Due libri, di Mark O' Connell e Benjamin Labatut / Paura dell'apocalisse

30 Marzo 2021

"Dobbiamo sradicare dall'anima la paura di un futuro sconosciuto, perché questa paura non ci aiuterà a cambiarlo. Dobbiamo aspettarlo con serenità, perché attraverso paura e timore, noi blocchiamo la nostra evoluzione". Questa frase, tratta da una preghiera laica (Per l'epoca di Michele, 1924) di Rudolf Steiner sarebbe stata bene in esergo al libro dell'irlandese Mark O'Connell, Appunti da un'Apocalisse Viaggio alla fine del mondo e ritorno (Il Saggiatore, 2021). Lui invece, obbedendo alle esortazioni di Greta Thunberg, sceglie questa: "...Voglio che proviate la paura che io provo ogni giorno. E poi voglio che agiate. Voglio che agiate come fareste in un'emergenza. Voglio che agiate come se la nostra casa fosse in fiamme. Perché lo è". Bisogna arrivare alla fine, a pagina 231, per sentirlo finalmente ammettere: "...mi sono stancato del nichilismo cosmico, della disperazione cosmica. Di recente ho cominciato a essere felice di vivere questo tempo, se non altro perché è l'unico tempo in cui mi è dato vivere". Le pagine precedenti, quindi tutto il libro, sono "tribolazioni" (il significativo titolo del primo capitolo) di un uomo nutrito di buone letture che si trova impotente davanti a quella che lui chiama "la fine del mondo", "del mondo buono", che sarà precluso ai suoi due figlioletti, e lui non può non provare vergogna e tristezza per l'eredità che lascerà loro. Non gli serve sapere che Sant'Agostino, scrivendo nel quinto secolo dopo Cristo, osservava che i primi discepoli di Gesù credevano di vivere negli "ultimi giorni della creazione" già tre secoli prima, lui vede un'Apocalisse che si avvicina lentamente "insidiosa e tortuosa, l'Apocalisse al rallentatore".

 

Tra le citazioni di Cioran, Hannah Arendt, Joyce, Susan Sontag, Enzensberger gli manca l'Aldo Busi di Per un'Apocalisse più svelta (Bompiani, 1999). Leggerlo, gli sarebbe forse servito a concentrarsi meno sulla "serie di fenomeni sconcertanti che incombe sulla nostra cultura ... una catastrofe climatica, un populismo di destra e lo spettro della disoccupazione..." e avrebbe dato più importanza, con Busi, all' apocalisse delle coscienze: "...tanto vale renderla più svelta (l'Apocalisse n.d.r.), accelerando un Giorno del Giudizio da cui l'umanità di uomini e donne potrebbe risultare depurata di ogni falsa credenza e pronta, finalmente, a riconoscersi per quel che è". Invece per O' Connell la linea del terrore è sempre al rialzo e le sue "bruttissime giornate" dove addirittura "uno starnuto" gli sembra un presagio della fine dei tempi, scandiscono una normalità che non riesce in alcun modo a sdrammatizzare (Busi, invece: "Che baracconata, la normalità"). Lui è ossessionato da quello che potrà succedere, non riesce a concepire l'esistenza di un qualsiasi futuro e le angosce personali, professionali e politiche "si erano fuse nell'ansia divorante di una prossima catastrofe".

 

Così, "per star vicino all'idea di Apocalisse, contemplare le prove del suo ordito mortale rintracciabili nel presente" decide di partire. In famiglia tirano un sospiro di sollievo, immaginiamo, perché se ne rende conto lui stesso: "Tirava già un'aria abbastanza brutta nel mondo là fuori, nell'etere e nelle bacheche social, senza che la portassi dentro casa". Per vedere che aspetto potesse avere la fine del mondo si reca nelle praterie del Sud Dakota dove visita un ex deposito militare di munizioni, in procinto di essere convertito nel bunker di una "comunità survivalista", per permettere a una élite di rifugiarvisi all'indomani di una catastrofe; in Nuova Zelanda "un Paese che in virtù del suo isolamento e della sua stabilità è noto come il ritiro preferito dai miliardari in previsione del collasso sistemico"; a Los Angeles, dove va ad assistere a una conferenza sulla colonizzazione di Marte, perché presto ci sarà bisogno di un pianeta di riserva dove la nostra specie potrà sopravvivere; nelle Highlands scozzesi, devastate  "dalle forze congiunte del colonialismo e dell'industrializzazione, in compagnia di un gruppo di persone che condividevano le mie ansie sul futuro..."; in Ucraina a visitare "la Zona di alienazione di Chernobyl". La ricognizione di questi luoghi è il centro del libro e lo rende interessante, animato com'è dalla convinzione sincera che anche l'Apocalisse sarà classista e, se causerà morte e miseria per la maggior parte degli esseri umani, le solite élites troveranno il modo di salvarsi, soprattutto quelle di etnia bianca. Guerre nucleari, eruzioni solari, impatto di asteroidi, pandemie di virus devastanti: O' Connell non ci risparmia niente di cui aver paura perché, come dice a un certo punto la sua amica Sarah "la civiltà è un concetto relativo" e, per quanto la riguardava, "il collasso poteva essere già in corso di svolgimento" dipende dai punti di vista.

 

Se la Nuova Zelanda garantirà la "salvezza Premium" a quelli che potranno permettersela (infatti c'è la corsa dei miliardari della Silicon Valley all'acquisto laggiù di grandi proprietà terriere), se Elon Musk può abbandonarsi alla sua fantasia futurista di rifugiarsi su Marte, questi "santuari utopici" del capitalismo predatorio rivelano che anche la sopravvivenza alla catastrofe del mondo sarà "la sopravvivenza del più adatto, la fiducia nel diritto dei più ricchi e potenti di fare quel cazzo che gli pare, incluso vivere per sempre". Questo libro così insolito, che a volte sembra condiscendente verso le teorie bislacche dei predicatori che lucrano sulle paure delle persone meno istruite, ci porta invece a toccare con mano il livello di isteria delle élites, a cui sarebbe difficile credere, se O' Connell non si fosse messo gambe in spalla per documentarlo sul campo. Ma l'angoscia che lo muove a questa impresa e che all'inizio provoca forse un sorriso, cerca un riscatto di lucidità alla fine, quando lui sembra capire che "non saremmo sopravvissuti alla catastrofe costruendo bunker sotterranei ma rafforzando le comunità esistenti" e la libertà di ognuno di agire secondo i propri interessi gli sembra l'idea di libertà "più spietata e logora possibile" e "solo imparando ad aiutare le persone , solo rendendoci indispensabili agli esseri umani, saremmo sopravvissuti al collasso di civiltà".

 

L'amore per i figli, l'"innegabile moto di speranza verso il futuro","la sensazione d'essere ridicolo", gli uomini "che non sopportano troppa realtà", gli impediscono di chiudere questo "saggio narrativo" dove lo avrebbe chiuso Aldo Busi, nel punto in cui l'estinzione del genere umano sarebbe apparsa paradossalmente auspicabile, perché troppo eufemisticamente ingenue sembrano le ricette cui gli uomini ricorrono per rispondere in modo positivo alle esortazioni di Greta Thunberg o per esorcizzare la paura della fine del mondo (in estrema sintesi: troppo stupido il genere umano per non meritare di scomparire). La virata buonista riporta O' Connell tra le persone normali, ma il buon senso che alla fine prevale stempera la forza del reportage da quel mondo distopico, che per qualche pagina ci ha conquistato per la sua stravaganza. 

 

 

Il mondo che si presenta a noi in forme che spesso non riusciamo a decifrare e per questo ci spaventa è anche il tema di un libro affascinante di Benjamin Labatut Quando abbiamo smesso di capire il mondo (Adelphi, 2021). Il titolo originale, in spagnolo, Un verdor terrible (una vegetazione terribile) allude alle distorsioni che la scienza può generare, anche se finalizzata al bene, o forse prefigura gli effetti del verbo di Greta se sarà preso troppo alla lettera perché qui uno scienziato, colto da un senso di colpa lancinante per aver inventato un metodo di estrazione dell'azoto dall'aria, provoca una tale alterazione dell'equilibrio naturale che le piante, nutrite e protette all'eccesso da una umanità in soggezione, sarebbero state libere di crescere a oltranza, "proliferare e espandersi sulla superficie della Terra fino a ricoprirla interamente, soffocando qualsiasi forma di vita sotto una terribile cappa verde".

 

Nemmeno gli scienziati capiscono più il mondo, suggerisce questo libro che, specifica l'autore nei "ringraziamenti", è un'opera di finzione basata su fatti reali. Sono storie di scienziati, matematici, fisici che dal 1915 a oggi Labatut coglie nella postura stereotipata (lo scienziato "pazzo", irregolare) di chi fa dello studio una ragione di vita, di chi è preso dal sacro furore notturno della scoperta ma che, al risveglio, vede "quello che la notte aveva scambiato per il guizzo intellettuale più importante della sua vita" come "il vaniloquio di un dilettante, un triste episodio di megalomania". Perché gli scienziati sembrano loro stessi incapaci di districare i paradossi e le infinite contraddizioni della mente umana, essendo "solo una visione d'insieme, come quella di un santo, di un pazzo o di un mistico", quella che ci permetterà "di decifrare la forma in cui è organizzato l'universo". La meccanica quantistica "la gemma sulla corona della nostra specie", la teoria fisica più precisa, più bella e di più vasta portata che sia mai stata concepita sta, per esempio, alla base di Internet, dei telefonini senza i quali la nostra vita ormai avrebbe senso, e offre la promessa di un potere digitale "paragonabile solo all'intelligenza divina". Ma "su questo pianeta non c'è una sola anima, viva o morta, che la capisca veramente".

 

Al contrario di quel che pensa Mark O' Connell nei suoi Appunti da un'Apocalisse, Labatut fa dire a Alexandre Grothendieck, uno dei matematici più importanti del XX secolo, nel racconto più emblematico di tutto il libro "Il cuore del cuore", che "non sarebbero stati i politici a mettere fine al pianeta ... ma gli scienziati come loro che 'camminavano sonnambuli verso l'Apocalisse'". L'ossessione per i temi dell'ecologia, del complesso militare-industriale e della proliferazione delle armi nucleari di Grothendieck somiglia a quella di O' Connell. Lo scrittore irlandese è convinto che sia "impossibile osservare dall'esterno la catastrofe del nostro stile di vita" perché "non esiste nessun esterno. Anche qui, io sono un agente contaminante. Io sono l'Apocalisse di cui parlo". Grothendieck, dal canto suo, investì tutto il denaro che aveva e le sue energie nel gruppo "Survivre et vivre", fondò una rivista per divulgare le proprie idee sull'autosussistenza e la tutela dell'ambiente, ma nessuno sembrava condividere quella sua urgenza e tollerare il suo estremismo "ora che oggetto della sua ossessione non erano più gli astratti enigmi dei numeri ma il futuro concreto della società - problemi che Grothendieck affrontava con un livello di innocenza che rasentava l'idiozia".

 

La parabola di questo matematico e del suo progressivo isolamento dal mondo (fondò nel 1973 una "comune" a casa sua, poi la sciolse, poi si dedicò ai lavori manuali, vivendo senza acqua e senza luce, cercando di interrompere via via e sempre di più i legami con la società civile, per proteggere – diceva lui – il genere umano, che non doveva soffrire per colpa delle sue scoperte, ora che "l'ombre d'une nouvelle horreur" si stava avvicinando) è quella di una scienza incapace di mettere ordine (nel caos dell'universo quantistico, nella relatività dello spazio e del tempo) moralmente coinvolta  dall'incertezza sugli effetti delle proprie scoperte e azioni sul mondo: "cosa avrebbe fatto l'uomo se fosse riuscito a toccare il cuore del cuore?".

 

Torna in mente Primavera silenziosa di Rachel Carson (1962), il manifesto che anticipò le istanze del movimento ambientalista (tanto per ribadire che di questi temi se ne è sempre parlato), dedicato a Albert Schweitzer, che disse "L'uomo ha perduto la capacità di prevenire e prevedere. Andrà a finire che distruggerà la terra", perché anche il libro di Benjamin Labatut si chiude con il richiamo a "una peste vegetale, che si trasmette di albero in albero. Implacabile, silenziosa, invisibile, una putredine occulta, nascosta agli occhi del mondo". Come la Carson, che registrava qualcosa che agli umani sfuggiva: il silenzio nei campi, dove i pesticidi, gli insetticidi, i diserbanti avevano scacciato per sempre gli uccelli che, per questo, non si udivano più cantare e avevano fatto precipitare la primavera in una pace necrotica, nell'assenza angosciante di suoni.

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