Speciale

Istruzione superiore

14 Gennaio 2014

La storia è nota ed è stata già raccontata da altri, ma mi preme scriverne perché la conosco da vicino e perché è anche una storia di scuola e di “successo formativo” contro molte previsioni.

Abdelmoula Khadiri, per tutti Rachid, aveva una decina di anni quando ha lasciato la madre e la provincia marocchina per seguire i fratelli più grandi a Torino, già trasferiti per fare i venditori ambulanti. ‘Rachidino’ vendeva fazzoletti e spugnette, sciarpe e gadget vari in tutto il centro città, in particolare nella zona di Palazzo Nuovo, sede delle facoltà umanistiche e centro studentesco ad alta frequentazione. La mattina andava a scuola e poi lavorava, ha frequentato prima le medie e poi le superiori, prima in un istituto professionale e poi, con un passaggio, in un istituto tecnico serale. Sempre macinando chilometri e piedi e entrando in relazione con centinaia di persone, fuori dalle biblioteche, dai teatri, dai cinema, dai bar, dai locali. Molti studenti e studentesse, fin da quando era più piccolo e vederlo stringeva il cuore, lo aiutavano a fare i compiti e poi a studiare: personalmente ricordo ripassi di strada sul romanticismo e una lezione improvvisata su Poe, toccante quando si parlò di perdere qualcuno e il senno.

 

 

Rachid ha sempre avuto qualcosa di speciale, perché immediatamente intuisci un’intelligenza viva e speciale, una simpatia e un’umiltà rara unita alla ferma determinazione della goccia che scava la montagna. Nell'incontro c'è un autentico piacere, indipendentemente da ogni transazione economica, che potrà anche non avvenire.
Ancora oggi, che di tempo per la flânerie non ne ho più, penso sia uno dei più brillanti conversatori che ti possano capitare nel cuore della città. Ha avuto un'adolescenza dura e singolare, lontano dai giochi e dovendo proteggersi dalla vergogna e persino dalle botte dei razzisti, ma ha anche avuto una formazione eclettica che accanto alla scuola ha visto  strani precettori e precettrici, professori, studenti, fuoricorso, perdigiorno, baristi, madame.

Quando gli parli intuisci che la sua situazione è uno stato momentaneo, che ha ereditato per provenienza e accettato per rispetto della famiglia; capisci che ha un progetto diverso e una tenacia stoica portata con estrema disinvoltura. A molti, spezzando la relazione automatica richiesta/elemosina, è venuto naturale aiutarlo a sostenere spese per un progetto di vita che passa attraverso la scuola. Rachid ha sempre desiderato diventare ingegnere e poter tornare da ingegnere a Khouribgka. Contro ogni previsione, dopo il diploma si è iscritto al Politecnico; finito le lezioni, tornava a lavorare in strada, a sorridere e stringere mani, a prendere in giro la sua “vetrina” e il suo personale fundraising “per la causa marocchina”, a discettare di Islam e di italianità, a disintegrare nelle pratiche stereotipi e macchiette identitarie.

Ha continuato a studiare, lavorando, ha ottenuto borse di studio, è diventato un ragazzo slanciato. Un mese fa ha preso la laurea triennale in ingegneria con una tesi che gli assomiglia: sul grafene, un materiale povero dalle grandi potenzialità, molto sottile, resistentissimo, superconduttore. Un materiale fortunato, che è valso il Nobel per la fisica 2010 ai due ricercatori, Novoselov e Geim, che se sono occupati, con un esperimento costato una ventina di sterline e che sembra promettere molto per le nuove tecnologie.

La storia di Rachid è girata, se ne sono occupati i giornali, si è scritto molto in rete; nei giorni della morte di centinaia di migranti nel Canale di Sicilia la vicenda si è annodata ai disegni di quanti a livello politico cercavano un migrante esemplare per pulire le coscienze italiane. Sono arrivate cose grandi e significative, come l'incontro con il ministro Kyenge o la proposta della cittadinanza onoraria, arenata in consiglio comunale per qualche triste faccenda di maggioranze; tra i meriti del “venditore di spugnette ingegnere” c’è anche di aver rifiutato di partecipare a “Porta a porta” per parlare di migranti nei giorni di Lampedusa e di aver cortesemente declinato l’invito di Endemol a partecipare al Grande fratello, con una battuta folgorante (“se avessi voluto diventare famoso avrei fatto il Dams, non ingegneria”) e con una critica aperta ma gentile ai mass media e a quel sistema di valori, degna di Calamandrei: “Ma io sono ingegnere. Ho studiato di notte per ottenere questa laurea al Politecnico. Ciò che vale costa caro, diceva il mio professore delle superiori, all’Itis Avogadro”. Se ne è voluto fare un simbolo di speranza, un esempio per giovani italiani viziati, l’eroe di un mondo pasolinianamente precedente la trasformazione italiana e forse un po’ di tutto questo è vero.

Ieri ho avuto il piacere di partecipare alla sua festa di laurea in ristorante marocchino e di condividere la sua gioia, con i fratelli, molti amici, compagni di scuola e università, conoscenti di strada, professori di diversi gradi di istruzione. Si è bevuto tè, mangiato datteri, kus kus, tajine e altro; era un incrocio di mondi diversi tenuti insieme da Rachid, e anche se molti non si conoscevano tra di loro, si respirava un’aria speciale e una certa felicità condivisa. Il neolaureato intanto continua a lavorare come ambulante e punta a conseguire la laurea specialistica. Si schermisce di fronte a tanta notorietà, è felice di quanto è riuscito a realizzare in sedici anni, al durissimo prezzo in termini di sacrificio personale. Lo incontrerò vicino al cinema Massimo e all’Università, avrà al solito i migliori puntatori laser sul mercato (ottimi per far giocare i gatti) e fondamentali luci portatili per la bicicletta; saprà farmi lucidi e ironici spaccati sociologici sulle generazioni di studenti che si succedono e sulla crisi cittadina vissuta sulla strada. Nell’attesa che un lavoro attinente ai suoi studi lo aiuti a dar corpo alla vita che ha sognato così forte.

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