Dina Goldstein: life in plastic, it’s fantastic!

26 Febbraio 2025

Nel 1997, Lene Nystrøm, leader degli Aqua, canta I’m a Barbie girl, in the Barbie world, life in plastic, it’s fantastic! Il brano è l’inno ironico a un mondo di plastica, colorato e scintillante, dominato dall’intramontabile fascino di Barbie. Pochi anni dopo, nel 2012, la fotografa canadese di origini israeliane Dina Goldstein, con il suo lavoro In The Dollhouse, si chiede cosa nasconda questa patina di perfezione. Realizza un ciclo di dieci fotografie che mette in scena l’archetipo della femminilità wasp su cui si fonda il mito della bambola distribuita da Mattel. Come su un set cinematografico, Goldstein ricostruisce la casa di Barbie, gli interni levigati, gli oggetti rassicuranti, un Eden tutto rosa, dove Barbie e Ken rappresentano l’apoteosi della coppia felice. Ma è proprio in questa dimensione, tanto impeccabile da sembrare indistruttibile, che qualcosa si incrina.

In salotto, Barbie siede impettita e composta, mentre Ken con atteggiamento rilassato, incrocia le gambe e indossa scarpe dai tacchi vertiginosi. In bagno Barbie è seduta sul water, avvolta in una vestaglia di seta, mentre il fidanzato è immerso nella schiuma della vasca, le cuffie rosa sulle orecchie, il corpo scolpito come una statua. È la rappresentazione perfetta di sé stesso, ma anche del suo distacco. Non la guarda, non la ascolta, non si accorge nemmeno della sua presenza.

In camera da letto si consuma ogni cosa. Prima è il regno delle illusioni notturne, Ken sogna un uomo dai baffi folti che lo stringe a sé, e Barbie, come in un gioco di specchi, lo segue nel sogno. Poi la stanza si fa palcoscenico della verità, Barbie scopre Ken tra le braccia del suo amante e infine si compie il ribaltamento, la stanza dei desideri diventa camera della tortura. E Barbie è al centro di quel ribaltamento. Seduta sul letto, stringe tra le dita un paio di forbici ancora aperte. Intorno a lei, sparsi come i resti di una battaglia silenziosa, giacciono le ciocche dei suoi capelli biondi, sacrificati in un atto di vendetta contro il proprio riflesso.

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In the Dollhouse, Bathroom Mirror ©️ Dina Goldstein, Courtesy Tallulah Studio Art, Italy.
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In the Dollhouse, Haircut ©️ Dina Goldstein, Courtesy Tallulah Studio Art, Italy.

È una cesura estetica, un’automutilazione simbolica e anche l’istantanea di un collasso, il momento in cui il dentro si riversa fuori e il fuori ne porta i segni. Ma il taglio non basta. La trasformazione non può essere parziale, deve essere totale. L’eroina bionda tenta di somigliare a Ken, si veste da uomo, ma la sua è una specularità impossibile, nel riflesso non trova un’identità alternativa, bensì l’angoscia della propria dissoluzione. Decapitarsi è l’unica risposta possibile, l’unico modo per smettere di essere guardata, per sottrarsi all’immagine imposta. Finalmente lo specchio non riflette nulla, perché nulla è rimasto.

Le iniziali “BK”, promessa di un’unione indissolubile, ora sono il marchio di proprietà inciso sulla gabbia dorata in cui seppellirsi. Avete mai pensato di morire? si chiede Barbie nel recente film di Greta Gerwig? La Barbie della Goldstein non è più il corpo oggetto, veicolo passivo del desiderio altrui. È un soggetto in crisi, un corpo che si sfalda, che si abbandona alla disperazione. Il taglio dei capelli è una frattura, un atto di rivolta che richiama il gesto di Frida Kahlo e di Claude Cahun, e significa perdere la testa, letteralmente e metaforicamente.

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In the Dollhouse, Passed Out ©️ Dina Goldstein, Courtesy Tallulah Studio Art, Italy.
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In the Dollhouse, Headless ©️ Dina Goldstein, Courtesy Tallulah Studio Art, Italy.

Qui l’artista compie un’operazione che va oltre la semplice decostruzione dell’icona. Come i bambini che, per capire il funzionamento di un giocattolo, lo smontano pezzo per pezzo, la Goldstein usa la fotografia per aprire l’immagine dall’interno, rivelandone il lato oscuro. Il suo obiettivo non è solo smascherare il manifest destiny che ha reso Barbie l’emblema del sogno americano, ma portarne alla luce il fallimento, la parte rimossa. Ogni dettaglio disseminato in queste immagini è una perfetta anomalia, fuori tema, fuori luogo, fuori contesto. Osceno. E osceno è anche lo sguardo dello spettatore, costretto a dislocarsi oltre il visibile, a scivolare nel lato oscuro della glittering image, l’undicesima fotografia, quella che non esiste e che si deve immaginare dopo la testa mozzata.

La fotocamera coglie una realtà fasulla, eppure più vera del vero, capace di incrinare gli stereotipi fino a farli collassare su se stessi. I set allestiti da Dina Goldstein non sono semplici sfondi, ma ambienti immersivi, curati nei minimi dettagli, spazi artificiali saturi di colore, dove la perfezione formale diventa soffocante, il rosa invadente e le texture vintage esasperano la patina estetica della cultura pop. L’uso della luce amplifica la tensione, talvolta morbida e diffusa, per enfatizzare l’effetto plastificato dei personaggi, talvolta più drammatica, con contrasti netti che rivelano il lato in ombra.

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In the Dollhouse, The Dream ©️ Dina Goldstein, Courtesy Tallulah Studio Art, Italy.

Ogni fotografia è la rappresentazione di un conflitto, la battaglia tra il mito e la sua decostruzione, tra l’estetica prefabbricata e il suo collasso. La sovversione è totale. Il giocattolo non è più un oggetto da manipolare, ma un ordigno pronto a esplodere nelle mani di chi lo ha sempre creduto innocuo. La vittoria è sottile e crudele, la miglior fotografia non è quella che riproduce il sogno, ma quella che svela l’illusione, come accade in Fallen Princess.

Biancaneve, circondata da figli urlanti e da un principe ormai indifferente, non è più la creatura eterea sospesa nel sogno del “vissero felici e contenti”, ma una moderna desperate housewife, nel cui sguardo si legge il desiderio di un destino diverso. Belle, distesa sul lettino chirurgico, ha capito che in questo mondo l’invecchiamento è il vero mostro da combattere, le mani intrecciate sul grembo, ricordano il cadavere in un obitorio, più che una principessa in attesa di ballare. Jasmine tiene saldamente un mitra e indossa un abito viola che si fonde con il camouflage militare. Dietro di lei, il cielo è solcato da elicotteri che si aggirano minacciosi, ma nel suo sguardo rivolto lontano c’è solo la quiete di chi ha accettato il proprio destino.

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Fallen Princesses, Red ©️ Dina Goldstein, Courtesy Tallulah Studio Art, Italy.
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Fallen Princesses, Belle ©️ Dina Goldstein, Courtesy Tallulah Studio Art, Italy.

Se In the Dollhouse è dirompente perché smonta l’illusione dall’interno e senza preavviso, Fallen Princess è perturbante. Non vi è una rottura brusca, ma il lento riconoscimento di qualcosa che non torna, che diventa impossibile ignorare. La principessa è stanca, smarrita, intrappolata in una realtà che non le appartiene. L’effetto non è un’esplosione, ma un’infiltrazione, lo sguardo cerca un appiglio, ma trova solo il riflesso distorto di una storia che non ha mai avuto lieto fine.

Qui la fotocamera è una bacchetta magica al rovescio. Se nelle fiabe l’atto magico eleva la principessa al di sopra della realtà, la fotocamera la riporta brutalmente a terra, inchiodandola a uno squallido presente. L’obiettivo lavora per sottrazione, invece di aggiungere magia, la dissolve, mostrando solo il fallimento, la stanchezza, l’invecchiamento, la guerra.

La fotografia non incanta ma disincanta, la carrozza ritorna zucca, l’abito da ballo si sporca, il tempo non si ferma al momento della felicità. La macchina fotografica di Dina Goldstein interpella l’osservatore, punge il suo sguardo, rivelando il momento esatto in cui la fiaba si dissolve per lasciare spazio alla vita. Se il lieto fine non esiste, resta la possibilità di un riscatto, quello di una consapevolezza nuova, di una storia che, per la prima volta, appartiene davvero a chi la vive.

In copertina ©️ Dina Goldstein, Courtesy Tallulah Studio Art, Italy

Dina Goldstein – Un’artista tra fiaba e realtà, a cura di Patrizia Madau
Tallulah Studio Art in collaborazione con Fabbrica Eos, Milano
dal 20 febbraio al 23 marzo 2025

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