Onore allo scrittore Paolo Villaggio / L’impotenza è una cagata pazzesca!

5 Luglio 2017

Nel gennaio del 2013 l’editore storico di Paolo Villaggio, Rizzoli, ha pubblicato Fantozzi, rag. Ugo. La tragica e definitiva trilogia: 580 pagine che riunivano i “romanzi” Fantozzi (prima uscita 1971), Il secondo tragico libro di Fantozzi (1974) e Fantozzi contro tutti (1979), editor Oreste Del Buono. L’ho comprato appena l’ho scoperto. Ho sempre pensato che la lingua inventata da Paolo Villaggio quasi cinquanta anni fa fosse un unicum non della letteratura italiana di serie B, o della non-letteratura, ma qualcosa che nel tempo si sarebbe rivelata come epocale. Stefano Bartezzaghi chiude quel tomo grosso come Guerra e pace o I Buddenbrock con una postfazione lessicale a mio giudizio fondamentale: Il Fantozzi della lingua italiana censisce l’incredibile quantità di utilizzi spiazzanti e roboanti da parte di Villaggio scrittore che in quegli anni creò un vero vocabolario ironico diffuso, che anticipò il seguente fenomeno lessicale di altro consumo pop quali ad esempio generò il Drive In di Antonio Ricci su Italia 1 dieci anni dopo (1983-1988).


Il primo personaggio comico scritto e interpretato da Paolo Villaggio che vidi in televisione alla fine degli anni Sessanta (avevo 10 anni e la tv era un rito della già di per sé deprimente domenica pomeriggio che mi attraeva e insieme mi dava malessere per quel suo messaggiare a una “famiglia” che doveva riunirsi in quanto “famiglia” davanti a una televisione finalmente “per famiglie” chiuse in casa) fu lo straordinario professor Otto von Kranz: vestito con frac e tuba, con pesante accento tedesco, sbruffone e ciarlatano, irrompeva nel vasto studio televisivo Rai di Quelli della domenica, e si martellava un ginocchio, o finiva per tuffarsi da un trampolino dentro una bacinella, conficcandocisi tragicamente. Faceva molto ridere, pure se il gag altro non era che una formula da comiche del cinema muto.

 

 

La prima cosa che mi spiazzò, che me lo fece percepire come uno strano personaggio inedito della Rai, era il misto di crudeltà e sfiga che buttava dentro il “decoro domestico” dell’Italia svirgolata dal Sessantotto.
Gli italiani non hanno mai voluto apparire né crudeli né sfigati, pur essendolo frequentemente sia nella storia sia nella vita privata di tutte le ere storiche. L’accento tedesco serviva a rassodare il senso di alienazione che generava quel violento imbecille e a esorcizzare la sensazione che sbruffoni sfigati crudeli e imbecilli fossimo tutti noi che lo stavamo guardando.


Quando esce il primo Fantozzi in libreria, quindi, Villaggio non è né uno scrittore né uno sconosciuto, e la sua collocazione in libreria è imbarazzante. All’epoca non c’era traccia della vulgata fantozzesca generata dagli svariati film di Neri Parenti con Villaggio ottimo protagonista. Fantozzi era stato anticipato da Fracchia, l’altro sfigato, succube, ignavo, devastabile impiegato che si afflosciava spassosamente sulla poltrona floscia di moda nel design di allora di fronte al crudele, spietato dirigente interpretato da un magistrale Gianni Agus. Fracchia aveva le mani sudatissime, e quasi non riusciva a parlare. Fantozzi aveva anche lui grande difficoltà a parlare (oggi lo definirei l’antitesi assoluta dell’assertivo), ma la novità era che la voce narrante di quei “romanzi” non solo conosceva molto bene la lingua italiana, ma sapeva addirittura crearne una sua. Il periodare era secco, di brevi frasi. Le frasi virgolettate erano insieme essenziali e icastiche. Il cronista procedeva implacabile nella narrazione di questo principe della sfiga impiegatizia senza compassione alcuna, e senza moralismo alcuno. I personaggi erano definiti molto chiaramente, e se non fosse stato per la ferocia inedita si sarebbe potuto pensare a una specie di Gogol (lo scrivo prima di scoprire che Gianni Canova nel suo lemma Fantozziano – in Anni Settanta, a cura di Belpoliti-Canova-Chiodi, Skira 2007, ha già parlato del Cappotto come modello) che invece della insensata burocrazia zarista si fosse messo a narrare l’insensato Moloch della impiegatizzazione di massa italiana.

 


Nel suo lessico fantozziano, Bartezzaghi sbulina alcune parole chiave del Villaggio narratore: Allucinante/Allucinazioni (bella virata sfigata degli sballi psichedelici hippie di quegli anni), Amputarsi, Aziendale, Cambiali, Cesso, Coglione, Craniata, Crisi mistica (unica via di uscita per un povero Cristo sottoposto a iterate torture), Feroce, Lupi, Megagalattico, Mostruoso, Mutandoni, Nuvoletta dell’impiegato, Orrendo, Rutto, Schianto/Schiantarsi, Tedeschi, Terrificante, Tragico, Valanga.


Nel Secondo tragico libro di Fantozzi il ragionier Ugo si trova in stanza, nella grande azienda Iri (Villagio lavorò all’Ansaldo di Genova primo d’essere scrittore e attore), un ex «leader del Movimento studentesco»: Folagra lo informa su come funziona il capitalismo, e gli porta prima opuscoli e poi classici del marxismo: «Dopo tre mesi di letture “maledette” e di comizi, Fantozzi vide la verità e si incazzò come una belva. Anzi lui era molto più inferocito di Folagra: erano vent’anni che lo prendevano per il culo. Gli avevano fatto credere che lui era ancora lì solo perché “loro” erano buoni, che si poteva considerare fortunato e che doveva tenere un contegno rispettoso con i superiori e mostrare fedeltà e riconoscenza».
A metà anni Settanta io mi stavo preparando al Settantasette. Mio padre era ragioniere, come Fantozzi. Lavorava all’Azienda Elettrica Municipale, e quando mi invitava a pranzo nella mensa aziendale, a me sembrava di entrare in un libro di Paolo Villaggio. Io sapevo che mio padre era un gran lavoratore e un buono, e vedevo che i suoi superiori erano tutti dei paraculi raccomandati e lavativi, cui era dovuta referenza. I capiufficio sbeffeggiavano i subalterni. Io volevo prenderli a pugni, ma ero ospite di mio padre. C’era ovviamente anche la signorina Silvani di turno, che ovviamente eccitava lubricamente i colleghi in un mood pesantemente impotente da eiaculazione precoce. Sentivo un malessere notevole, ma non c’era niente da ridere. Perché quella era la realtà, e il genio di Paolo Villaggio è consistito nel farmi ridere di una condizione avvilente e insopportabile. Mio padre aveva anche l’amico-collega, il suo Filini. Ieri, 3 luglio sono morti sia Paolo Villaggio che l’amico-collega migliore di mio padre.


Fantozzi è l’apoteosi dell’impotenza. Il passo che ho citato prima dimostra che il personaggio non era affatto inconsapevole. Era impotente. Ignorante di ritorno, ingrassato, con un erotismo disfatto in bava agognante e sbeffeggiata. Gli stronzi c’erano e ci sono, e nelle dinamiche del lavoro li incontri ovunque, anche – che so – in case editrici e giornali: bisogna compiacere il capo e leccare il culo alla moglie e alla figlia.
Quando me ne sono andato di casa a vent’anni non sono mai più entrato all’Azienda Elettrica Municipale, e mio padre andando in pensione è sbocciato riscoprendo le sue radici di montanaro con una sua socievolezza cordiale e tante amicizie e interessi.
Il rag. Ugo Fantozzi invece è rimasto intrappolato per sempre, oltre la morte del suo autore Paolo Villaggio, dato per morto tante volte, cinico e beffardo anche sulla morte, e ora – pare – veramente morto.


Fantozzi in particolare è stato un personaggio in genere detestato dalle donne: è maschilista, impotente, sfigato, per niente virile. Si vergogna di moglie e figlia, che occulta nella sua tana di troglodita di ritorno.
Può darsi che da Fantozzi, passando per Drive In, molti intellettuali di sinistra come me, ridendo di un mondo in disfacimento per la mancata Rivoluzione, siano stati corresponsabili del degrado universale della società italiana. Ma purtroppo Fantozzi è la statua dell’impotenza italiana: possiamo anche sbatterci il cranio contro nell’inchino lecchino, come capitava al ragionier Ugo incozzando nella statua dell’orrenda madre del cavalier Catellani tricotante dell’amministratore delegato tracotante, ma non riusciamo a buttarla giù come hanno buttato giù le statue di Stalin e di Saddam Hussein.

 

 

La morte del congiuntivo di Filini dilaga ormai nella scuola secondaria di primo e di secondo grado. Le tristi single allumeuse alla Silvani proliferano.

Fantozzi, alla fine della trilogia, confessa davanti al Presidente Galattico di essere l’uomo più felice al mondo. La risata cosmica lo seppellisce di piano in piano in tutto il palazzone. E Villaggio finisce così il suo Candide, senza neanche l’esortazione finale a coltivare il proprio orticello. Molto più difficile far ridere che far piangere. Villaggio mi ha fatto ridere fino alle lagrime. E a modo suo mi ha ricordato che la dignità ci vuole, e anche il coraggio di urlare (nel giorno in cui Salvini, Grillo e Renzi tweettano mesti all’unisono il loro tributo al “grande italiano” defunto): «L’impotenza è una cagata pazzesca!»

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