Un caso classico controverso / Ellen West e i suoi psichiatri
Esce per Quodlibet un testo di Antonella Moscati: Ellen West. Una vita indegna di essere vissuta. L’autrice scrive di una scrittrice, divenuta nota solo come “paziente”. Scrive, con competenza storica, ma non manca, all’inizio del libro, la presenza del soggetto scrivente.
Ellen West è considerata dall’universo clinico contemporaneo come il prototipo della “paziente anoressica”, si parla di una sorta di proto-anoressia antecedente di almeno quarant’anni all’esplosione di questo sintomo negli anni Settanta. Binswanger è uno dei massimi punti di riferimento per quel ramo della psichiatria definita in vario modo nella nostra lingua come: antropo-analisi, psichiatria fenomenologica o analisi esistenziale.
A oltre vent’anni dalla morte, nel 1945 – Ellen West si suicida nel 1921 – Ludwig Binswanger scrive di lei come paziente: Il caso Ellen West (Der Fall Ellen West). Recentemente, lo storico Albrecht Hirschmüller, a seguito di nuove rilevazioni storiche, rileva che il testo di Binswanger suscita perplessità presso gli storici e gli addetti ai lavori “non allineati” all’analitica dell’Essere (Daseinsanalyse), almeno nella versione binswangerian/heideggeriana. Ci sono in esso varie omissioni, a cominciare dai pochi riferimenti alla famiglia di Ellen West, come tipicamente accade nelle cartelle psichiatriche classiche: il paziente psichiatrico, feccia della terra, ha certo tare per l’istituzione “sanitaria”.
Tra coloro che contestarono lo sguardo psichiatrico su Ellen West, voglio nominare il testo teatrale redatto dal terapeuta familiare argentino ebreo Salvador Minuchin, del 1984. Nella terza parte del suo libro Family Kaleidoscope, troviamo il brano: “Il trionfo di Ellen West”. Nel finale della pièce, entrano in scena i personaggi di Kraepelin, Bleuler e Binswanger – Minuchin non poteva conoscere ancora il nome del “quarto incluso”, Albrecht Hoche – che impersonano la brutalità delle loro diagnosi. Una misteriosa donna appare nel finale della pièce di Minuchin: Loretta Genotti – giovane paziente anoressica italo-americana di Minuchin – dice, in un motto di solidarietà con Ellen: “Lasciatela parlare. I suoi genitori e i suoi dottori le hanno rubato la voce. Lei ha il diritto di parlare” (pp. 236 sgg.).
Il testo dello psicoterapeuta argentino, benché deduzione clinica tratta dall’immaginario teatrale, coglie già il sospetto di una pratica diagnostica fatta di elucubrazioni “scientifiche” che espropriano il soggetto dalla sua propria vita e la reificano quadri diagnostici immutabili. Ciò tipicamente accade nel mondo della psichiatria.
Antonella Moscati, per esempio, sottolinea la disattenzione di Binswanger a proposito della diagnosi di anoressia, che, proprio nel secondo dopoguerra, quando Binswanger scrive queste pagine, comincia a diffondersi grazie alle osservazioni di due donne: Mara Selvini Palazzoli e Hilde Bruch, che Moscati però non menziona, anche se ciò non costituisce un difetto per il testo.
Invero, le osservazioni di Moscati aggiungono qualcosa di più interessante. L’autrice osserva come l’ispiratore dell’approccio psichiatrico di Binswanger sia Martin Heidegger. Benché Heidegger abbia sempre respinto l’assimilazione della sua filosofia alla Daseinsanalyse, cos’hanno in comune Heidegger e il caso Ellen West? La risposta immediata è che Ellen West si presenta come lo stereotipo dell’essere-per-la-morte, lemma ripetuto all’infinito dai filosofi heideggeriani, con tutta la filippica sullo stato di autenticità o inautenticità che divide il mondo in chiave elitista e discriminatoria.
Il testo di Moscati si rivela già nel sottotitolo “Una vita indegna di essere vissuta”. In questo sottotitolo si evidenzia come possano andare a finire le riflessioni sull’“inautenticità”. C’è un fatto, una rivelazione recente, nonostante le omissioni: l’ultimo consulto psichiatrico, che prelude alle dimissioni di Ellen West dal “sanatorio” di Binswanger, e al conseguente suicidio, avviene attraverso la decisione tra tre “soggetti supposti sapere”: lui stesso, Bleuler e un innominabile dott. Alfred Hoche.
Siamo nel 1921, Hoche ha appena scritto, insieme al giurista Karl Binding, il testo intitolato La liberalizzazione della soppressione della vita senza valore (Die freigabe der Vernichtung lebensunwerten Lebens), che si trova in italiano in un testo di Ombre Corte, a cura di Ernesto De Cristoforo e Carlo Saletti. Nonostante il rifiuto di Hoche verso il nazismo, quel testo diventerà riferimento nel giustificare lo sterminio dei disabili e dei pazienti psichiatrici noto come Aktion T4. La diagnosi di schizofrenia – non c‘è una riga del testo di Binswanger che possa far pensare che questa diagnosi fosse accettabile – sembra fatta su misura per preparare il suicidio di Ellen West, che Binswanger insiste a considerare atto di liberazione, o, come nel titolo di Hoche, “liberalizzazione” (freigabe).
A proposito del suicidio di Ellen West, successivo alla supposta “liberalizzazione” mi si consentano due considerazioni. È noto che togliere la libertà a una persona costituisce un aggravamento della sua condizione clinica e non ha alcun valore terapeutico. Lo abbiamo visto di recente anche nei fatti di cronaca italiani. La contenzione porta al suicidio. Così, l’interruzione, voluta da Binswanger, del percorso psicoterapeutico di Ellen, che tendeva a valorizzare le sue qualità letterarie, produce repressione intellettuale, frustrazione dell’esperienza di cura con la parola. La psicoanalisi avrebbe potuto portarle giovamento come accaduto a numerose persone. Antonella Moscati considera Ellen West una poeta dell’“idea fissa”, come avviene a numerose poetesse da Gaspara Stampa fino a Emily Dickinson e oltre, cosa che dovrebbe portare a una riflessione sulla poetica femminina che non ho lo spazio di sviluppare in queste note. È nel regno della parola che avviene la trasformazione del corpo e delle relazioni con l’Altro. Le note dai diari di Ellen West sembrano andare in questa direzione. Il suo terapeuta Hattinberger si esprime contro l’interruzione unilaterale di Binswanger del percorso analitico. Hattinberger insiste nel porre la questione nel quadro di una “nevrosi ossessiva” perché sa – a differenza di Binswanger e di tutto l’armamentario psichiatrico dell’epoca – che nella psicoterapia la comunicazione è fondamentale e che “schizofrenia” è una metafora terribile. L’analisi avrebbe potuto dare a Ellen West uno slancio letterario, individuarla, invece di mettere il marito a farle da guardiano.
Così scrive lo psicoterapeuta di Ellen a Binswanger: “Volevo esserle d’aiuto, e perciò dovevo pensarla così”, come anche Albrecht Wetzel, “aveva respinto la diagnosi di schizofrenia … con queste parole ‘Ah no – una ragazzina sveva così carina non può essere una catatonica” (dal testo di Moscati a p. 21).
Pensando alla presenza di Hoche a questo consulto, la differenza è che Ellen West non è sveva. È ebrea.
Nel maggio 2001, nel Journal of British Society of Phenomenology, Abigail Bray scrive intorno al silenzio che circonda il caso Ellen West. Bray rileva una chiara distinzione gerarchica, che emerge dal testo di Binswanger, tra il corpo ariano e quello ebreo. Cita una serie di considerazioni di Binswanger, che rendono esplicita questa comparazione. Si tratta sempre della descrizione “filosofica” tra l’essere etereo del corpo ariano, biondo e slanciato (autenticità?) e l’essere tombale del corpo e della famiglia ebrea (inautenticità?). Distinzione che, inevitabilmente affossa il talento letterario di Ellen West, autrice di diari – Maurice Blanchot suggerisce di leggere sempre i diari dei grandi autori – note poetiche e riflessioni sul corpo proprio. A Ellen West fu negata anche la diagnosi corretta di “anoressia”, come emerge dalla seconda parte del testo di Moscati.
Come ho osservato nel mio testo Anoressia e isteria, l’anoressia è espressione di una protesta paradossale nascosta dentro la sfida del corpo femminino all’opulenza.
La Daseinsanalyse ha inventato uno sguardo filosofico sul disordine mentale, una “sguardo” affascinante, se vogliamo ipnotico, dei principali quadri clinici; l’intento di questo “sguardo” è, nelle intenzioni del diagnosta, “avere accesso al mondo dell’altro”: il melanconico, lo schizofrenico, il maniaco. Tuttavia questo approccio, nella migliore delle intenzioni, presenta due problemi: è unilaterale, non dialogico, non si lascia influenzare dalla singolarità dell’incontro, ma riconduce ogni dettaglio al quadro diagnostico predefinito e non prova mai a falsificare le proprie ipotesi; questo “sguardo” inoltre è privo di ciò che in psicoanalisi viene chiamato “teoria della tecnica”.
Non propone strumenti clinici per intervenire nel migliorare le condizioni del soggetto a partire dal colloquio. Volta per volta deve usare strumenti altri.
La trasmissione della clinica implica l’uso di un approccio che si impara dopo un lungo training personale e di gruppo. Gli strumenti li abbiamo imparati da Freud, Jung, Lacan, Ferenczi, il succitato Minuchin e la clinica sistemica, lo psicodramma, e altro. Gli strumenti della psicoterapia non s’improvvisano, non dipendono da occulte competenze magiche maschili trascendenti e non sono la conseguenza di uno o dell’altro “quadro diagnostico”. Richiedono la fatica di entrare in una relazione tenera con l’altro, non sull’altro. Direi una relazione “autentica”, se questo termine non fosse stato largamente abusato dai filosofi heideggeriani per elucubrare teorie astratte e inconsistenti. Il libro di Moscati riapre il caso Ellen West, rinnova la memoria di una figlia precoce di quanto accaduto durante il secolo breve e getta uno sguardo inquietante sul perpetrarsi di pratiche diagnostiche alienanti che caratterizzano anche oggi gli interventi istituzionali coatti.