Diario / José Saramago o prima le voci

14 Agosto 2019

Ho avuto la fortuna di incontrare José Saramago diverse volte tra il 1994 e il 2003. Ne è nato un lungo dialogo, tra Venezia, Parigi e la lontana Rejkyavík, rivisto dall’autore, tanto disponibile quanto scrupoloso in ogni cosa che scriveva. Saramago era dominato da una paziente responsabilità verso tutti coloro che lo leggevano con attenzione. Ricordo che a Rejkyavík, dove naturalmente era l’ospite più importante del festival letterario che si tiene ogni due anni nella capitale islandese, dopo una lunga relazione, si sottopose a un tour de force di più di un’ora rispondendo in modo dettagliato e semplice a non so quante domande che venivano dal pubblico. Finita la sessione, dedicò un’altra ora buona ai suoi lettori firmando le copie del suo ultimo libro. Ricordo che il suo volto, coperto in parte da un paio di grandi occhiali, come quello di una tartaruga si inchinava lentamente verso la pagina, per poi altrettanto lentamente rialzarsi ogni volta per mettere a fuoco lo sguardo dei suoi ammiratori e ammiratrici. Forse l’aver debuttato a quasi sessant’anni (Una terra chiamata Alentejo uscì nel 1980) e la consapevolezza che l’uomo più saggio che aveva conosciuto, suo nonno, «non sapeva leggere né scrivere», lo avevano affrancato per sempre da ogni intellettualismo come da ogni volontà di potenza, cioè lo avevano reso un vero romanziere, qualcuno che, come suona il titolo del suo discorso all’Accademia svedese per la consegna nel 1998 del premio Nobel, sa che il personaggio, questa sonda lanciata nella terra incognita dell’esistenza quotidiana, è sempre il maestro e l’autore «il suo apprendista».    

 

L’occasione di ritornare sulla sua opera – e su quel lungo dialogo – è stata la recente pubblicazione in Italia del suo ultimo diario, disperso e poi ritrovato per caso dalla moglie Pilar, intitolato proprio il Diario dell’anno del Nobel (tradotto come sempre in modo sapiente da Rita Desti e uscito da Feltrinelli). Si tratta del sesto Quaderno di Lanzarote che l’autore scrisse durante quel fortunato 1998.

 

Quando Saramago pubblicò nel 1993 Il vangelo secondo Gesù Cristo, l’opera fu censurata dal governo portoghese. Nello stesso anno lo scrittore decise di lasciare il Portogallo e di trasferirsi a Lanzarote, nelle Canarie, e cominciò a scrivere un diario, i Quaderni di Lanzarote, appunto. Tra il 1994 e il 1998 ne uscirono cinque volumi. Quando gli chiesi che ruolo avesse giocato la redazione del diario nella sua creazione letteraria, ecco cosa mi rispose: «Non è facile rispondere a questa domanda. Due ragioni mi hanno spinto, più o meno consapevolmente, a scrivere un diario: in primo luogo, il fatto di aver lasciato il mio paese per vivere in un’isola lontana; quindi il bisogno, che non avevo mai provato prima, di trattenere il tempo, di costringerlo, per così dire, a lasciare il più gran numero possibile di tracce del suo passaggio.

 

I Quaderni di Lanzarote sono una lunga lettera inviata a coloro che sono rimasti dall’altra parte, ma sono anche uno strumento – vano, inutile, forse disperato – di simulare un prolungamento della vita attraverso un’ecriturazione dei giorni. Ora, i Quaderni non sono un laboratorio, benché non manchino riflessioni sul fare letterario; non sono un registro delle storie del mondo, benché vi abbondino i commenti sull’attualità; non sono una raccolta di dati biografici, benché vi consegni i miei pensieri e miei atti. Come ogni diario – come ogni opera – i Quaderni sono un esercizio narcisistico, ma, al contrario di quel che si crede, Narciso non sempre ama l’immagine che lo specchio gli rimanda...». 

Non so se è un caso, ma quel volontario esilio comportò un salto di qualità della sua opera romanzesca. Non voglio dire che i suoi romanzi precedenti siano meno riusciti, ma che con la pubblicazione di Cecità (1995) e di Tutti i nomi (1997) Saramago ha raggiunto un’arte della composizione così raffinata da rendere la forma inseparabile dal pensiero. In altre parole, in questi due romanzi forma e tema si danno la mano.

 

Prendiamo Cecità. In una città non identificata, in un paese non identificato, un’auto è ferma al semaforo. Scatta il verde. L’auto non riparte. Il conducente è in panne. È diventato improvvisamente cieco. La sua cecità è contagiosa e ben presto tutti saranno infettati dal morbo. Chi racconta, come sempre accade nei romanzi dell’autore dai tempi di Una terra chiamata Alentejo, utilizza «un flusso verbale apparentemente senza regole», come se riferisse «la vita di coloro che gli hanno raccontato la loro vita». Non si tratta di flusso di coscienza né di monologo interiore. La narrazione possiede una punteggiatura e una sintassi personali, erede della tradizione orale. Prova ne è la presenza costante, ad esempio, di proverbi e detti popolari. Il narratore è onnisciente e si fa portavoce di ciascun personaggio, mantenendo però un ironico spazio di riflessione, spesso digressivo. Ciò fa saltare le fondamenta dello stesso statuto del narratore. Come se Saramago volesse ritornare a quel momento magico del romanzo in cui l’autore non si era ancora nascosto dietro l’invisibilità del narratore, ma si mostrava ai lettori, li intratteneva, li interpellava, li rendeva partecipi delle vicende così come delle sue idee. 

 

 

Ora, in un mondo di ciechi, questo stile si mostra in tutta la sua forza e ricchezza: in un mondo di ciechi, infatti, i personaggi si riconoscono attraverso la voce. Sono dei personaggi vocali. Non conosciamo nulla del loro fisico, della loro psicologia, del loro passato. Non hanno neppure un nome. Sentite cosa dice Saramago a questo proposito: «Non ho mai avuto la tentazione di attribuire loro dei nomi. D’altra parte, mi sembrava assurdo che la convenzione di un nome potesse sopravvivere nella situazione in cui li avevo posti. Che senso avrebbe avuto chiamare il medico Francisco o la ragazza dagli occhiali scuri Mariana? Bisogna però riconoscere che un anonimato assoluto è impossibile. La narrazione, infatti, in questo caso, si bloccherebbe, non troverebbe sbocchi. È vero che il medico non ha un nome, ma chiamarlo “medico” è già un modo di nominarlo. Si tratta dello stesso principio grazie al quale chiusa una porta e gettata la chiave, l’apriamo con un grimaldello...». 

 

Ciò che conta perciò è la loro voce, che diventa riconoscibile attraverso quel «flusso verbale apparentemente senza regole» che è il registro stilistico scelto dall’autore, strumento perfetto sia per diversificare i timbri vocali dei personaggi sia per farli dialogare. Saramago fa del romanzo una grande scena acustica in cui ogni voce, ogni personaggio, si dispiega, dialoga e si realizza, facendosi riconoscere. 

Ma c’è un altro aspetto che lega la forma al tema, ovvero lo scena acustica e l’assenza dei nomi alla cecità. Saramago sembra invitare il lettore a esercitare più che l’occhio il suo orecchio affinché ritrovi un silenzio a cui non è più abituato. In un mondo come il nostro, saturo di rumori, suoni, informazioni che provengono da ogni luogo e in ogni momento, il lettore si ritrova in una sorta di stato di assedio, assillato dalla presenza altrui, incapace di ascolto e perciò di dare nome alle cose. L’autore invita il lettore a ritrovare il silenzio che è nascosto dentro di lui, che proprio come la sua voce può sorgere in qualsiasi momento, che affonda le radici nella cecità che è prima di ogni concetto e di ogni parola e che rappresenta l’unica assicurazione che nessuno di noi è solo. Lo invita cioè a riconoscere che siamo sempre in dialogo, che l’uomo è un dialogo infinito e il mondo stesso una scena acustica dove le voci che ci hanno preceduto e quelle che risuonano nella nebbia del presente ci rivelano rivelandosi a loro volta, sempre che ognuno sappia ritrovare quel silenzio e quella cecità grazie a cui è in grado di riconoscere il timbro della sua voce e così quello delle altre.        

 

In Tutti i nomi, malgrado quanto il titolo sembri promettere, i personaggi, ad eccezione di uno, non hanno nome. Come in Cecità. Il solo che lo possiede si chiama signor José, perché l’insignificanza della persona (e del suo nome) è tale che nessuno ci fa caso. Il signor José è un impiegato della Conservatoria Generale dell’Anagrafe dove si trovano «tutti i nomi». Il protagonista comincia la ricerca della donna sconosciuta grazie a «un’illuminazione»: apre la «piccola porta» proibita che dà sulla Conservatoria Generale, entrando così per la prima volta negli archivi della sua vita intima. Sarà attraverso la ricerca della donna sconosciuta che scoprirà lo sconosciuto che egli stesso è. Ma l’uomo è dialogo, appunto. Per poter aprire la «piccola porta» che dà su se stesso, ha bisogno al contempo di aprire la porta che dà sulla strada. Credo che tutta la differenza tra la Conservatoria di Saramago e la Biblioteca di Borges consiste nel fatto che quest’ultima non possiede né porte né finestre e che nessun individuo vi cerca un libro particolare, sconosciuto. Il signor José è poi, come lo stesso autore ha affermato, «parente prossimo del revisore Raimundo Silva de La storia dell’assedio di Lisbona e, sebbene indirettamente, del pittore H. di Manuale di pittura e calligrafia». Ma anche dei personaggi di Kafka e dell’Akakij Akakievič del Cappotto di Gogol’. 

 

Quando dissi a Saramago che con Cecità e Tutti i nomi mi sembrava che avesse attraversato una frontiera, che avesse, un po’ come il suo Signor Josè, aperto la porta che dà sull’altro versante della sua opera, l’autore mi rispose: «Ne ho preso coscienza quando ho cominciato a scrivere Cecità. Fino a Il vangelo secondo Gesù Cristo ero intento a descrivere una statua, cioè la superficie della pietra. Da Cecità mi sono reso conto che cominciavo a penetrare all’interno della pietra. Credo di aver effettivamente attraversato una frontiera. Temo che le mie storie stiano diventando sempre più aride, essenziali, e al contempo è come se lo desiderassi... Non potrei più riscrivere un romanzo come Memoriale del convento, forse (e la considero una compensazione) perché all’epoca ero troppo giovane per scrivere Tutti i nomi...».

 

Quando, verso la fine del romanzo, il signor José scopre che la donna sconosciuta che cercava si è suicidata, si reca al Cimitero. Con suo grande scandalo, incontra un pastore – nel Cimitero, a differenza della Conservatoria, i vivi e i morti non sono separati – intento a scambiare i  numeri che identificano le diverse lapidi. È sconcertato: ha appena trovato la tomba della donna sconosciuta e ora, grazie a questo pastore di capre, la donna, ancorché morta, è sparita un’altra volta.

Eppure, è grazie «alla malizia del pastore» che il signor José giungerà all’ultimo stadio del suo apprendistato di individuo: il codice segreto di un individuo non ha niente a che fare con i nomi. Il segreto di una biografia deve restare segreto. La vita ci assegna dei nomi, la morte ce ne libera. L’insignificanza dei nomi che portiamo nel corso della nostra esistenza è risolta dall’insignificanza dei nomi nella morte. Né la vita né la morte sono sacre, solo il loro dialogo lo è.

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