Il luogo e il sacro
Com’è che un luogo diventa sacro? Anche se non formulata così, è questa la domanda che percorre Il luogo e il sacro. Contributi all'indagine sul linguaggio simbolico dei luoghi, a cura di Domenico Luciani (Edizioni della Fondazione Benetton Studi Ricerche con Canova). Si tratta di tredici interventi presentati a una giornata di studi di alcuni anni fa da studiosi di diversa formazione e ambito, con l’aggiunta di uno scrittore ben noto a Doppiozero, il paesologo Franco Arminio.
Per definire i contorni del luogo sacro occorre chiedersi, prima di tutto, che cosa sia un “luogo”. Una categoria con cui abbiamo familiarizzato negli ultimi anni – quella di “non-luogo” – aiuta a circoscrivere meglio e per via oppositiva questo concetto, ovvio solo in apparenza. Alphonse Dupront, in uno dei saggi del volume, osserva che un elemento decisivo è proprio il legame luogo-nome: “Il nome stabilisce tra spazio, terra e uomo, una gerarchia e un legame”; la “realtà viva del luogo sta nel suo carattere sociale, nel suo essere opera evidente di creazione collettiva”. Il non-luogo infatti è anonimo in senso letterale; è privo proprio di quei nomi che sono frutto di una sedimentazione secolare, in Italia e in Europa spesso millenaria. Insomma sono gli uomini che calcano quella porzione, piccola o grande che sia, di territorio, a creare il luogo anche attraverso la parola. Ed è la loro frequentazione che trasforma una determinata morfologia della terra, assicurandole una sorta di personalità individuale: da qui il nome, il toponimo, come una necessità. Non per nulla i Greci personificheranno le città: uno degli esempi più antichi era la scultura in bronzo di Eutychides che raffigurava Antiochia come una figura femminile seduta accanto alla personificazione del fiume Oronte; i luoghi vengono pensati come creature vive. E viceversa alcuni uomini, soprattutto nel Rinascimento, vennero ribattezzati coi nomi dei loro luoghi d’origine (Pontormo, Correggio, Sansovino …), quasi fossero tutt’uno con la loro provenienza.
Come l’idea di luogo è sempre saldata a un nome, quella di sacro è sempre connessa a un dove. Secondo la fortunata definizione di Rudolf Otto, il sacro coincide con il “totalmente altro”; ma questo “altro” non è per nulla qualcosa di etereo, di impalpabile, al contrario ha bisogno di incarnarsi, o meglio di farsi terra, pietra, vegetazione, di farsi insomma luogo. Il problema è come ciò avvenga.
Si può parlare, in senso proprio, di “trascendenza di un luogo”? Come si ricava da più di un saggio di Il luogo e il sacro, non esiste una sacralità connaturata ai siti, insita in essi, una sacralità che viene scoperta e rivelata dalle diverse religioni; in altre parole, i luoghi non sono sacri, ma lo diventano: vengono resi sacri. Ciò che ha fatto diventare oggetto di devozione un monte, una fonte, un fiume, un edificio, è dunque un atto di sacralizzazione, non importa se esplicitamente eseguito dagli uomini o attribuito in seguito a un fatto straordinario, un evento naturale, un’epifania. Potrebbe sembrare un passaggio poco rilevante, ma un conto è affermare che in un luogo la “trascendenza” viene percepita, tutt’altro è sostenere che vi abita da sempre ed è per così dire consustanziale con esso. Fatta questa distinzione, è pur sempre chiaro che avvertire la sacralità di un luogo non è un fatto puramente esteriore o convenzionale, ma l’esito di una tradizione; quella che da anni ed anni, eventualmente da secoli, riconosce la presenza della santità nelle persone che hanno vissuto in quello spazio e lo hanno modificato; è proprio quella santità che viene associata al sito e sono proprio quelle trasformazioni che vengono lette a posteriori come segno del sacro.
Che altro significano infatti le continue sovrapposizioni di culti in determinati luoghi, come Gerusalemme o Damasco, e altri esempi come quelli descritti nel saggio di José Miguel Puerta Vílchez? Culti pagani che vengono sostituiti da quello cristiano e poi da quello musulmano, senza escludere possibili nuove sostituzioni, come è avvenuto in Spagna. Le diverse religioni prendono atto che c’è una sacralità per così dire coincidente con un luogo, apparentemente connaturata ad esso, in realtà – come già detto – frutto di un depositarsi di vicende e di racconti entro edifici e spazi.
Ma come inizia tutto questo? C’è senz’altro un momento in cui è la semplice realtà naturale ad imporsi, lasciando scorgere quei tratti del luogo che – come è scritto nella prefazione al volume – “pur nel processo di inarrestabile trasformazione, ne delineano l’autenticità e ne connotano l’identità”. Si possono cogliere i tratti di un territorio allo stesso modo in cui si osservano quelli di un volto e, dunque, se c’è una fisionomia topografica si può mettere in moto anche una sorta di fisiognomica: lo sforzo di individuare caratteri distintivi e speciali, di scoprire quasi la personalità dei luoghi. Non è un caso se ogni tanto, nella storia delle immagini, affiora questo motivo dell’analogia tra volto umano e paesaggio, come vediamo agli inizi del Seicento in Joos de Momper o, nel secolo seguente, in Giuseppe Maria Mitelli.
O forse, visto che si tratta di vederli anche in una proiezione futura, sarebbe meglio parlare di una sorta di chiromanzia dei luoghi: linee delle mani, linee della terra. In un passo riletto da Michael Baxandall a proposito della scultura in legno del Rinascimento tedesco, Paracelso sostiene che “esiste una chiromanzia delle erbe, una delle foglie sugli alberi, una del legno, una delle rocce e delle miniere, una dei paesaggi attraverso le loro strade e i loro corsi d’acqua”. Detto altrimenti: un paesaggio naturale può contenere – per chi le sappia leggere – le prescrizioni per il suo uso.
Il palmo della mano, un paese, il suo destino: proprio queste immagini si associano in breve brano dal titolo Lavori nel bellissimo Abbecedario paesologico di Franco Arminio:
“C’è una bella strada che va al castello, lunga e dritta. Ma al posto del ciottolato che c’era una volta hanno posato ovunque era possibile un disegno di mattoncini rossi. In altre strade la pavimentazione è affidata a materiali da piscina o da giardino. Insomma il Comune appena ha avuto un po’ di soldi ha pensato di cancellare la trama antica del luogo. È come se avessero coperto le linee sul palmo della mano, e adesso chi può leggere il destino di un paese come questo?”.
Non siamo davanti a un luogo sacro, ma, per chi vi abita, un paese non è pur sempre un luogo irriducibile a qualsiasi altro? I luoghi, insomma, portano con sé un’indicazione inaugurale, una sorta di possibile traiettoria d’uso, un destino tracciato nelle pieghe del terreno, nelle emergenze rocciose, nelle loro fenditure, nella vegetazione che vi si insinua, nei climi che li attraversano. Lo spiega anche Luigi Zanzi nel saggio su I monti e il sacro, in cui si riflette sull’attrazione che sin dalla Bibbia le altezze della terra hanno esercitato sull’uomo religioso.
Aggiungiamo un altro esempio, ma in senso opposto: non monti, ma caverne. Parlo di quel luogo straordinario studiato recentemente anche da Robin Lane Fox (Eroi viaggiatori, Einaudi), Cennet e Cehennem (nella lingua turca “Paradiso” e “Inferno”), sulla costa meridionale della Turchia. Si tratta di due enormi voragini non molto distanti dal mare; recuperando probabilmente leggende ittite, il mondo classico vide nella maggiore delle due caverne il luogo del cruento scontro tra Zeus e il gigantesco mostro Tifone. All’ingresso dell’enorme grotta, all’interno della quale secondo il mito Tifone aveva nascosto i tendini strappati a Zeus, sorse un tempio dedicato a Ermes, grazie al quale il dio aveva potuto riavere i suoi tendini; verso il VI sec. d. C. le pietre di questo edificio vennero riadoperate per costruire, nello stesso luogo, una chiesa cristiana dedicata a Maria. Come si vede, la straordinaria conformazione del paesaggio chiama a sé un mito e rende sacro il luogo, che rimane tale anche quando, in età cristiana, le storie di Zeus e Tifone erano scomparse dalla vita religiosa.
C’è una caverna anche al centro del saggio di Flora Samuel, la caverna della Sainte Baume in Provenza, che la tradizione ricollega alla Maddalena; vi si ripercorre la storia di un progetto di Le Corbusier, che non venne però ultimato, l’idea di realizzare entro la montagna rocciosa una sorta di santuario “orfico”. Siamo ancora davanti al fascino della roccia, al di là della sua conformazione, nelle vette come nelle profondità della terra.
Un caso analogo è quello dei grandi canyon dello Utah che affascinarono a tal punto Olivier Messiaen da spingerlo a scrivere Des canyons aux étoiles (Dai canyon alle stelle, 1971-1974), composizione per strumenti solisti e orchestra presa in esame nel saggio di Olivier Ricomini. Forse il più grandioso di questi canyon dà il titolo al quinto movimento del brano musicale di Messiaen: Cedar Breaks et le don de crainte (Cedar Breaks e il dono del timore) in cui si allude proprio al tema biblico del timore reverenziale di fronte al sacro.
C’è un’altra domanda che attraversa tutti i saggi di Il luogo e il sacro: che cosa succede quando un luogo è diventato sacro? Per quanto declinata in tanti modi nelle diverse epoche e nelle differenti religioni, la risposta è semplice: bisogna andarci. Questo accade perché quel “radicalmente altro” si è insediato proprio in quel punto del mondo ed è come se là prendesse corpo: non per nulla di uno dei più importanti santuari del mondo classico, Delfi, si diceva che lì era “l’ombelico del mondo”. È insomma il fenomeno del pellegrinaggio, che nel volume viene sfiorato più di una volta: Franco Cardini lo osserva nel mondo antico e in quello medioevale; e Carmen Añón lo affronta a proposito degli itinerari del popolo Huichol nel Messico di oggi. Il sacro dunque va raggiunto, contemplato – si noti che il verbo moderno contiene un riferimento al templum, il luogo sacro – e, se possibile, toccato.
Questo gesto va inteso letteralmente; basta recarsi in un qualsiasi momento, per esempio, nella basilica del Santo a Padova per constatare come i pellegrini passino continuamente accanto alla tomba di sant’Antonio e premano la mano contro la pietra scura nella parte posteriore del sepolcro.
Quello che accade quotidianamente a Padova (come in tanti altri santuari più o meno celebri) propone un tema contiguo a quello trattato nel volume e, per forza, rimasto sullo sfondo: la presenza del sacro nella contemporaneità. Quali forme antiche esistono ancora nella loro pienezza, quali sopravvivono in spazi riposti, quante sono del tutto perdute? E, insieme, quale incidenza stanno avendo le culture religiose giunte da noi con l’immigrazione? In altre parole dov’è oggi il sacro? Dove è sempre stato si dirà, e dunque, in Europa, nelle chiese cristiane prima di tutto. Si potrebbe obiettare che non è detto che il luogo del rito sia anche il luogo del sacro, lo spazio cioè in cui qualunque gesto individuale o collettivo serve a celebrare ciò che è “radicalmente altro”.