisce un altro esule russo, l’amico Alexandre Koyré; e non è certo casuale che, nel clima revanscista del tempo, la cultura francese affidi a stranieri la riscoperta di Hegel. Era il momento di altre “rinascenze”, quella di Kierkegaard e degli inediti giovanili di Marx. Nel ’29 Jean Wahl aveva attinto al serbatoio hegeliano per delineare la condition humaine in chiave esistenzialista (La coscienza infelice nella filosofia di Hegel, Laterza).

 

Koyré rilegge invece Hegel alla luce della fenomenologia e di Heidegger. Riporta così alla specificità dell’autocoscienza umana quanto Hegel attribuiva in generale alla realtà, cioè la negazione dialettica del dato; anche per suggestione bergsoniana, Koyré contrappone alla temporalità astratta della fisica, al tempo uniforme degli orologi, il “tempo stesso”, spiritualità, vita che si arricchisce. Di qui prenderà le mosse Kojève per sviluppare un’ontologia radicalmente dualista: da un lato la dialetticità della dimensione umana, abitata dalla Differenza e dalla Negazione che costruisce la temporalità storica, dall’altro l’identità spaziale e statica della natura.

 

Il tempo storico non è però segnato soltanto, in termini marxiani, dall’escatologia del futuro, ma anche da quella finitudine che Heidegger aveva indicato come propria dell’esistenza umana. È la storia stessa ad essere invocata da un futuro che è fine nel duplice senso del termine: termine e compimento, conclusione e realizzazione. L’aspirazione del sistema hegeliano a cogliere il vero, cioè la totalità, diventa possibile solo quando il futuro si è estinto e la storia è giunta al suo termine.

 

Jean Paul Sartre

 

Nella rilettura kojèviana della Fenomenologia, la dialettica della storia si fonda sul desiderio di riconoscimento. Il desiderio è desiderio dell’altro, di ciò che l’altro desidera ed insieme desiderio che l’altro ci desideri: “umano è desiderare quel che desiderano gli altri”, ad anticipare il desiderio mimetico di Girard. Da Marx Kojève trae un’antropologia secolarizzata in cui, attraverso la Lotta ed il Lavoro, si compie la trasformazione che, liberando il Servo dalla natura, lo libera dalla sua natura di Servo. Si tratta (lo noterà Derrida) di rifondare in senso non metafisico la “realtà umana”, come farà Sartre: L’Essere e il nulla (1943) accoglie la lezione di Kojève per cui la relazione con la mera oggettività rischia di annullare l’uomo nelle cose, di sprofondarlo nella “nausea”. La coscienza scopre la propria autenticità solo quando è vista dall’Altro, come nelle  famose pagine de L’essere e il nulla dedicate alla vergogna.

 

Grazie ad una contaminazione di imprecisione filologica e rigore filosofico,  Kojève (“l’occulto maestro del Novecento”, lo ha definito Antonio Gnoli) porta Hegel nel Novecento e/o il Novecento in Hegel, facendolo diventare il crocevia da cui si dipartono correnti esistenzialiste, marxiste e freudiane. Ma è alla dottrina della “fine della storia” che il nome di Kojève resta legato.

 

Caillois ricorda che, nella conferenza tenuta al “Collegio di Sociologia” nel 1937, Kojève si era soffermato sull’immagine hegeliana di Napoleone, lo “spirito del mondo” a cavallo, che segnava la vittoria degli ideali della Rivoluzione francese, preludio dell’imminente formazione dello “Stato universale e omogeneo”.  Se la Storia è la progressiva soddisfazione del desiderio di riconoscimento, quando l’intera umanità sarà riunita sotto uno Stato garante dei principi di legalità e libertà non resterà altro da fare che “allineare le province”, estendere cioè i principi dello Stato liberale.

 

Dopo aver partecipato alla Resistenza, Kojève diventa consigliere per gli affari economici dello Stato francese: è fra i promotori degli accordi tariffari che regolano il commercio internazionale, collabora all’opera di costruzione dell’Europa, contrappeso alla potenza degli USA che giudicava il paese più anti-filosofico del mondo. È su questa seconda parte della sua vita, sotto le vesti di “funzionario dello Spirito del mondo”, che si soffermano alcuni dei ricordi raccolti da Marco Filoni in Kojève mon ami: da Léon Poliakov ad Allan Bloom, da Raymond Barre a Raymond Aron, si disegna la figura dell’eminenza grigia della politica commerciale francese, abile negoziatore e raffinato dialettico (in senso più sofistico che hegeliano), impegnato anche a favorire i paesi in via di sviluppo.

 

Sullo sfondo restano le tante leggende che si sono costruite sulla sua vita: simpatizzante stalinista e al servizio del KGB; asservito alla ragion di Stato e non più a quella della filosofia; falsario del marxismo, al punto di affermare, provocatoriamente, che il solo grande marxista del XX secolo era stato Henry Ford.

 

Carl Schmitt

 

Kojève ritiene chiusa con il dopoguerra la storia della politica intesa come conflitto tra amico e nemico, secondo la definizione di Carl Schmitt, con cui ebbe modo di confrontarsi. Si tratta ormai di dare pratica concretezza all’Impero, contrassegnato dal diffondersi globalizzato delle norme giuridiche e dall’omologazione degli stili di vita, ridotti allo standard dell’american way of life. La “storia degli effetti” del pensiero di Kojève approda al fin troppo discusso La fine della storia e l’ultimo uomo di Francis Fukuyama (Rizzoli, 1992).

 

Francis Fukuyama

 

Una prospettiva che certo Kojève avrebbe guardato con il distacco del Saggio a cui non resta che giocare con le sorti del mondo: anch’egli sdoppiato, come i protagonisti de I fiori blu di Queneau, fra il duca d’Auge, in cerca dell’azione fra i rimasugli della storia, e Cidrolin che, disteso sulla sua chiatta immobile sulla Senna, vive la “domenica della vita” ed osserva il passato con l’occhio di un turista disincantato.

 

Questo pezzo è precedentemente apparso su Il manifesto

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