Una conversazione con Michele Zappella / Scuola: dislessia, autismo e bullismo
Dopo aver ascoltato Pietropolli Charmet e il suo sguardo rivolto all’adolescenza, mi è sembrata un’occasione preziosa quella di poter rivolgere le mie domande a Michele Zappella, uno dei massimi esperti e studiosi di neuropsichiatria infantile, in prima linea, negli anni Sessanta (è nato nel 1936), per l’abolizione delle classi differenziali. Ha lavorato a Londra, negli Stati Uniti e in diversi istituti psichiatrici italiani, prima di diventare primario del reparto di Neuropsichiatria infantile dell’Ospedale Generale di Siena, incarico ricoperto per più di trent’anni. Continua a visitare bambini, a occuparsi di integrazione e proposte terapeutico-educative, e la sua voce sull’autismo è tra le più autorevoli del panorama contemporaneo. Tra i suoi libri vanno almeno citati: Il pesce bambino. Come la società degli adulti deve riapprendere ad ascoltare il bambino (Feltrinelli, 1977); Non vedo, non sento, non parlo. Autismo infantile: come i genitori possono guarire da soli i propri figli (Mondadori, 1984); (con Dario Ianes), Facciamo il punto su l'autismo (Erickson, 2009); (con Giuseppe De Luca), L'alba dell'integrazione scolastica (Carocci, 2013).
Lo raggiungo in Skype e mi accoglie canticchiando una musichetta: lo scrive anche nelle pagine del suo libro, il viso di Ludovico, che non ha mai parlato, si illumina quando ascolta versi e note prese dal Flauto Magico provenire dalle labbra di quel dottore che si fa chiamare Zio Michele.
AS. Ho letto il suo libro, Bambini con l’etichetta (Feltrinelli, 2021), e molte delle cose che scrive rispetto all’infanzia mi pare di averle incontrate anche lavorando in una scuola secondaria. Prima di percorrere quello di cui scrive le vorrei porre una domanda più generale su come stanno i bambini, come è stato per loro questo attraversamento, cosa ha notato, se è stato un tempo particolarmente delicato o meno.
MZ. Dipende da con quali bambini uno è in contatto, io lo sono stato attraverso videoconferenze, con bambini che partivano da situazione di difficoltà. Paradossalmente alcuni sembrano essere stati meglio: stando con i genitori le cose non sono andate poi tanto male e soprattutto hanno evitato l’impatto con la diagnosi pubblica, che è un problema, a mio avviso, molto grave.
AS. Questo è uno dei nodi fondamentali del suo libro: lei riporta alcune vignette cliniche, e il primo capitolo si apre proprio con le parole di Stefano “io sono dislessico”. Stefano e i suoi undici anni si presentano a lei in questo modo: perché accade?
MZ. Noi siamo un paese molto contraddittorio: da un lato un grande valore alla privacy dall’altro, soprattutto per quello che riguarda i bambini, la privacy non esiste più. La diagnosi, che è qualcosa di estremamente delicato, non resta tra la famiglia e il professionista, come invece dovrebbe. Certo poi si tratta di capire cosa fare della diagnosi rispetto al bambino, ma che la diagnosi venga conosciuta da tutti a scuola, anche dai compagni e dalle compagne, proprio in quel luogo dove sviluppano la loro socialità, è qualcosa di gravissimo ed è quel che porta al trasformarsi della diagnosi in etichetta, cioè descrivere una persona per un aspetto della sua personalità, un aspetto negativo. Le diagnosi nel contesto scolastico dovrebbero rimanere estremamente riservate. La conseguenza, altrimenti, a partire dai più piccoli, è che l’etichetta viene interiorizzata, i pregiudizi si diffondono, l’ascolto di quel particolare bambino, non riducibile alla diagnosi che è stata fatta, diventa difficile. Stefano stesso, appunto, si presenta a me dicendo “io sono dislessico”, e la mamma ripete questa diagnosi raccontandone i vantaggi.
Vi è poi un secondo problema: che significato dare alla diagnosi? Sappiamo – ci sono articoli molto chiari su questo parlando per esempio di dislessia – che su cinque bambini che sono indietro nella lettura, indistinguibili tra loro da un punto di vista fenomenico, uno solo tra loro è dislessico, gli altri sono ritardi di lettura dovuti a problemi ambientali o a ragioni differenti. In questo proliferare di diagnosi di dislessia il messaggio che arriva dalle nostre istituzioni agli insegnanti è che dislessia, discalculia, disgrafia, sono caratteristiche biologiche dell’individuo e che, come tali, rischiano di perpetuarsi e vanno gestite in terapia. Si tratta di qualcosa di completamente errato, che toglie alla scuola uno dei compiti principali: insegnare, leggere e fare di conto. Alla scuola questo si chiede, togliere questi strumenti è grave e se ne vedono le conseguenze: se andiamo a vedere le statistiche, sul piano dell’insegnare a leggere, l’Italia è tra gli ultimi paesi, è un paese dove i ragazzi che entrano nella scuola superiore non comprendono un testo.
AS. Quello che noto, lavorando con gli adolescenti, è che i genitori stessi, davanti a delle difficoltà, chiedono una diagnosi, si muovono in questa direzione, una diagnosi che consenta interrogazioni programmate, mappe, quegli strumenti compensativi e dispensativi che riducano l’impatto dell’adolescente con la fatica.
MZ. Accade questo, coincide con la mia esperienza già con i bambini. Il problema di fondo lo leggo in questa maniera: succede ora e non succedeva decenni fa, e questo a mio avviso è un cambiamento di cultura. Cosa è accaduto? La cultura nei riguardi dei bambini e degli adolescenti è cambiata nella direzione di quello che si potrebbe chiamare “la caccia al diverso”, “troviamo la diversità”: inizia con i BCE, poi con i DSA, e così via. Gli stessi genitori si trovano a percorrere questa direzione.
AS. Quello che mi interroga tuttavia è che l’idea degli strumenti compensativi e dispensativi nasce come mandato per una scuola inclusiva: strumenti diversi per difficoltà di vario tipo, strumenti che possano garantire a tutti il raggiungimento degli stessi obiettivi. Tuttavia, come ho scritto spesso, assistiamo a un proliferare di diagnosi di vario tipo che parcellizzano, creando eccezioni che sono schiacciate sulla diagnosi che le ha descritte, venendo meno l’ascolto singolare di Lorenza, o Nadia, o Stefano. Si voleva raggiungere l’inclusione e si è raggiunta – mi verrebbe da dire – la resa. L’insegnante garantisce la mappa, il tempo maggiore a disposizione, strumenti standardizzati e dunque il rapporto con la differenza si riduce a questo. Dove è stato l’errore?
MZ. Questa cosa si è preparata anni fa. Ricordo benissimo i tempi delle classi differenziali e speciali. Mi sono trovato protagonista nel favorirne la chiusura e in quell’epoca, prima metà degli anni Settanta, quello che facevo era di andare nel territorio – tra Siena e Firenze. Nelle scuole si tenevano delle assemblee molto partecipate, con anche cinquecento persone. In queste assemblee non intervenivano i genitori ma i cittadini, intervenivano perché era apparso chiaro in quegli anni che nelle classi differenziali andavano i figli dei poveri, in particolare i figli degli immigrati interni, quelli che si muovevano dal sud al nord, che parlavano dialetto e provenivano da famiglie analfabete e che davanti ai test collettivi non rispondevano perché faticavano a capire il tema e dunque la diagnosi prevalente era il ritardo mentale. Cosa successe in quell’epoca? Mi perdoni se sono molto preciso, ma è un nodo importante: il rapporto cittadini politici, sul luogo, era strettissimo. I cittadini decidevano, i politici partecipavano. Si chiusero le classi differenziali speciali, c’erano classi vuote e insegnanti specializzati disponibili, dunque si fecero in quegli spazi vuoti attività congiunte – musica, teatro, … – per chi non era in difficoltà e per chi invece lo era, e ulteriori attività specifiche per bisogni speciali. Un esempio è quello dei bambini sordi, che hanno bisogno di un insegnamento che dura un certo periodo di tempo e li conduce a padroneggiare l’italiano: vi erano classi particolari in cui i bambini sordi portavano avanti questo lavoro, affiancato a momenti in cui stavano con i compagni. Quando poi acquisivano la lingua venivano reintegrati totalmente. Gli insegnanti specializzati intervenivano con i sordi, con i ragazzi in difficoltà, ma non c’era una diagnosi pubblica. Gli insegnanti sapevano che c’erano dei punti deboli di Giovanni e dei punti di forza di Giovanni. La diagnosi restava un fatto estremamente privato. Che cosa è successo? Quando è stata fatta la legge, la legge è venuta dall’alto, da persone che non erano a conoscenza di tutto quello che si stava facendo nelle realtà licali, da noi come in altri parti di Italia. La legge ha cancellato le assemblee e ha introdotto i rappresentanti con uno scopo molto preciso, che alcune forze politiche si potessero impadronire della scuola. Scompaiono le assemblee, compaiono i rappresentanti dei genitori e – dopo qualche anno – degli studenti, e dunque abbiamo una scuola che è articolata in modo tale che le diagnosi sono rese pubbliche. La conseguenza immediata è l’interiorizzazione dello stigma.
AS. C’è poi un’altra conseguenza che lei mette bene in luce nel suo libro, ovvero il tema del bullismo.
MZ. Il tema del bullismo è un tema molto importante, il nostro paese è uno di quelli con più elevato livello di bullismo, percentuali vicine al 50% secondo alcuni studi di inizio millennio. Il termine venne introdotto nel 1974 da un pedagogista norvegese, Dan Olweus – tre ragazzi si erano uccisi. Olweus ha introdotto anche delle strategie antibullismo che attualmente vengono messe in atto a livello nazionale nei paesi scandinavi. Una delle frasi di Olweus che mi trova molto d’accordo è che dove c’è bullismo non c’è democrazia: se lei ha un figlio che a scuola incontra episodi di bullismo, le pare che possa dire di essere in un paese democratico? Un paese che non rispetta bambini e adolescenti non è un paese democratico, è una finzione. Nei paesi scandinavi l'obiettivo di tutte le scuole è di affrontare questo problema dal primo giorno di scuola. Agli studenti viene chiesta una valutazione, una serie di domande sulla situazione del bullismo, si ha poi una discussione collettiva in una assemblea molto partecipata – studenti, insegnanti, genitori – nella quale vengono stilate le linee guida. Cosa sono queste linee guida? Innanzitutto il bullo e i compagni devono ritrovarsi isolati: se il resto della classe è dalla parte della vittima, il bullo avrà poco spazio di azione. Questa è la prima direzione, la seconda prevede il confronto con il bullo. Le modalità di questo confronto dipendono anche dall’età: generalmente con i bambini più piccini è più facile persuadere il bullo che lui ha delle qualità sociali con cui può rendersi utile – vi è un metodo particolare che va in questa direzione. Con gli adolescenti può essere più difficile, possono essere più tosti, dunque il discorso può esser concreto e anche duro: se vuoi ci siamo, se non vuoi, ci rivediamo tra una settimana.
AS. Perché in Italia questa cultura della lotta al bullismo è assente?
MZ. Si tratta di una giusta osservazione, alcune variabili riguardano l’organizzazione della nostra scuola, preparata nei decenni passati. In Finlandia i genitori nella scuola compaiono solo in due occasioni: organizzare le ferie e facilitare il rapporto con i ragazzi. L’incontro con i genitori è assembleare, di gruppo, non c’è spazio di intervento per il singolo genitore. In Italia abbiamo una struttura che viene presentata come democratica ma democratica non è, il fine non era quello di aiutare bambini e adolescenti, era un fine di occupazione politica della scuola. L’esito è questo, una struttura della scuola fatta di rappresentanti, che facilita la diffusione a tutti delle diagnosi, il proliferare di etichette e pregiudizi. Cosa fanno gli insegnanti in queste situazioni? Situazioni in cui magari i rappresentanti dei genitori sono proprio i genitori del bullo, genitori pronti a minacciare la denuncia al Tar? Molti insegnanti stanno sulle loro, non esiste una direttiva chiara in questo senso.
Prendiamo come esempio la Francia, l’attuale ministro della pubblica istruzione – che ha scritto molti libri su scuola e pedagogia – ha distribuito un libretto a tutti gli insegnanti nel quale il messaggio chiaro è basato sull’insegnare i quattro fondamentali: leggere, scrivere, fare di conto e rispettare gli altri. Il resto passa in secondo piano. L’esito è che la Francia, che ha una lingua opaca, è molto più avanti di noi nell’imparare a leggere e scrivere e anche nella battaglia al bullismo. Il problema è avere chiari gli obiettivi della scuola. Il cambiamento di cultura dunque non è universale, dipende dalla situazione dei paesi.
AS. Ci sono due cose di questo cambiamento della cultura che mi interrogano: da un lato mi chiedo quanto questo attribuire una diagnosi che è, come lei dice bene, diventare sordi rispetto a quello che è una persona nel suo complesso, sia esito di una cultura in cui gli unici “punti di forza” riconosciuti sono sempre lato prestazione. Non viene valutata la capacità, per esempio, di stare nei legami. L’altro elemento, che incontro spesso è questo tema dell’impossibilità per i genitori di sopportare la frustrazione, l’impossibilità di non sostituirsi ai figli per proteggerli.
MZ. Lei ha detto di questa impossibilità di tollerare la difficoltà e questo mi pare uno dei punti chiave di questo cambiamento di cultura. Succede questo paradosso: il genitore stesso cerca gli strumenti che costituiscono l’etichetta. Il collegamento importante è quello sui valori della società dei consumi, quali valori? Se devi entrarci, devi avere due qualità: saperti relazionare bene e leggere e scrivere e fare di conto. Se poi sei troppo irrequieto non va bene, perché sei impulsivo, e nemmeno se sei troppo silenzioso. Da parte dei genitori il problema quale è? Il genitore pensa che il suo obiettivo sia innanzitutto avere il minor numero di problemi e dunque moltiplicare gli interventi attorno al proprio figlio è garanzia di questo. Questa impossibilità di tollerare le difficoltà ha note molto drammatiche, la diagnosi di autismo, per esempio, ha ricadute sulla famiglia devastanti e posso dirle che cinquanta anni fa non era così. Quattro madri su cinque vanno in depressione e dopo un anno e mezzo la depressione si riscontra ancora: si tratta di depressioni pesanti, che spesso portano anche la famiglia a non reggere. Ovviamente dipende molto dalle situazioni, ma non sono rari i casi in cui nascono conflittualità molto forti. Il problema dunque è la diagnosi rispetto al bambino ma anche la diagnosi rispetto alla famiglia. Con la diagnosi di dislessia spesso in famiglia emergono disturbi di ansia. Sono variabili che vanno considerate, quando si lavora con un bambino – come professionista, come insegnante – c’è sempre il problema di creare un rapporto di alleanza con lui ma, insieme, non dimenticare l’ascolto dei genitori. Quando vengono con la diagnosi di autismo spesso io, nel congedarli, metto in luce che i malati sono più di uno: il bambino, ma anche i genitori.
AS. Nel libro scrive anche di queste errate diagnosi, questo proliferare di diagnosi di autismo quando autismo non è. Ne faccio esperienza a scuola. Perché accade questo? Perché diagnosi così severe in una incertezza?
MN. Credo che il problema sia legato al metodo, lo ha insegnato Descartes, che il problema di fondo è il metodo. Nella diagnosi, specialmente con i bambini piccoli, il metodo è fondamentale. Generalmente il problema si pone intorno ai due anni, i bambini a due anni che rapporto hanno con un adulto? Un bambino di due o tre anni, che non parla granché, ha un altro tipo di comunicazione, una comunicazione nella quale vuole essere rassicurato e divertito. Ogni bambino ha la sua, ci sono bambini più visivi, bambini più musicali. Io spesso borbotto motivetti musicali. Questo passaggio è necessario per creare un’alleanza e l’alleanza è essenziale per capire chi è il bambino che mi trovo davanti. Un altro elemento fondamentale è accogliere i bambini con il loro nome e in un ambiente pieno di giocattoli, distribuiti con sapienza, giocattoli che devono essere presentati a lui come fossero lì per lui.
AS. Lei scrive che quando un bambino viene in visita deve avere la sensazione che lo stavi aspettando.
MZ. Certo, è essenziale che il bambino si senta protetto, in un ambiente sicuro, solo in questa situazione possiamo capire chi sia davvero. I bambini visitati nella corsia di ospedale sono allarmati, mica sono scemi! Sentono l’allarme dei genitori e dunque se ne stanno sul chi va là. In questa cornice il bambino viene sottoposto a dei test, ma perché mai dovrebbero partecipare? Mi pare insomma che sia dia molto valore a test basati su prove sui quali io ho molto dubbi, e che tutto questo avvenga con poca attenzione alla relazione.
AS. A questo proposito lei nel libro cita Eugenio Borgna e insomma questo invito alla relazione mi pare un poco quell’ascolto gentile, elemento essenziale per il rapporto con i pazienti psichiatrici, di cui lui scrive.
MZ. Penso sia perfettamente vero: sordità simili in contesti diversi. Il rapporto con Borgna è stato un rapporto in cui ho avuto fortuna, mi sono trovato a diventare primario lì da lui prima di essere incaricato qui a Siena. È l’uomo più gentile che io abbia mai conosciuto, ancora vi è un dialogo tra noi, l’amicizia è rimasta solida, anche perché non sono troppe le persone che la pensano così, le persone che provano a dimenticare la diagnosi e a parlare con i pazienti. Le bambine con Sindrome di Rett, per esempio, sono bambine che non parlano e non parlaranno mai, quale è il senso di descrivere ai compagni le caratteristiche e le conseguenze della malattia? Si tratta di bambine che molto spesso si incantano con Mozart, comunicano con la musica. È essenziale vedere questo, vedere il rapporto con l’altro in questa direzione. Le diagnosi cancellano gli aspetti positivi.
AS. Certo per fare questo è necessario un tempo, una disponibilità, una formazione. Questo a scuola non c’è, gli insegnanti di sostegno per lo più non hanno formazione: come si può parlare di inclusione in tali condizioni?
MZ. Sono molto d’accordo con lei, il paradosso sa quale è? Che adesso abbiamo strumenti incredibili a disposizione, ci sono i video, la possibilità di mettersi in relazione, di diffondere le competenze e formarsi. Non accade questo, ha ragione. Quello che posso dirle è che quando vedo questi bambini di due o tre anni e faccio il pagliaccio io vedo un candore che trasmette un’energia che dura giorni e giorni, e insomma il problema è di mettersi dalla loro parte. Non è tanto facile, ma è possibile. Mi dispiace che il nostro paese culturalmente sia un po’ tagliato fuori dall’Europa, non c’è comunicazione tra i discorsi educativi, non circolano. Ma io voglio pensare in modo positivo, bisogna battersi, no?
Prima di salutarlo gli chiedo cosa sia la lettura alternata: ne parla nel libro e io non la conoscevo. Si tratta di uno strumento prezioso per aiutare i bambini con difficoltà di lettura: si legge alternandosi, prima la parola e poi dalla parola alla riga e dalla riga a qualche frase. Se c’è una parola troppo lunga la si scompone per poi ricomporla, come pezzi di lego. La metto tra gli strumenti del mestiere, così come questa idea di provare a partecipare della fantasia dell’altro. Vale per il mondo dei bambini ma forse pure degli adolescenti e forse a scuola, quale che sia l’ordine e il grado, dovremmo ricordarci un po’ di più dell’importanza di farli sentire attesi. Attesi nell’uno a uno, moltiplicato per trenta.
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