Homo coquens

28 Novembre 2011

Di che cosa si nutre un centauro? Primo Levi, che anche quando scriveva racconti fantastici non deponeva l’habitus mentale di scienziato, non aveva dubbi. Dal momento che ha corpo di cavallo, un centauro non può che essere erbivoro; ma avendo testa e bocca di uomo manca di un apparato masticatorio adeguato, e quindi dovrà dedicare gran parte del suo tempo ad alimentarsi (Quaestio de Centauris, in Storie naturali, 1967).

 

Così i centauri. E noi? Che cosa ci dicono l’anatomia e la fisiologia umana della storia di homo sapiens? Rispetto ai nostri parenti più prossimi, le grandi scimmie, abbiamo una bocca piccola, una dentatura modesta, deboli muscoli mandibolari, e un apparato digerente che non supera il 60% di quello di un primate delle nostre dimensioni. Per elaborare cibi vegetali occorrono infatti molari larghi, uno stomaco capiente, un intestino molto sviluppato (in particolare, un lunghissimo colon). La misura del nostro apparato digerente è per certi aspetti più prossima a quella dei carnivori; ma noi non abbiamo né la dentatura né la mandibola di un carnivoro, e se assumiamo troppe proteine subiamo effetti tossici che possono anche risultare letali. In breve, homo sapiens non è mai stato prevalentemente carnivoro; ciò nonostante, ha un organismo non più adatto a nutrirsi di soli vegetali – frutti, erbe, radici. Almeno così come in natura si presentano: crudi, cioè. Non a caso, il controllo del fuoco e la cottura degli alimenti sono fenomeni comuni a tutte le culture, incluse quelle che si sono sviluppate dove cuocere i cibi è oltremodo faticoso e complesso (come nella regione artica).

 

Una spiegazione che ha avuto negli scorsi decenni notevole fortuna è quella dell’uomo cacciatore. Le modificazioni della specie umana sarebbero dipese dal fatto che a un certo punto i nostri progenitori hanno cominciato a integrare la propria alimentazione con un apporto sistematico di carne. Richard Wrangham, docente di antropologia biologica a Harvard, ha proposto un’interpretazione diversa in un affascinante volume del 2009, Catching Fire. How Cooking Made Us Human, apparso da poco in italiano con il titolo L’intelligenza del fuoco. L’invenzione della cottura e l’evoluzione dell’uomo (trad. di Daria Restani, Bollati Boringhieri 2011, pp. 294, € 20,00). Tra parentesi, la modifica del titolo potrebbe suggerire qualche considerazione sulla differenza tra lo spirito della lingua (cioè della cultura) italiana e inglese – ma sorvoliamo. Il nocciolo del discorso di Wrangham è che le peculiarità della nostra specie si possono spiegare solo supponendo un antichissimo adattamento evolutivo ai cibi cotti. Non l’esercizio della caccia, bensì la pratica di cuocere gli alimenti ha trasformato il nostro organismo.

 

Quando si parla di cibi cotti e cibi crudi il pensiero va immediatamente, inevitabilmente, a Lévi-Strauss e al suo celebre saggio del 1964 (Le cru et le cuit, Il crudo e il cotto). Il piano su cui si muove Wrangham è diverso; o per dir meglio, è diversa la dimensione temporale in cui la sua proposta si colloca. Ad esser messi in questione infatti non sono tanto i caratteri della cultura umana, o delle culture umane, bensì l’intera filogenesi della specie a cui apparteniamo. Alla sua ipotesi Wrangham arriva combinando le evidenze disponibili sulla morfologia dei nostri progenitori più remoti con i risultati di osservazioni e sperimentazioni circa il comportamento alimentare di umani e scimpanzé, i tempi di digestione di vegetali e carni (crudi e cotti), il rapporto tra calorie acquisite e dispendio energetico necessario all’assimilazione (tra l’altro, il cervello è un organo che consuma molto: l’incremento della massa cerebrale non può essere avvenuto che in corrispondenza di un bilancio energetico decisamente florido).

 

La conclusione è che cuocere i cibi ha innescato un’ingente serie di trasformazioni, garantendo importanti vantaggi evolutivi. Come recita il sottotitolo originale, siamo diventati umani grazie alla cottura. I cambiamenti hanno investito sia la struttura degli individui, cioè il corpo fisico, sia il corpo sociale. Accendere e conservare il fuoco, così come attendere alla cottura degli alimenti, implica un’adeguata ripartizione dei compiti tra i componenti del branco, e dunque una più stretta interazione, che si ripercuote sul piano emotivo e psicologico: la dipendenza reciproca accresce l’attenzione ai comportamenti e alle reazioni degli altri. Inoltre, poiché i cibi cotti si assimilano più in fretta e forniscono un apporto calorico superiore, la digestione abbreviata e la migliore alimentazione incrementano la disponibilità di tempo da dedicare ad altre attività.

 

Insomma, secondo Wrangham allo stadio dell’evoluzione in cui si è cominciata a praticare in maniera sistematica la caccia (soprattutto di animali di grosse dimensioni), la cottura dei cibi era una prassi acquisita da tempo e le modificazioni decisive si erano verificate già. Secondo questa cronologia, l’incremento del consumo di carne – accessorio e occasionale presso gli scimpanzé – coincide con il passaggio dall’australopiteco all’homo abilis, circa 2,3 milioni anni fa; mentre il passaggio successivo, dall’homo abilis all’homo erectus, tra 1,9 e 1,8 milioni di anni fa, è legato all’acquisizione della capacità di usare il fuoco e di cuocere gli alimenti. Molto, molto tempo prima che nel variegato panorama della famiglia Homo comparissero i sapiens.   

 

Come Dean Falk rispetto all’origine del linguaggio, così Wrangham rispetto alla storia dell’alimentazione ci suggerisce di ridimensionare in maniera drastica il ruolo giocato nella filogenesi umana dall’attività prettamente maschile della caccia, rivalutando in proporzione il ruolo delle donne. Le madri ancestrali, oltre ad accudire con la voce ai piccoli imprimendo un decisivo impulso allo sviluppo della parola e del canto, dovevano anche provvedere alla cottura dei cibi (anche oggi, di fatto, in tutte le culture la preparazione del cibo tocca in misura prevalente alle donne). Un poco più opinabile mi pare l’idea di Wrangham che l’impegno di cuocere i cibi abbia contribuito a sottomettere le femmine ai maschi. Escluderlo sarebbe imprudente; ma a mio avviso occorre guardarsi dalla tentazione di ipotizzare, anche di sbieco, l’esistenza stadi primigeni in cui regnava una superiore armonia.

 

Certo è che gli studi sul passato remoto non cessano di riservarci sorprese. Ricordo che all’età di otto o nove anni mi capitò di fare sullo studio della storia una piccola riflessione. I nostri discendenti, pensai, avranno da studiare più di noi; e poi sempre di più, man mano che il tempo passa: perché alla storia che noi studiamo ora continueranno ad aggiungersi avvenimenti nuovi. Un pensierino ingenuo, ovviamente. Ma è interessante che le cose siano andate, nel frattempo, quasi al contrario. Se da allora la storia si è allungata di qualche decennio nella direzione dell’avvenire (il primo fatto sicuramente “storico” che ricordo è l’uccisione di John F. Kennedy), un’espansione enorme delle nostre conoscenze si è verificata nella direzione opposta, verso il passato preistorico e i primordi della nostra specie. Le scoperte nel campo dell’evoluzione impongono di saldare la storia delle civiltà e delle culture con la biologia, la climatologia, lo studio dell’ambiente. Nelle nostre radici antichissime c’è una quantità davvero impressionante di cose da comprendere e da imparare. E su cui meditare: nella speranza di avere su questo pianeta, oltre che un avvincente e suggestivo passato, anche un po’ di futuro.

 

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