Fino all’11 settembre 2016 a Milano / William Klein: il mondo a modo suo

19 Agosto 2016

Cosa accade nelle fotografie di Willam Klein?  Accade tutto si potrebbe dire. Accade il tempo.  Quale ci si chiede? Che tempo è? Cosa percepisce lo sguardo dello spettatore di fronte a queste immagini? “Un attimo di tempo che si afferra e tutto vince”, come il poeta Posidippo vede la statua del dio Kairós : “un ragazzo nel fiore della giovinezza proteso come in uno slancio, pronto a balzare”? 

È realmente quello che i greci definivano il tempo giusto, adatto, opportuno, conveniente, buono? L’opportunità. L’attimo che balena? “Qualcosa che si dà da vedere e che ci fa vedere”? Il Kairós? Non è nemmeno l’occasione, che il tempo e la fortuna concedono solo a chi sa coglierla. 

 

C’è qualcosa che rimanda a un'epifania: il tempo nelle immagini di Klein è l’indice di un eccesso, ricorda un tempo biblico, l’istante evocato da  S. Paolo nella Lettera ai Galati (Lettera ai Galati 4, 4-5), quando l’apostolo annuncia la “pienezza del tempo”, il momento prima che Cristo venga mandato a riscattare il destino degli uomini, ovvero il tempo stabilito da Dio per portare l’umanità alla sua piena maturità. Un tempo quasi indescrivibile, che nelle immagini di Klein  sembra riesca a cambiare  l’“è stato” di Roland Barthes: il noema della fotografia, ciò che è esistito e tuttavia già differito, si trasforma nel tempo della possibilità, del divenire, della vita.  In che modo?

 

Basta soffermarsi a osservare le città di Klein. Per esempio Roma, fotografata nel 1956 quando egli lavorava come assistente a Federico Fellini per Le notti di Cabiria. Nella foto scattata in Piazza S. Pietro (Suore vedono il Papa, 1956) non si scorgono solo molte persone. Si percepisce che ogni soggetto è degno di essere presente nell’immagine con la sua individualità e il suo tempo: quello  della bambina con le mani unite, a fianco del tempo della suora sdentata, o di quello  della signora con gli occhiali scuri o il tempo rapito dell’uomo con lo sguardo rivolto verso l’alto, sopra la folla. Una moltitudine di istanti che fa esplodere l’immagine. Ogni individuo è la somma di quell’istante e insieme è il suo  momento di pura unicità: il tempo di tutti e il tempo di ognuno, la pienezza di un frammento in grado di colmare il vuoto di un presente ormai trascorso. E il fotografo-demiurgo pronto a donare  ad ognuna di esse uno spazio in cui il loro tempo mortale diventa immortale nello spazio dello stesso istante. 

 

Un tempo-palinsesto, insieme continuità e frammento. O meglio come dice Klein a proposito di una sua fotografia di moda scattata a Roma pubblicata sul libro Roma + Klein, ma che vale anche per le altre: una composizione, che stabilisce un contatto imprevisto tra elementi distanti e fa gioire del loro ravvicinamento:  “architettura classica, un Tiziano o qualcosa del genere, un cameriere che porta un caffè e l’ampia falcata della top model Simone Daillencourt in un abito di Capucci. Che altro si può volere?”.  

 

E poi a Parigi. Cosa si può volere più di un bagno turco parigino in Rue d’Odessa in cui  sette donne obese (Club Allegro Fortissimo, Parigi 1970) esibiscono con sfacciataggine la loro pluralità eterogenea di tempi e di soggetti insofferenti a qualsiasi contenimento? Forse nell’esibire l’imperfezione si nasconde il segreto di un tempo che si allontana dalla purezza dell’istante perfetto, per trovare nell’enigma della sua materia in eccesso, il contorno di una nuova forma. 

 

Lo stesso avviene nelle immagini di New York. Non esiste nulla di pulito, non c’è alcuna continuità con il mito del sogno americano: il cielo da bomba atomica, i piccioni che invadono l’immagine o il bambino che punta la sua pistola verso l’obiettivo (e verso chi guarda l’immagine) sono solo alcuni esempi. William Klein lo racconta: “nel 1950 non riuscivo a trovare un editore americano per le mie immagini di New York... Tutti quelli a cui ho mostrato le foto esclamavano 'Questa non è New York, troppo brutta, troppo squallida e troppo unilaterale' hanno anche detto 'Questa non è la fotografia, questo è merda!'".

 
William Klein, Gun 1, 1955, dipinto 1999 (dalla sezione Contatti dipinti), © William Klein. 
 

Eppure accade altro, o meglio accade il suo incontro con la città, lo sfregarsi del fotografo contro il tessuto urbano con violenza, rabbia, entusiasmo, sino a toccarne l’essenza, il suo segreto. Il titolo del libro in stile tabloid lo dice con un’ironia feroce: Life is Good & Good for You in New York: Trance Witness Revels. “Tre parole che per me allora riassumevano la fotografia”, racconta Klein, “Chance witness è chi capita per caso su una tragedia. Revels è un gioco di parole con reveals. Rivelare ma anche gozzovigliare. Il tutto sotto il segno della  trance”.

 

Qui il tempo e la sua pienezza costituiscono la forma di un’appropriazione, sono un luogo privilegiato, un piedistallo in cui la materia può essere osservata: ogni volto, oggetto, insegna, edificio che costituisce la fotografia  75 + Fight Communism (New York, 1955) con il suo tempo e il suo spazio, impone la propria persistenza e insieme l’esistenza della città, la sua “foto-sintesi”. Lo dice benissimo Régis Debray: “Seguite l’obliqua che va da sinistra a destra, da una parte all’altra della cifra centrale, e avrete la foto-sintesi dell’America: Esso, l’economia, Public Telephone, la comunicazione. I 75 cents, il dio di tutti, il dollaro. E Fight Communism, in basso a destra, l’ideologia. È un’immagine ed un segno, è bello ed è brutto, delirante e rigoroso. In breve, una provocazione improvvisata come la foto secondo Klein, e come la stessa vita”. 

 

E poi c’è il tempo del fotografo con il suo occhio che entra nell’evento: si intrufola, lo vive, lo guarda e poi scatta. Per lui niente regole: distorsioni da grandangolo, sovra e sotto esposizioni, sfocature, scie che si imprimono sul fotogramma e lo sporcano. Le sue foto sono mosse, eccessivamente granulose, ad alto contrasto. Caotiche, eccessive, ribelli. In esse si manifesta uno scorrere del tempo senza età, quello descritto da  Marc Augé nel suo saggio omonimo, quando rammenta le Fantasticherie del passeggiatore solitario di Rousseau,  “un  tempo non lineare, in cui il dopo può essere più ricco e preciso del prima”, che rimane “faccia a faccia con quello che passa, fonte di piacere e felicità”. Un tempo in cui ognuno può sempre aspettarsi  e scoprire qualcosa, un’immagine che dimostra a chi guarda “che è ancora vivo, che i loro destini sono intrecciati e che sono uniti “in vita e in morte”. 

 

Forse si tratta davvero di una ricerca simile a ciò che propone  Alain Badiou nel suo saggio Alla ricerca del reale perduto del 2015: affermare che il gesto fondamentale di conquista del reale sia dichiarare che l’impossibile esiste, ovvero  qualcosa che si produce fuori dal  reale e allo stesso tempo lo produce.

Così, afferma il filosofo, ricordando André Bazin, il reale di un’immagine cinematografica è ciò che è fuori-campo, “l’immagine trae la sua potenza di reale dal fatto che essa fa riferimento a un mondo che non è nell’immagine ma che ne costituisce la  forza”.  Per questo prosegue Badiou, “in quanto costruita a partire da ciò che è fuori immagine, essa può essere veramente bella e forte, a patto che il cinema sia composto – calcolato – da ciò che circoscrive l’immagine di un’inquadratura, e quindi che il mondo lasciato fuori-campo sia per l’appunto ciò che non è filmato, ciò che è impossibile far rientrare, così com’è, nell’immagine inquadrata”.  Il fuori-campo si può quindi definire come “l’infinito proprio dell’immagine cinematografica. Ma è anche il suo impossibile, perché per definizione l’infinità del mondo circostante non è mai catturata dall’immagine”.

 

Nelle immagini di William Klein, avviene qualcosa di simile: il fluire del tempo fuori dall’immagine e la percezione della sua pienezza, viene richiamata nell’immagine  grazie al  già citato noema della fotografia, il barthesiano,  “ça a été”, l’inconfutabile referente, con una tale forza, che i volti, i luoghi, gli oggetti e le strade delle sue immagini lo superano, trascendono la loro stessa potenza indicale e sono nel medesimo istante quel momento ma anche tutti i momenti rimasti fuori dall’immagine,  i quali  le attribuiscono un potere smisurato: la fotografia diviene “pienezza di tempo” carica di ogni evento.

 

Così sono anche i volti e i corpi fotografati da Klein.  Esprimono l’idea di  un confronto radicale con il reale: la ragazza in bikini  ritratta a Mosca (Bikini, Mosca 1959) con la sua risata insolente in grado di meravigliare lo stesso fotografo e il boxeur-pittore Shinohara (Tokyo, il boxeur-pittore Shinohara durante una performance, 1961)  che esprime con una smorfia la vitalità estrema del suo gesto, o le modelle per strada (Foto 2)  sospese tra realtà e finzione – mannequin o prostituta? -  così come i volti sfocati dei passanti o quelli della compagnia di ballo La La La Human Steps, in metropolitana a Parigi nel 1991. 

Con la loro fisicità irrompe sulla superficie la percezione del movimento e  l’esperienza del  tempo vissuto, che sopravvive nell’istante a venire e si sovrappone alle  infinite possibilità dei suoi spazi: la strada, l’imprevisto, l’objet trouvé, l’incedere d’azzardo dei surrealisti.

 
William Klein, Nina, piazza di Spagna, Roma 1960 (dalla sezione Moda), © William Klein 
 

È quasi superfluo scrivere chi è stato William Klein. Eppure la sua vita è sinonimo di pienezza come le sue immagini. È insieme il caso, lo straordinario, la vita quotidiana, l’arte.  Egli nasce  a New York nel 1928 tra la Fifth Avenue e la 110th Street, al confine con Harlem,  da una famiglia ebrea di origine ungherese. Studia Sociologia al City College of New York anche se non termina gli studi e frequenta il MoMa.  Dal  1945 trascorre due anni  nell’esercito tra Germania e Francia  come radio operatore.  Al termine della guerra decide di stabilirsi a Parigi e nel 1948 inizia a studiare arte alla Sorbona. Conosce Fernand Léger, suo insegnante per un breve periodo, che gli dà un consiglio: “Esci dalle gallerie. Pensa all’architettura. Pensa alla strada”. Ma non è ancora giunto il momento. 

 

Dapprima Klein realizza alcuni dipinti astratti, hard-edge, che vengono notati dall’architetto italiano Angelo Mangiarotti, il quale gli chiede di riprodurli su séparé rotanti per il suo appartamento milanese. Per cercare di documentare le sue creazioni si avvicina alla fotografia. Nel  novembre del 1952, la rivista di architettura e design Domus di Gio Ponti comincia a pubblicare i fotogrammi come copertine e nel 1954 Klein ne espone alcuni in occasione di una collettiva al Salon des Réalités Nouvelles di Parigi. Il direttore di Vogue America, Alexander Liberman vede la mostra e nel numero di aprile  pubblica alcune sue foto. Da quel momento Klein inizia a lavorare come fotografo per la celebre rivista. 

 

Di ritorno a New York nel 1954 pubblica un volume dedicato alla città che esce nel 1956 per tre editori europei Éditions du Seuil, grazie al regista Chris Marker, Feltrinelli e il londinese Photography Magazine. E poi fotograferà Roma, Mosca, Tokyo e Parigi. Nel frattempo si dedica alla moda e  al cinema. Incoraggiato dallo stesso Marker e da Alain Resnais nel 1958 gira Broadway by light, che verrà giudicato da Orson Welles, che Klein incontra in nave nel viaggio di ritorno a New York, come il “primo film che deve essere necessariamente a colori”, seguito da molti altri. Nel 1974 esce il suo documentario dedicato a Cassius Clay, Muhammad Ali the Greatest mentre del 1966 è il suo primo film di finzione Qui êtes-vous Polly Maggoo, dedicato agli eccessi del mondo della moda, che lui conosce molto bene. Stanley Kubrick dirà a Klein che con questo film “si era rivelato almeno dieci anni avanti rispetto a chiunque”. Dal 1969, per un decennio, girerà più di duecentocinquanta spot pubblicitari per finanziare i proprio progetti, senza mai cessare di sperimentare e contaminare fra loro i diversi linguaggi.

 

Infine c’è un momento che vorrei ricordare. È il  Klein rimasto nei miei occhi. All’anteprima organizzata a Palazzo della Ragione, è arrivato anche il fotografo. L’ho visto seduto su una sedia a rotelle, quasi immobile,  accompagnato dal suo assistente e attorniato da molte persone. Poi è successo qualcosa di inaspettato, come un lampo. Klein si è guardato intorno e  con un gesto  velocissimo ha cominciato a scattare.  Tutto è cambiato. Mi sono detta: il giovane che balza con il suo occhio nel mondo è tornato. E così nella stanza sono sparite le pareti, è comparsa la strada di una delle sue molte città: i volti dei passanti, gli edifici, le insegne, persino i rumori. Anch’io  sono entrata in una delle sue immagini. E all’improvviso,  fra lo spazio chiuso del palazzo si è aperto un varco, uno squarcio: senza davvero rendermene conto, ho intuito per una frazione di secondo cosa significa stare nella  pienezza del tempo.

 

William Klein. Il  mondo a modo suo, a cura di Alessandra Mauro. Dal 17 giugno all’11 settembre 2016, Palazzo della Ragione, Milano.

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