La noia da Califano a Angelina Mango
Se le passioni, come dicevano gli stoici, sono malattie del tempo, la noia è il sentimento della durata. Lunghissima, infinita, eterna. Uno scorrere dei momenti, dei giorni, dei mesi o anche degli anni senza che nulla di rilevante accada, niente di rimarchevole che spazzi la monotonia, che spezzi la continuità del trantran, individuale e sociale, personale e collettivo. Problema: mi annoio perché nulla di interessante accade o nulla accade perché mi annoio? Non è facile rispondere. E da questa risposta dipende la scommessa della noia: uscirsene. Rompere la durata, rivendicare dei se e dei ma, ricordarsi che, sotto sotto, non ci resta che ridere. In altre parole, non c’è noia senza il suo opposto, qualunque cosa esso sia, e che sta lì, quatto, ad affermare la noia grazie alla sua mancanza, o a cancellarla per la sua presenza. Se non ci fosse divertimento, stupore, euforia, vita, non ci sarebbe neanche la noia. E viceversa.
Una volta si sarebbe parlato di dialettica. Oggi diciamo, meglio, tensione, financo ipertensione fra opposti ora compresenti ora successivi. È così che la durata si espande ancora, dovendo introdurre, per cercare di comprendere a fondo la noia, un prima e un dopo di questo curioso sentimento evergreen, qualcosa che a esso ha portato e qualcos’altro grazie a cui esso si dissolve. Movimento che può essere lentissimo, in taluni casi, o molto rapido, in altri. Ci possono essere noie repentine, che vanno e vengono con una certa frequenza (al punto da dubitare della loro autenticità: vedi il caso di Don Giovanni) e altre che durano un’intera esistenza (rendendo evanescente ciò che, negandole, le contiene: si pensi all’Ulisse post-omerico).
Così, smaltiti i lustrini del Festival, l’euforia del momento e i commenti di rito (con tutta l’uggia che li permea!), possiamo forse parlarne, di questa “Noia” di Angelina Mango come d’altre noie che la precedono canoramente (almeno: “Malinconia” di Marco Masini e “Tutto il resto è noia” di Franco Califano). Con il pedigree filosofico e letterario che le supporta (i nomi si sprecano: Pascal, Leopardi, Baudelaire, Heidegger, Brancati, Moravia e, tornando indietro, tutta l’accidia dei monaci medievali, con il bagaglio emotivo e immaginativo legato all’adolescenziale ‘male di vivere’…). La prima impressione, l’unica che conta, è che queste canzoni strizzino l’occhio a quella che qualcuno pensa esista ancora, ovverosia la cultura alta come entità separata da quella bassa, torre d’avorio di anime belle non contaminate (chissà come) dai media. La cultura alta, quella che un tempo si chiamava così, e che oggi, se va bene, appare come uno spettro vintage represso. Quella, appunto dei filosofi e degli scrittori, della loro banalizzata immagine sociale.
Introdurre il tema della noia nell’agenda sanremese acquista così un duplice, complementare significato: da un lato si rivela la tonalità emotiva di quei giovani che, volendo sfuggire all’immaginario trapper tutto denaro e sballo metropolitano, scoprono d’aver ben poche alternative cui affidarsi, ben pochi pacchetti di valori da far propri; dall’altro lato, proprio per questo, s’affacciano a quello che loro credono sia il mondo aereo del pensiero e della narrazione, alla ricerca di modelli ai loro occhi superiori, quelli appunto dei vari Leopardi e Moravia mal studiati al liceo. Da cui, appunto, la noia giovanile dove, più che la noia stessa, si fa avanti il ritmo di ciò che la precede e ciò che le succede, di ciò che, in un modo come nell’altro, le si oppone. La noia rivendicata da queste canzoni è la noia negata, o quanto meno l’insieme dei variegati tentativi per negarla.
Prendiamo “Tutto il testo è noia” di Franco Califano (1977), detto Il Califfo per via delle sue numerose avventure femminili, immaginarie e reali che fossero, una specie di Don Giovanni della canzone italiana. Qui l’opposizione è ben chiara. Da una parte le storie d’amore ben orchestrate, con l’algoritmo di situazioni tipiche (che manco le fiabe proppiane): l’appuntamento iniziale con l’emozione che ti scoppia dentro, la barba ben fatta e la macchina a lavare; l’invito a cena, il primo bacio e il cuore ingenuo che ci casca ancora; la notte d’amore con le lenzuola color grigio, dove devi dimostrare che solo tu sai far l’amore; infine il ménage, coi silenzi della sera e le feste domestiche per ravvivare la situazione. D’altra parte, la noia che subentra a ripensarci, a rivivere questo sintagma erotico sempre uguale. Di modo che il ‘tutto il resto’ che è noia non è la vita senza fremiti amorosi ma proprio quella. E l’enfasi del canto sottolinea questa specie di tragicità de noantri.
Con le dovute differenze di ambientazione sociale e valoriale, “Malinconoia” di Marco Masini (1991) segue uno schema abbastanza sovrapponibile. (Masini, va ricordato, è quello che aveva cantato ‘perché lo fai? perché ti fai?’). Il testo della canzone (accompagnato da una melodia a dir poco piagnona) procede con una serie di negazioni riguardanti le connotazioni fondamentali dell’esistenza: la vita non è la vita notturna dei bar, non è un film di muscoli e robot, non è il quadretto standard del bronx di provincia, non è l’ansia di aspettare l’alba per principio, non è cenere e caffè (per non dire altro). Tuttavia, tolto questo resta poco altro: resta il blues quotidiano, la nostalgia di un posto che non c’è, la triste gioia d’aver perso, tanto per cambiare, un possibile amore. La crasi della malinconoia si rivela dunque come una specie di condanna, un destino ineludibile di un mondo che è boia e non c’è nulla da fare. Anche qui dunque l’assunzione consapevole di una tragicità fondamentale.
Ascoltando la canzone di Angelina Mango (musica compresa, anzi dominante) si capisce ben presto che, invece, la noia non è un sentimento, per così dire, subito oppure assunto, fatto proprio, vissuto fino in fondo, ma, al contrario, un malessere esistenziale costante cui si cerca di fuggire. Più che la noia, forse, ciò da cui si sfugge è il suo stereotipo, ciò verso cui la società pretenderebbe che la protagonista si affidasse. Come dire: mi volete annoiata? E invece no, io vado di fretta, scappo via, cambio città, sto come una pasqua, vivo senza soffrire: e vorrei dirgli che sto bene, ma poi mi guardano male. L’opposizione di fondo delle due altre canzoni non sparisce del tutto, né potrebbe, altrimenti nessuna noia sopravviverebbe. Costretti a star fermi, la noia – mannaggia – ritorna. Muoio, ma senza morire, soltanto mi cascano addosso le sollecitazioni negative della società, che mi vorrebbero rinchiusa nel cliché della ragazza tediata, specchio dei tempi, con tutto il business che ne consegue. Non resta che ridere, appunto, riso amaro forse, ma che, si spera, seppellirà i luoghi comuni sui cosiddetti giovani d’oggi. Da qui la staffetta con la musica, fra il caraibico e il partenopeo, spensierata, briosa, divertente.
Non so voi: a me la cumbia della noia mette buonumore.