Quattro film post-Brexit? / Churchill, la regina e l'umore anglosassone

16 Febbraio 2018

Facciamo finta che il voto britannico per lasciare l’Europa, la famigerata Brexit, non ci sia stato. Come leggeremmo i film più recenti di produzione britannica, Churchill di Jonathan Teplitzky (ancora inedito in Italia), Dunkirk di Christopher Nolan (in corsa per l'Oscar al miglior film e alla miglior regia), Victoria & Abdul di Stephen Frears e The Darkest Hour (L’ora più buia) di Joe Wright (sei candidature agli Oscar, fra cui miglior film e miglior attore protagonista)? Oggi, dopo Brexit, è facile interpretarli come segnali di un paese che si chiude sulle sue tradizioni e rivendica la propria grandezza nel nome di un passato mitizzato, che funziona come strumento di costruzione di una psicologia collettiva più consolatoria che rivolta al futuro. 

Operazione nostalgica, insomma, che chiede al cinema quella funzione di formazione delle emozioni collettive a fini politici che fa parte della sua tradizione più originaria e forse ormai più remota: Churchill ricostruisce i tormenti del primo ministro britannico prima dello sbarco in Normandia del 6 giugno 1944; Dunkirk racconta l’«operazione Dynamo» (o «miracolo di Dunkerque») del maggio-giugno 1940, che rappresenta nell’immaginario britannico l’inizio della speranza alleata di sconfiggere i nazisti; Victoria & Abdul presenta la relazione tra la regina Vittoria e il suo servitore indiano e musulmano Abdul Karim; e L'ora più buia ritorna ai primi giorni da primo ministro di Churchill tra il maggio e il giugno del 1940, proprio quando nacque l’«operazione Dynamo». 

 

Gary Oldman (al centro) ne “L'ora più buia”.


Si tratta per molti aspetti di film profondamente diversi fra loro, ma i legami sono evidenti: la presenza dello stesso protagonista, l’icona e gloria nazionale Winston Churchill (interpretato da Brian Cox e Gary Oldman, un inglese e uno scozzese) sia in Churchill sia in L'ora più buia; la sovrapposizione cronologica e tematica tra il film di Wright e Dunkirk; la solidarietà tra monarchia e democrazia che li attraversa un po’ tutti e quattro. Una Gran Bretagna ripresa nel momento della difficoltà, attraverso vicende controverse (perché Dunkerque al tempo fu presentata dai tedeschi come una loro grande vittoria e la regina Vittoria non fu certo un modello di apertura interculturale), ma in grado di rialzarsi grazie alla straordinaria capacità organizzativa e combattiva dei suoi leader e del suo popolo. La scena in cui, ne L'ora più buia, Churchill chiede ai passeggeri della metropolitana se vogliono trattare la ritirata o continuare a combattere contro i tedeschi rappresenta la sintesi perfetta tra la forza del capo e la volontà del popolo che è alla base della convinzione britannica di aver elaborato il modello politico migliore al mondo. Lì un giovane nero lo aiuta a completare una citazione a memoria dai patriotticissimi Canti di Roma antica (Lays of Ancient Rome) di Thomas Babington Macauley, suo predecessore come politico-letterato, al punto da risultare non troppo distante ideologicamente dalla scena finale di Victoria & Abdul, in cui il servitore indiano, tornato in patria dopo la morte della regina, s’inchina davanti a una statua gigante di lei e le bacia i piedi, come se il potere promuovesse il giusto per concessione anziché nel nome di valori condivisi o di un’etica politica.

 

Ali Fazal e Judi Dench in “Victoria & Abdul”.


 Il cortocircuito tra alto e basso salvaguarda la distanza, il rispetto dei ruoli e le logiche del potere, secondo la buona tradizione britannica – come conferma, sempre quest’anno, anche il documentario prodotto dalla BBC in occasione del 65° anniversario dell’incoronazione della regina attuale, Elisabetta II, The Coronation, dove la regina mostra tutta la sua distanza umana dal cerimoniale (e dalla corona stessa). È il mito sempreverde di Robin Hood ad affacciarsi dietro queste produzioni, perché la monarchia e il popolo sono sempre in sintonia, mentre a osteggiarli ci sono i politicanti, i burocrati, i ciambellani e la Corte. Due dei film, Dunkirk e L'ora più buia, si chiudono addirittura con le stesse parole, tratte fedelmente dal discorso tenuto da Churchill alla Camera dei Comuni il 4 giugno 1940 (“We Shall Fight on the Beaches): nel primo film messe in bocca al soldato Tommy, che le legge da un giornale, nel secondo pronunciate dallo stesso Churchill in Parlamento. Davvero difficile liberarsi dal sospetto di un bisogno di ritorno alle radici della nazione in epoca di Brexit, nel nome della grandezza d’animo, della disponibilità al sacrificio e del culto della libertà. Sembra che i britannici vogliano recuperare i loro miti fondanti: l’impero, il carattere democratico della monarchia, il lealismo e il leaderismo. Su questi miti si è costruita l’identità britannica e a questi miti sembra tornare l’identità britannica post-Brexit.

 

We Shall Fight on the Beaches: discorso di Winston Churchill, 4 giugno 1940.

 

I quattro film sono nati tutti, però, ben prima che il 23 giugno 2016 il 51,9% del 72,2% dei britannici maggiorenni desse la preferenza a leave piuttosto che remain. Il progetto di Dunkirk, a detta del regista, risalirebbe addirittura agli anni ’90, la sceneggiatura al 2015 e le riprese a un mese prima del voto, più o meno quando cominciavano anche i lavori di Churchill. L'ora più buia, a sua volta, discende da una sceneggiatura del 2015 di Anthony McCarten, l’autore di The Theory of Everything (La teoria del tutto) su Stephen Hawking, per cui il protagonista Eddie Redmayne ha vinto l’Oscar come miglior attore. Victoria & Abdul è l’unico prodotto interamente dopo il voto, ma si basa su un romanzo omonimo di Shrabani Basu del 2015. Bisognerà allora considerare i quattro film nel quadro di un nazionalismo britannico di lunga durata, che precede e segue Brexit: ne è insomma tra le cause, oltre che tra le conseguenze.

 

La continuità può essere letta nel nome di Enoch Powell, il politico conservatore, ex professore universitario di greco antico e generale di brigata durante la seconda guerra mondiale, che nel 1964 fornì una delle definizioni più famose dei “pilastri” dell’identità britannica: “its unity under the Crown-in-Parliament; its historical continuity; and its racial homogeneity” (“la sua unità nel nome della corona e del parlamento, la sua continuità storica e la sua omogeneità razziale”). Powell era tornato agli onori della cronaca ben prima del voto pro-Brexit, il 12 agosto 2011, quando il presentatore televisivo David Starkey dichiarava al telegiornale di BBC2 in occasione dei London riots che Powell aveva ragione sulla possibilità di un potere nero violento che si estendesse anche ai bianchi: l’affermazione non restava senza reazioni, a cominciare da un tweet di Jeremy Corbyn che non esitava a parlare di “racist analysis”, ma era sintomo di un modo di pensare che una parte della cultura britannica non aveva ancora veramente debellato. Powell ritornava chiave di lettura dell’identità britannica pochi mesi dopo il voto, nell’ottobre 2016, quando il commediografo Chris Hannan metteva in scena a Birmingham, la seconda città britannica per popolazione, lacerata dal referendum (50.4% per leave contro 49.6% per remain), proprio il famoso discorso dei "fiumi di sangue” (“Rivers of Blood Speech”), tenuto nel 1968 da Powell: un discorso che invitava i cittadini britannici a guardarsi dall’immigrazione dai paesi membri del Commonwealth per evitare il rischio che “the black man will have the whip hand over the white man" (“l’uomo nero terrà le redini dell’uomo bianco”). Provocatoria quanto si vuole, la commedia colpiva comunque un nervo scoperto di una società che ancora non riusciva a fare i conti col rapporto tra tradizione nazionale e diversità culturale.

 

Le cose sono però ancora più complicate di una facile, e in fondo rassicurante, lettura all’ombra del nazionalismo britannico. Non c’è infatti solo il nazionalismo britannico a rendere i quattro film ideologicamente coerenti. Bisognerà ripartire dal discorso di Churchill che chiude sia Dunkirk sia L'ora più buia, come si è detto:

 

We shall defend our island whatever the cost may be! We shall fight on the beaches! We shall fight on the landing grounds! We shall fight in the fields and in the streets! We shall fight in the hills! We shall never surrender! 

(“Difenderemo la nostra isola a qualunque costo! Combatteremo sulle spiagge! Combatteremo sulle piste d’atterraggio! Combatteremo nei campi e per le strade! Combatteremo sulle colline! Non ci arrenderemo mai!”)

 

Fin qui è l’esaltazione della combattività, della dignità e della disponibilità al sacrificio; ma segue subito dopo la fiducia nell’Impero, in modo da collegare i due grandi nazionalismi britannici, quello particolarista (essenzialmente inglese) fondato sull’unità di sangue e quello universalista (di base imperialista) caratterizzato dalla fratellanza degli obiettivi:

 

and even if this Island or a large part of it were subjugated and starving, then our Empire beyond the seas, armed and guarded by the British Fleet, would carry on the struggle, until, in God's good time, the New World, with all its power and might, steps forth to the rescue and the liberation of the old.

(“e anche se quest’isola o gran parte di essa fosse conquistata e affamata, allora il nostro Impero al di là dell’oceano, armato e protetto dalla flotta britannica, continuerà la battaglia, fino a che, per volere di Dio, il nuovo mondo, con tutta la sua forza e potenza, interverrà a liberare il vecchio”).

 

Dunkirk: il finale.

 

Se i due film hanno totalizzato complessivamente 14 candidature all’Oscar, qualcosa vorrà pur dire: la loro capacità d’interpretare un umore anglosassone arriva all’America, dove culto del leader e missione di libertà si abbracciano altrettanto ideologicamente. “He mobilised the English language and sent it into battle” (“Ha mobilitato la lingua inglese e l’ha mandata in battaglia”), dice il visconte Halifax, il grande sconfitto di L'ora più buia, alla fine del discorso di Churchill, la cui vittoria è una vittoria della civiltà anglosassone tutta, indipendentemente dal nazionalismo britannico. Un sogno che va al di là della contingenza politica, perché fa appello all’unità di sangue, d’intenti e di amicizia di tutti coloro che sono legati alla corona britannica: biologia, politica e socialità convergono intorno a una progetto di reciproco aiuto, che fa sì che la Gran Bretagna non si sentirà mai minacciata perché per lei si leverà sempre in piedi un altro popolo, che alla Gran Bretagna è legato da debiti di protezione, vincoli di sangue e comunanza di valori. Il potere dal volto umano, con Churchill continuamente al gabinetto e la regina pronta ad abbuffarsi, è il garante di questa romantica unità di cuori e afflati umani. Qui Brexit c’entra ben poco, e certo meno di Hollywood. 

 

Questi film rappresentano allora qualcosa di più radicato. La vittoria del pragmatismo sull’idealismo, per cui Churchill sacrificò i quattromila soldati di Calais per salvare i trecentomila di Dunkerque e per cui l’amicizia tra la regina Vittoria e un servitore può purificare dal colonialismo, fa da sfondo a una celebrazione di chi ha salvato l’Europa e il mondo dalle grandi minacce storiche, il nazismo e il razzismo – che sono naturalmente due discorsi profondamente diversi, ma si possono incontrare sul piano paradigmatico dei valori democratici del liberalismo occidentale. Il grande sconfitto di L'ora più buia non è Halifax, ma il pacifismo; e il grande vincitore di Victoria & Abdul non è l’integrazione, ma il paternalismo.

Eppure che Dunkerque sia stata una vittoria prima di tutto per l’Europa è suggerimento che bilancia la democrazia del leader con una democrazia della solidarietà; e che la monarchia sia garante della volontà popolare anziché dei circoli dei potenti è fiducia in un’educazione ai valori anziché nei soli rapporti di forza. Tutto si tiene (per quanto ancora?), ma la Gran Bretagna post-Brexit potrebbe cominciare ad abitare le contraddizioni, scoprirsi meno granitica e ridare spazio al conflitto: se saprà liberarsi di quel senso di superiorità che i film pre-Brexit continuano, purtroppo, ad abbracciare. 

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