David Teboul / Simone Veil, Alba a Birkenau

27 Gennaio 2021

L’alba a Birkenau è il silenzio di una domanda mai pronunciata. A cosa si pensa quando a 17 anni ci si risveglia nel campo? Come si accoglie il mattino dopo una notte di angoscia, incubi e sogni? David Teboul non l’ha mai chiesto all’amica Simone Veil e quando se n’è reso conto era ormai troppo tardi per trovare risposta. Quella domanda ora riecheggia nel libro straordinario che il regista francese le ha dedicato con il titolo Alba a Birkenau (288 pp., Guanda). 

Il volume nasce da una serie di incontri fra Veil e Teboul ma non è un saggio né una riflessione. Non ha pretese di completezza. È frammentario, incompleto e rapsodico come ogni umana conversazione – un documentario declinato in scrittura. A comporlo sono le parole, rese in prima persona, della stessa Simone Veil – il dialogo che per anni intrattiene con Teboul, gli scambi affettuosi con la sorella maggiore Denise, l’amica di Birkenau Marceline Loridan-Ivens e Pete Schaffer incontrato nel campo di Bobrek. 

Pagina dopo pagina, la voce indimenticabile di una delle icone della storia d’Europa torna così a noi in un racconto che schiva la retorica, i facili sentimentalismi o le formule assolutorie – la lama di un sussurro ostinato nel suo pudore e così tagliente da togliere il fiato. 

 

Una manciata di foto annoda alla realtà il filo del discorso. Quelle d’epoca che la ritraggono bambina e poi adolescente bellissima a Nizza insieme alla madre e alle sorelle – scampoli di normalità che la deportazione carica di una luce struggente. E quelle a colori degli ultimi anni, scattate dallo stesso Teboul, che rifiutano di comporla in una posa e la inquadrano di schiena, di traverso e per dettagli consegnandola a una qualità inafferrabile. 

Il rapporto che lega David Teboul a Simone Veil è unico. Come ha ricordato la storica Annette Wieviorka, per i più giovani Veil ha incarnato tre grandi momenti della storia europea: Auschwitz, la speranza dell’Europa unita, le battaglie delle donne. Per il regista è anche, forse soprattutto, la risposta un interrogativo più urgente e personale che riguarda il senso di essere ebrei in Francia dopo la Shoah. 

Teboul ha dieci anni quando per la prima volta la vede in televisione. È la fine degli anni Settanta quando, racconta, “non dovevo dire di essere ebreo”. “Ogni anno, in occasione della festa di Yom Kippur, i miei famigliari scrivevano un biglietto di scuse accampando una malattia. All’epoca era impensabile giustificare un’assenza per la celebrazione di una festa ebraica”. È meglio dire così, gli spiega il nonno, “perché a noi ebrei non tutti ci amano”.

Il bambino ha appena guardato un episodio di Holocaust, la serie americana che nel 1979 porta alla coscienza collettiva il massacro degli ebrei d’Europa. Subito dopo, Simone Veil parla apertamente della sua deportazione in quanto ebrea. È bella, seria, un ministro della Repubblica. Per Teboul è una rivelazione. “Sono rimasto colpito dal suo chignon, dalla sua bellezza e dalla profondità del suo sguardo. [...] Anni dopo, nel 2003, quando avevo trent’anni, la memoria di quest’emozione restava acuta e ho deciso di fare un film per poterla incontrare”. 

 

Il resto ormai è storia. Simone Veil in principio rifiuta, poi accetta di incontrarlo. Dieci minuti, non di più. “Cosa le interessa di me?”, gli domanda. “Il suo chignon, Madame”, dice lui. Senza saperlo, ha toccato un punto cruciale della sua deportazione. Ad Auschwitz, Simone e le donne del suo convoglio non sono state rasate a zero. Non ne saprà mai la ragione ma sa che è stato quello a salvarle la vita. 

Quel primo racconto si porta dietro tutti gli altri. Telefonate, colloqui, ore di riprese e un viaggio ad Auschwitz, dove con pena per la prima volta Simone Veil fa ritorno alle baracche di Birkenau dove per mesi ha vissuto con la madre Yvonne e la sorella Milou. Il film di Teboul, Simone Veil, une histoire française, esce nel 2004. Intanto – malgrado la differenza d’età o forse proprio per questo – i due diventano amici e confidenti. Anni dopo, lei si augura che lui faccia qualcosa dei tanti momenti trascorsi insieme. “Il libro è la promessa che le avevo fatto”, scrive Teboul che nell’introduzione ricorda il loro ultimo incontro, insieme all’amica Marceline, in una tetra brasserie di place Vauban. 

 

 

La malattia ha fatto il suo corso e Simone è silenziosa. Marceline infila in borsa un cucchiaino da caffé e pretende che gli altri facciano lo stesso. Sotto gli occhi sbalorditi del cameriere, l’amica ubbidisce e così David. Escono dal bar, Marceline trionfante e Simone remissiva. “Marceline mi racconta che i cucchiai nel campo erano come diamanti, che le donne lottavano per non farseli rubare, era un vero mercato nero. Con quei cucchiai si evitava di lappare la disgustosa zuppa di Birkenau”. “Tu non puoi capire, David: sono cose da ragazze di Birkenau”, dice lei. 

È uno degli aneddoti più citati del libro, uscito in Francia un anno fa. Non ci si immagina Simone Veil che intasca un cucchiaino da due soldi, se non che è remissiva, malata e sembra assecondare l’altra, più che partecipare. Il richiamo alle “ragazze di Birkenau” ci precipita però nel nucleo indicibile dell’identità di Simone, di Marceline e di ogni sopravvissuto – nel peso schiacciante di un passato che si è fatto carne e sangue. 

 

“L’esperienza dei campi lascia un’impronta, qualcosa di sensoriale, di indelebile, di istintivo, che è molto difficile da raccontare”, dice Simone Veil. “Ancora oggi un odore particolare, una certa sensazione di freddo, un’immagine mi provocano un flashback, una reminescenza brutale”. Per anni si porta dentro la paura di entrare in un commissariato, imbattersi in un’uniforme, attraversare una frontiera. “Ancora oggi non sopporto la promiscuità. Non tollero il contatto con altri corpi. Evito di andare al cinema quando c’è la fila per entrare”. 

I campi di sterminio tornano in queste pagine in schegge lancinanti. Simone è deportata a 16 anni e mezzo, all’indomani degli esami di maturità, insieme alla sorella Milou e all’amatissima madre Yvonne che morirà di tifo a Bergen Belsen. “Con il tempo, mi è capitato di sentir dire ‘Somiglia ai campi ...’. “Niente può somigliare i campi. [...] Quell’orrore assoluto non assomiglia a niente di ciò che si può leggere o scrivere”. “Il campo era l’odore dei corpi che bruciavano, un camino il cui fumo oscurava il cielo, il fango ovunque”. 

 

In quell’orrore le tre donne s’imprimono nella memoria come un’immagine luminosa. Non si può scrivere di Simone Veil senza parlare della bellezza e della giovane età, a cui deve la salvezza. (“Sei troppo carina per morire così”, le dice una kapò ad Auschwitz destinandola insieme alla madre e alla sorella Milou a un lavoro più protetto nella fabbrica di Bobrek). E non si può scriverne senza parlare dei valori che malgrado tutto con Yvonne e Milou si ostina a praticare: il rispetto, la gentilezza, la solidarietà. 

“Eravate una più bella dell’altra ... e poi eravate l’esempio vivente di un’educazione che mi impressionava”, dice Marceline. “Tu, tua sorella e tua madre eravate il simbolo di una dignità straordinaria, un esempio. E non solo per me, per molte altre ragazze del campo”. “Il solo essere straordinario ai miei occhi è mia madre”, dice Simone che a Yvonne dedica pagine intense e tenerissime.

La crudeltà, la curiosità e l’indifferenza che nel dopoguerra accolgono il rientro delle due sorelle in Francia sono ferite che neanche il tempo riuscirò a sanare. “Un senso di incomprensione, di fraintendimento, di assurdità mi accompagnava ovunque”, dice Simone. “Avevo l’impressione che i sopravvissuti mettessero a disagio. Eravamo strani, difficili da collocare. Ci venivano fatte domande umilianti, aberranti, a volte addirittura demenziali”. È il terribile equivoco del ritorno di cui scrive Primo Levi.

 

Poi si ricomincia, quasi per inerzia. Simone e Milou ritrovano gli zii. La sorella maggiore Denise, deportata a Ravensbruck dopo essersi unita alla Resistenza, le raggiunge. Il padre André Jacob, prima della guerra un facoltoso architetto a Nizza, ha invece trovato la morte nel campo lituano di Kaunas insieme al figlio Jean. “Mi è stato chiesto come sia riuscita, dopo i campi, a ritrovare il desiderio di vivere. La sola risposta valida ai miei occhi è questa: non c’era scelta. Mi sembra valida per una sola persona così come per un intero paese”. 

 

Al suo paese e alla speranza di un’Europa unita Simone Veil ha dedicato il resto della vita. È stata una delle prime donne magistrato di Francia, ministro della Salute, protagonista della storica battaglia per il diritto all’aborto, prima presidente del Parlamento europeo. L’esperienza della deportazione ha segnato l’intero arco del suo impegno politico ma il pregiudizio l’ha inseguita senza tregua e negli ultimi anni ha assistito con dolore all’escalation degli attacchi antisemiti in Francia. 

Eppure fino all’ultimo si è riconosciuta con orgoglio come francese e come ebrea. Come voleva, sulla sua tomba è stato recitato il Kaddish, la preghiera ebraica dei morti. Un anno dopo, l’amico David Teboul ha accompagnato la sua inumazione al Pantheon facendo risuonare per un minuto il suono dell’alba a Birkenau, registrato alle cinque di un mattino di giugno. Il silenzio, il canto dolce degli uccelli e la vertigine di una domanda. A cosa si pensa quando a 17 anni ci si risveglia nel campo? Come si accoglie il mattino?

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