Raduan Nassar / Un bicchiere di rabbia

6 Luglio 2018

La storia è delle più semplici. Siamo in Brasile, a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, al tempo della dittatura militare. È sera, e un uomo, un agiato proprietario terriero, torna nella sua fazenda, dove dietro al cancello, ad aspettarlo, c’è una donna, di professione giornalista. L’uomo cena con un pomodoro salato, mentre lei lo aspetta. Poi insieme vanno a letto, dove trascorrono un’ardente notte d’amore. 

L’indomani l’uomo nota un particolare nel giardino: delle formiche hanno aperto un varco nella siepe di ligustro. Le formiche sono ecodome, una specie particolarmente infestante molto temuta nelle campagne dell’America Latina. La visione della siepe sradicata sprigiona nell’uomo un’ira irrefrenabile che presto si riversa sulla sua amante, la quale nel frattempo sta semplicemente scambiando due parole con la governante: “[…] il suo sederino appoggiato al parafango dell’auto, mentre il chiarore del giorno le ridava rapidamente la disinvoltura di donnetta emancipata, il vestito di una semplicità ricercata, la borsa appesa alla spalla che le scendeva fino ai fianchi, una sigaretta fra le dita e due chiacchiere scambiate così democraticamente con la gente del popolo”. 

 

La sfuriata che ne consegue fa emergere tutte le contraddizioni della coppia. Lui è un insolente conservatore, un machista, un fascista viscerale; lei è una borghese progressista, idealista e sessantottina, “coi i grossi peli della sua ideologia”. L’intimità, la confidenza che fondeva i due corpi durante gli infiniti giochi erotici della notte appena trascorsa, svanisce nell’immediatezza del giorno, lasciando il passo all’irrimediabile distanza, alla disputa fra due opposte visioni del mondo.

Una storia delle più semplici, ho detto, questa narrata da Raduan Nassar in Un bicchiere di rabbia (SUR, traduzione di Amina Di Munno, postfazione di Matteo Nucci). Una semplicità che tuttavia è riferita al numero minimo di elementi essenziali di cui Nassar si serve per imbastire il suo racconto: un uomo; una donna; l’amore; una lite. Nient’altro. 

 

 

Ma quando abbiamo a che fare con un romanzo di meno di cento pagine, la cui sinossi è appunto riassumibile in quattro parole chiave, capace nonostante ciò di mettere in moto un vortice di temi, di significati, di senso, lasciando affiorare sesso, politica, Storia, tutto si può dire tranne che sia una storia semplice. E in effetti non lo è. A partire dalla lingua che Nassar usa. Una lingua colta, vertiginosa, ricercatissima, così complessa e vibrante da risultare, soprattutto nei dialoghi, assolutamente falsa. Ma è uno stratagemma dello stile. Il romanzo è narrato in prima persona dal protagonista – il che tende ad accentuare l’inverosimiglianza – con la sola eccezione dell’ultimo capitolo, che ribalta il punto di vista. Un incontenibile flusso di coscienza, scritto senza mai mettere un punto, se non alla fine di ciascuna delle sette parti di cui si compone il libro. 

Nato nel 1935 da genitori di origine libanese, laureato in filosofia all’università di São Paulo, Nassar è stato tra i fondatori del Jornal do Bairro. Oltre a Un bicchiere di rabbia ha ottenuto il successo letterario con Lavoura arcaica (che SUR pubblicherà prossimamente in Italia) e con una raccolta di racconti scritti negli anni Sessanta, Menina a caminho. Dopodiché, e siamo agli inizi degli anni Ottanta, ha scelto di acquistare una fazenda di 640 ettari, compresi 80 ettari di foresta vergine, nel sudest dello stato di São Paulo, e di occuparsi solo di quella lavoura arcaica (agricoltura arcaica) che era stato il tema del suo primo romanzo. 

 

Le ragioni dell’abdicazione di Nassar restano misteriose. In un’intervista del 1996 ha risolto la questione in maniera spedita, dicendo semplicemente di essersi stufato del narcisismo di certi scrittori in cerca di applausi. Più che a Salinger, archetipo moderno dello scrittore ritirato, l’autoesilio di Nassar rimanda a Henry Roth, l’autore di uno dei romanzi più complessi e potenti del Novecento americano, Chiamalo sonno, pubblicato in gioventù prima che Roth decidesse di dedicarsi all’allevamento delle anatre in una fattoria del Maine per il resto della sua vita. 

Un bicchiere di rabbia è a tutti gli effetti un romanzo politico, e lo sperimentalismo di cui Nassar si serve è al contempo rifugio e insubordinazione. Pubblicato per la prima volta nel 1978, è stato in realtà scritto nel 1970, ad appena due anni dall’inizio della più dura fase di recrudescenza della dittatura militare. Dal 1968 al 1974, infatti, sotto il regime repressivo e sanguinario di Emílio Garrastazu Médici, la persecuzione del governo costrinse all’esilio, alla tortura e alla morte, migliaia di comunisti e liberali brasiliani. L’attività letteraria fu marginalizzata. Poesia Marginal o Geração Mimeógrafo (Generazione Ciclostile) furono appunto i nomi sotto i quali un’intera generazione di scrittori, soprattutto poeti, si radunò per aggirare la censura.

 

Le riflessioni sull’ipocrisia e sul fascismo inteso come male naturale radicato nell’uomo, a dispetto dell’idealismo, delle differenti professioni di fede politica, sono disseminate in tutto il testo: “Confesso che in certi momenti divento un fascista, lo divento e so di diventarlo, ma anche tu diventi una fascista, esattamente come me, solo che tu lo diventi e non sai di diventarlo; questa è l’unica differenza, soltanto questa; e tu solo non sai che lo sei diventata perché – non che sia una novità – non c’è nulla che sia più alla moda oggigiorno che essere fascisti in nome della ragione”. 

Un testo, insomma, che appare ancora oggi capace di parlarci, nonostante la distanza cronologica e geografica che da esso ci separa, e che risuona come una voce sinistra nel nostro presente.

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