Speciale
Dire di no
Forse di negazione in negazione bisogna giungere fino in fondo per comprendere e agire diversamente. Forse la visione di una inedita vivibilità sarebbe inaccessibile senza l’attuale negazione accecante di fronte all’invivibilità del presente. Vogliamo pensarla così, come unica e prima possibilità per un futuro dell’umano. Non siamo mai stati in grado di vedere così globalmente e ampiamente. Non siamo mai stati così accecati dalla nostra autocentratura antropocentrica. Non ci resta che puntare sulla nostra capacità di dire di no al presente, perforando la tenace e compatta membrana dell’indifferenza, e assumendo una postura placentare per attraversare il travaglio di una nuova nascita.
Negare la relazione con l’indifferenza è un paradosso per degli animali come noi che hanno l’ombelico: la prova tangibile della nostra costitutiva e originaria intersoggettività. Ma il paradosso, si sa, lungi dall’essere una non verità è una verità irriducibile e indecidibile. Proprio quella che ci serve.
Prende corpo e si diffonde una consapevolezza che la vita umana sia già postuma a sé stessa. Forse il grado zero della lettura di noi stessi e delle nostre relazioni con gli altri potrà farci riconoscere e superare l’indifferenza pervasiva nella quale soffochiamo, generando un inedito desiderio di alterità per una neo-originaria meità. Una catarsi. Da quel vuoto potrebbe nascere un altrove da immaginare e creare, per ora inedito e almeno in parte misterioso. Forse siamo giunti a una percezione di gravità e di pericolo che ci spinge a immaginare alternative radicali a un mondo e a modi di vivere e relazionarsi che sono falliti. Se c’è un ambito in cui la fragilità si è mostrata in molteplici forme, infatti, è quello dell’indifferenza, che possiamo intendere come una sospensione eccessiva e problematica della risonanza incarnata che ci lega agli altri.
Il paradosso sta proprio qui: sappiamo con evidenza, come non abbiamo mai saputo prima, che siamo esseri intersoggettivi e quell’intersoggettività ha origine ancor prima della nascita. La mediazione con il mondo che la madre opera per noi e l’interazione corporea e sensoriale con lei, anticipano il tempo dell’inizio dell’individuazione di noi stessi. La propriocezione e la costruzione di uno spazio peripersonale, condizioni essenziali dell’individuazione, fanno sì che sia un paradosso concepire un io senza un noi.
Allora il paradosso dei paradossi diventa l’emergere e l’affermazione dell’indifferenza nella nostra esperienza interpersonale e sociale. Come è mai possibile che esseri naturalmente e costitutivamente relazionali e intersoggettivi si ritrovino a sospendere quel legame fino a non vedere di non vedere la presenza dell’altro? Fino, cioè, all’indifferenza. Tra le molte risposte che si possono cercare di individuare pare che due di esse, di segno apparentemente opposto, possano aiutarci a comprendere. La prima risposta riguarda quella che potremmo chiamare l’indifferenza necessaria. Le nostre capacità di contenimento della complessità del mondo non possono che essere limitate.
Se tutti i segnali ci raggiungessero allo stesso modo e con la stessa intensità impazziremmo in poco tempo. Il pianeta, divenuto un villaggio, ci travolge di segnali e la selezione come forma di conoscenza non sembra sufficiente. Viviamo perciò in modo che molte, forse troppe, presenze non fanno per noi la differenza. Le conseguenze sulla crisi del legame sociale sono sotto gli occhi di tutti. Siamo al limite, sembra. E allora sembra intervenire, ed è auspicabile che accada, la seconda risposta: la nostra capacità di dire di no. Si tratta, probabilmente, di una nostra distinzione specie specifica.
Non viviamo soltanto eseguendo catene di routine. Siamo in grado di esprimere discontinuità, obiezione, dissenso, rivolta, creatività. Sappiamo ricomporre l’esistente in modi almeno in parte originali. Certo, in modo ambiguo, ciò può portare, come porta, anche alla negazione e all’indifferenza verso gli altri o verso una parte di loro. Può però indurci ad accostarci a ciò che non sappiamo di non sapere e ad andare oltre l’atteggiamento di conquista delle cose e degli altri, come se fossero illimitati e fungibili. Quel vuoto che si genera, quella vulnerabilità accogliente che emerge, possono farci scoprire l’originaria e costitutiva vitalità della differenza, per un legame sociale e un mondo mai visti, a cui accediamo per la prima volta.
Le foto in copertina sono di Monstera.