Addii / Bruno Ganz: recitare l'utopia
Bruno Ganz con le ali, sopra Berlino. O con i baffetti corti, alla Hitler. Con un recente barbone bianco. Queste sono le immagini che forse rimarranno negli occhi di chi ha appreso, ieri mattina, della morte dell’attore svizzero, reso popolare dal cinema ma nato nella fatica dialogica del teatro, tra i sogni di un’epoca che sembra ormai lontana. Giovane, vestito tutto di nero, si vede nella parte del dottore in uno dei drammi urticanti di Thomas Bernhard, L’ignorante e il folle, che si svolge nella prima parte nel camerino di una cantante che interpreta la mozartiana Regina della notte, pronto a lanciarsi in lunghe tirate con lo stile dell’ossessivo squarciante autore austriaco sulla differenza delle personalità artistiche rispetto agli altri esseri umani, continuamente sospese tra la meraviglia e la patologia, l’eccezione che rivela l’anima e apre i crepacci dell’ansia, come in equilibrio su una fune da cui si può facilmente cadere nel vuoto nero.
E lui, Ganz, è stato un grande artista, maestro della sottrazione, di una sprezzatura che portava le note più aspre con un’eleganza all’apparenza non incrinabile. Era cresciuto in quella straordinaria fabbrica di attori che è stato il collettivo della Schaubühne am Halleschen, fondato e diretto da Peter Stein, con compagni quali Edith Clever, Jutta Lampe, Michael König. Era il ’68 tedesco e lui e Stein si erano conosciuti da poco. Rinnovarono profondamente non solo la scena germanica ma quella europea, legando l’interpretazione dei testi, sempre densa, preparata da studi approfonditi, all’invenzione spaziale rivelatrice, cimentandosi con drammi del potere come il Torquato Tasso di Goethe (1969), con un busto del poeta salernitano su un grande prato fatto di una moquette verde, a rimembrare gli scontri con la corte estense e con un potere immutabile, davanti a fondali di plastica e richiami all’epoca dell’autore, l’olimpico Goethe. Prima c’era stato Brecht, sempre con Stein, Nella giungla della città, e ci sarebbe stata La madre. Poi verranno molti altri titoli, tra i quali Il principe di Homburg, romantica ribellione nel nome del sogno e della gloria del giovane principe di Homburg a un sistema meschino, sempre con la regia di Stein.
Erano gli anni in cui si credeva che l’immaginazione avrebbe forgiato un mondo nuovo, e lui, Ganz, con quell’aria sorniona e seria, ambigua e coerente, affidabile e pronta a ogni scatto verso l’utopia sembrava incarnare nelle menti di noi spettatori inquieti l’idea del ribelle, posato ma pronto all’atto esemplare, eroico, al sacrificio, a dare la vita per l’ideale, magari dopo opportuna, dialettica riflessione.
Svizzero, di madre italiana, era arrivato nel teatro tedesco nel 1962: collaborerà, oltre che con Stein, con registi come Peter Zadek, Claus Peymann, Klaus Michael Grüber, Luc Bondy, Dieter Dorn, ossia la scena che attraverso testi classici e contemporanei cerca di scavare, di rovesciare sviluppando la lezione brechtiana, i tempi che viviamo. Ganz lo ritroviamo in quel disegno ciclopico che è AntikenProject, nel brano firmato da Grüber dalle Baccanti di Euripide, l’estasi contro lo stato – se vogliamo – una storia promossa ancora da Stein preparata con viaggi in Grecia in cerca delle vestigia antiche, per essere prima che interpretare. È lui che dà corpo, per Grüber e poi per Stein, a due prototipi del romanticismo precoce e tardo e ai loro rovelli filosofici: all’Empedocle di Hölderlin per Grüber, che si chiude nel silenzio finale, prima del precipizio nella lava dell’Etna, e al Faust di Stein del 2000, grande creazione di summa per Vienna, in una concezione del teatro come affresco polifonico dentro le questioni umane, in un nuovo clima in cui la ribellione ha lasciato il posto alla riflessione sulle ferite ancora sanguinanti o appena rimarginate.
Ma la sua aria che scruta, che guarda da lontano, che medita, la ritroviamo nei film, in quegli angeli del Cielo sopra Berlino che osservano i dolori degli uomini e, nel caso, di Ganz, decidono di parteciparvi, di sporcarsi di umanità. Quella sua faccia dolente, scolpita, era la stessa che avevamo (e avremmo in seguito) ascoltato leggere classici e i contemporanei Botho Strauss e Peter Handke, e interpretarli, in un’idea di recitazione che è sempre scavo, tentativo di rivelare qualcosa che sappiamo e che abbiamo dimenticato.
Si può continuare a elencare, in disordine, al cinema: Pane e tulipani, La marchesa di O*** di Eric Rohmer, L’amico americano, Nosferatu, La donna mancina e L’assenza con Peter Handke, il controverso Hitler, Heidi.
Con Bruno Ganz se ne va, soprattutto, una ormai lontana, forse dimenticata, stagione di sogni, di utopie, quando recitare non era conquistare una ribalta personale, ma disegnare, in ensemble, un problema, un tema, delle vite, scavare nel muro dell’indifferenza e del benessere sociale crepe che permettessero di immaginare che il cambiamento, collettivo, è possibile. Che la poesia è necessaria in un mondo mercantile. Questo è stata la vecchia “scuola” Schaubühne, quel meraviglioso gruppo di lavoro che ha prodotto l’arte sensibile discreta acuminata di Bruno Ganz, morto a 77 anni un giorno di febbraio nella sua Svizzera.