Daria Deflorian, la ricerca di sé

29 Luglio 2023

Perché mi vengono in mente Blowin’ In The Wind di Bob Dylan e Propp, l’autore di Morfologia della fiaba, leggendo Qualcosa di sé, lo studio di Rossella Menna su Daria Deflorian e il suo teatro? Il titolo del libro fa intuire che questo non è un semplice saggio, se pure del libro scientifico ha l’andamento, la profondità di scavo e la ricchezza dei riferimenti. È un ritratto che prova ad arrivare (e ci riesce) al nocciolo dell’anima di un’artista assurta alla fama europea, insieme ad Antonio Tagliarini, con un teatro che gioca in modo leggero e serissimo a mettere in scena sé stessi, tra presenza assoluta, scorticata, del performer e finzione, in quella che il critico Renato Palazzi ha felicemente definito “immedesimazione senza personaggio”, un appoggiarsi a strutture narrative, teatrali ma anche cinematografiche e letterarie, per scoprirsi, rivelarsi e così andare a indagare oltre a sé stessi il mondo circostante e le sue crisi. 

Allora Bob Dylan: “How many roads must a man walk down / Before you call him a man?”, quante strade deve percorrere un uomo (ma anche una donna o comunque una persona), prima di vederlo compiutamente realizzato (traduco liberamente). E Propp nella sua Morfologia della fiaba: la storia dell’eroe che, mosso da una mancanza o da un danneggiamento, attraverso prove e qualche insperato aiuto magico arriva a realizzare il proprio destino fino a quella sospensione, che lascia aperta ogni strada futura, del “…e vissero tutti felici e contenti”. 

Un’altra breve digressione: il libro (per questioni editoriali o, sono più propenso a credere, per scelta radicale) è illustrato con fotografie in bianco e nero. Mancano le foto di scena vere e proprie (d’altra parte quelle degli spettacoli di Deflorian/Tagliarini in questi anni hanno molto girato) e quelle presenti configurano una specie di album dei ricordi, dai diciotto anni ai primi book fotografici, a qualche prova di abbigliamento per la scena (lo chignon per L’origine del mondo di Lucia Calamaro), e finiscono con la felicità del matrimonio con il critico Attilio Scarpellini un paio di anni fa, una svolta di amore e tranquillità dopo una vita avventurosa se non travagliata. 

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Roma, via Casilina Vecchia, 1991, ph. Serafino Amato. 

Menna racconta una vocazione artistica, all’inizio abbracciata un po’ per caso, con l’iscrizione al Dams e a una scuola di teatro a Bologna nei tardi anni Settanta; sviluppatasi per prove, fallimenti e resurrezioni, con grande tenacia, soprattutto quando Daria Deflorian inizia a vedere con chiarezza che quella artistica è la sua strada. All’inizio di tutto c’è un paese in una valle del Trentino, e la fuga, come tanti dalle piccole patrie di provincia, in cerca di un luogo dove qualcuno ha suggerito che si può “vivere la propria vita” (il Dams). Poi a poco a poco, abitando in case studentesche sovraffollate e in condizioni sempre precarie, c’è la scoperta che quella strada un po’ misteriosa, da rivelare correndo l’avventura, è proprio la propria, quella che può meglio far emergere la personalità e affinarla, che può essere farmaco alla solitudine e all’insicurezza esistenziale; una strada che non si realizza nel narcisismo del palcoscenico ma che esplora esperienze e relazioni, accompagnata da letture che chiariscono la persona a sé stessa. Artisticità che è un mettersi alla prova per sperimentare, inventare mondi, e tra questi trovare il proprio.

Nasce l’avventura nella grande città, con il trasferimento a Roma, non in cerca di una scrittura in una compagnia di giro, e neppure di una parte nel cinema o in televisione. Daria entra nella Roma del teatro alternativo, quello che vuole inventare, scoprire qualcosa di nuovo. Sente che quel mondo corrisponde a qualcosa di inciso profondamente dentro di sé ma ancora ignoto. 

Divora tutte le possibilità: frequenta le lezioni di Dominique De Fazio, che applica il metodo di Stanislavskij ripassato dall’Actors Studio, per arrivare a una verità nella finzione scenica. Legge, legge tanto Ingeborg Bachmann: nella sua poetica depressione, nella sua vita infelice si identifica, ne segue le tracce e prova a metterla in scena. Legge Pasolini, Daniele Del Giudice. Lavora con poeti del teatro come Marcello Sambati, con inventori di spazi e drammaturgie originali come Remondi e Caporossi e Fabrizio Crisafulli, incontra il Butō bianco di un maestro come Masaki Iwana che le insegna a “estrarre dal corpo la vita stessa”. Scrive sempre, scrive tanto, perché per lei, suggerisce Rossella Menna, “recitare è scrivere, e viceversa, poiché diventa sempre più chiaro che la scena non è spazio rappresentativo, ma trampolino per rilanciare un sé più profondo, più riflessivo, più letterario”. Lavora col corpo parlante di una danzatrice come Alessandra Cristiani; incontra altri maestri che hanno fuggito la rappresentazione, la riproduzione, per inventare teatri di poesia e del sé come Pippo Delbono, Claudio Morganti, Raffaella Giordano e soprattutto Danio Manfredini, una forza dell’essere, della presenza assoluta inserita in strutture drammatiche.

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Klagenfurt, Wortersee. Prove per il primo omaggio a Ingeborg Bachmann, 1991. 

Ma Daria fa anche la cameriera, e in un suo famoso spettacolo, Il cielo non è un fondale, rievocherà la sensazione di fallimento di non riuscire a vivere del proprio lavoro d’attrice – della propria vocazione – e di essere costretta, a trentasei anni sentiti come se fossero quaranta, a lavorare in un ristorante, proprio mentre il suo coetaneo Martone con L’amore molesto vince tre David di Donatello. È un momento di sospensione, lei sulla porta che fuma, che guarda all’indietro la sua vita e le sembra di stare sprecandola, completamente.

Ma la tempra è forte e Roma è in sobbollimento. Dopo un lavoro dedicato a Pasolini al Mandrione, particolarissimo e faticosissimo da portare a termine organizzativamente, dopo alcune delle esperienze che ho già ricordato, è aiuto regista di Mario Martone al Teatro di Roma. Intanto nella Capitale viene alla luce una corrente sotterranea, una voglia di teatro indipendente, che si sperimenta in molti modi, con Celestini, Latini, Timpano/Frosini, Accademia degli Artefatti, Tony Clifton Circus e molti altri, tutti diversi, a volte uniti in sigle che chiedono alle istituzioni che garantiscano la loro autonomia e differenza.

Daria la troviamo in alcuni dei templi underground capitolini, al Furio Camillo, al Rialto Santambrogio, poi, dopo il 2000, in vari progetti, anche collettivi, a India. Importante è l’incontro con Fabrizio Arcuri nel 2005. Deflorian è folgorata da Tre pezzi facili, un lavoro su testi di Martin Crimp, in cui “la parola non racconta, ma si interroga su sé stessa e su ciò che dice e su quello che non dice, su tutto quello che può o potrebbe dire” scrive Menna, basandosi sulle note di regia. Siamo nella polarità fiction/non fiction, in una ricerca di senso del mondo che è principalmente ascolto e ricerca di sé stessi, nelle fratture tra sé e il mondo. Una luce per un’attrice autrice in cerca di autenticità, o almeno di tutto ciò che può smascherare la finzione e rivelare, in qualche modo, l’invisibile. Un’artista che si appoggia sulla letteratura non per esibirsi o perdersi ma per ritrovarsi, per tornare a quel sé, intimo, archetipico, sobbollente, che forse non sta in un passato (più o meno immaginario), ma in un abisso che scruta nei guasti del presente per provare a immaginare un qualche futuro imprevisto.

Deflorian lavorerà con Arcuri in Attentati alla vita di lei di Martin Crimp e là metterà a punto quell’idea di attore intrappolato in un meccanismo linguistico, di attore come “luogo della lingua”, da decostruire, straniando continuamente gli atti comunicativi, in una ginnastica tra la rappresentazione e il suo smontaggio.

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Roma, Rialto Sant'Ambrogio, 2011. Prove di chignon per L'Origine del mondo di Lucia Calamaro.

Nel lavoro con Arcuri Daria diventa intima di Antonio Tagliarini e dopo un’altra esperienza di aiuto regia, con il grande Nekrosius per Anna Karenina, produzione Ert, in cui si rivela fondamentale per la sua capacità di ricostruire le improvvisazioni e le scene realizzate e non ancora fissate, tra i due attori inizierà un sodalizio durato fino alla chiusura di questo libro, ora interrotto per seguire strade personali.

Il primo spettacolo realizzato insieme sarà Rewind (2008), un ‘omaggio’ a Cafè Müller di Pina Bausch, in realtà una ‘meditazione’ sulla forza dell’autrice coreografa che si colora di osservazioni personali, senza mai imitare o mostrare scene dello spettacolo originale, che scorre, non visto dal pubblico, su uno schermo di computer. Poi verranno i successi, che trasformano il piccolo rospo teatrale con la paura continua del fallimento in principessa smagliante, richiesta dai maggiori teatri d’Europa: Reality (2012), preceduto dalla partecipazione strepitosa a L’origine del mondo di Lucia Calamaro, anche questo un “tornare a sé”, sprofondare dentro una parte di sé. Poi gli altri titoli: Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni (2013), dalla crisi greca a crisi esistenziali (e viceversa); l’intenso, radicale Alcesti con Massimiliano Civica, per venti spettatori a sera nello spazio dell’ex carcere delle Murate a Firenze; Il cielo non è un fondale (2016), ancora il mondo e l’io, l’io e il mondo; Quasi niente (2018), ispirato a Deserto rosso di Antonioni; Chi ha ucciso mio padre (2020), solo con la regia di Deflorian/Tagliarini, da Edouard Louis per Francesco Alberici; Avremo ancora l’occasione di danzare insieme (2021), ancora da un film, che parla di vecchiaia e fallimenti in un mondo sempre più vorace e condannato all’apparenza, Ginger e Fred  di Fellini. 

Intanto c’è stata la scoperta della prosa secca, precisa, interiore di Annie Ernaux, che diventa una vera passione e si trasforma in conoscenza diretta dell’autrice. E, intorno ai lavori principali, quelli più portati in giro, ci sono molti spettacoli che nascono per germinazione o per sperimentazione prima della chiusura in copioni definitivi.

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Parigi, Théâtre de la Colline, 2016, con Antonio Tagliarini, ph. Elizabeth Carecchio.

In tutta l’avventura, Menna lo sottolinea bene in questo saggio che si legge come un sapiente romanzo, quasi settecentesco, di viaggio e iniziazione, c’è una sperimentazione continua di come stare sul limite tra la verità e la rappresentazione, tra la narrazione attraverso figure e il narrarsi nei propri moti più personali, nelle proprie esperienze, nei dubbi, nei dolori, anche quelli segreti, sempre con una leggerezza o apparente distanza che rifugge il patetico, per cercare di capire qualcosa di un mondo sempre più frammentato e fatto di individui singolari. In tutto questo c’è quasi una platonica ricerca di quell’essenza chiamata artisticità, che è un percorrere strade spesso laterali, sentieri accidentati, per mettersi alla prova diversi da come si è quotidianamente, smaglianti e problematici, con una visione, alla ricerca di sé profondamente. 

“Il gioco di Deflorian e Tagliarini è ormai più chiaro che mai: trovare nelle figure osservate qualcosa di sé e proiettare qualcosa di sé in quelle figure. Scoprirsi, misurarsi e comprendersi per distanza e vicinanza a qualcun altro, senza la pretesa che tra le biografie vi sia una somiglianza vera, perché si tratta piuttosto di mettersi nei panni degli altri e prestar loro i propri per un po’, si tratta di immaginare, di costruire castelli di sabbia, fantasticare di un’intera vita interiore, di indovinare sogni e desideri di un altro a partire da qualche dettaglio”, scrive verso la fine del libro Menna. Insomma: tornare a sé attraverso gli altri: usando figure inventare la memoria, le cosiddette proprie radici, proiettarsi nelle favole, nelle finzioni, per indagarsi e indagare il mondo circostante. 

Concludo con una frase di Deflorian durante una trasmissione della rubrica Persone, da lei tenuta sulla radio del Teatro India durante la pandemia: “Io credo che uno spostamento verso l’immaginazione sia l’unica risposta alla realtà politica oggi. Servono favole, finzioni”. Favole e finzioni vere, aggiungo.

Rossella Menna, Qualcosa di sé. Daria Deflorian e il suo teatro, luca sossella editore, pagine 252, euro 16.

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