Un romanzo a una dimensione / Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce

11 Luglio 2021

Ci sono almeno due aspetti per i quali L’acqua del lago non è mai dolce, terzo romanzo della trentenne Giulia Caminito, arrivato tra i finalisti sia al Premio Campiello sia al Premio Strega, è rappresentativo del gusto dei nostri anni. Il primo è un dato stilistico: l’opzione per una sintassi semplice, lineare, prossima al parlato, quasi priva di subordinate. Fenomeno non nuovo, si dirà; ma qui le sequenze di proposizioni principali corrono spesso su un medesimo binario, senza un’articolazione logica implicita (una delle risorse espressive della paratassi). C’è solo un susseguirsi unidimensionale di azioni o pensieri, quasi lo srotolarsi di un nastro ininterrotto di emozioni; e nei momenti di maggiore eccitazione drammatica il flusso s’intorbida, l’affastellarsi degli enunciati produce effetti che forse risentono del modello verbale – verboso – del rap. Il secondo aspetto riguarda la caratterizzazione dei personaggi. Nella narrativa contemporanea spesseggiano le figure di donne dal carattere battagliero: e tali sono senza dubbio sia la protagonista, che è anche la voce narrante, sia la madre Antonia, detta Antonia la Rossa, che predomina specialmente nei primi capitoli (in tutto dodici, più un ultimo non numerato), rimanendo poi presente sullo sfondo fino alla fine come una figura incombente, vincolante, legiferante. 

 

L’acqua del lago non è mai dolce racconta la storia di Gaia, dall’infanzia alla prima giovinezza. La famiglia si regge sulle spalle di Antonia, che deve prendersi cura di un marito inchiodato a una sedia a rotelle, causa un incidente nel cantiere dove lavorava in nero, e dei quattro figli, il primo dei quali, Mariano, avuto da una unione precedente. Gaia (nome rivelato solo in prossimità del finale, e clamorosamente antifrastico) è la secondogenita; seguono due gemelli. La vita di Antonia assomiglia a una guerra, che lei combatte con eccezionale forza d’animo, senza spargere una lacrima, con ostinazione feroce e tenacia incrollabile. Non poco dell’indole della madre trapassa nell’animo della figlia. Rossa di capelli come lei, come lei fiera e bellicosa, capace di spietata autodisciplina ma anche più scostante e incline ai colpi di testa, è animata da un’aggressività mal padroneggiata e da un rabbioso senso di esclusione. Alle offese, alle umiliazioni e ai tradimenti reagisce con energia indomita e priva di scrupoli. A un certo punto pare che la sua vita possa prendere una piega diversa: ha finito il liceo con risultati brillanti, riesce a mettersi con il ragazzo che desidera, ha un’amica nuova, si è iscritta all’università. Ma si tratta di un’acme che prelude alla catastrofe. A mettere il lettore sull’avviso è la frase, urlata due volte da Gaia, che nega il titolo: «L’acqua del lago è sempre dolce!» Da lì in poi la situazione precipita.

 

Il lago in questione è quello di Bracciano. La narrazione è scandita dai cambi di casa, decisi e resi possibili dalla ferrea volontà di Antonia: che prima rende abitabile un buco in un edificio fatiscente in un’indeterminata e mal frequentata periferia, poi riesce a ottenere dal competente ufficio del Comune di Roma un appartamento come si deve, sito però nella borghesissima zona di corso Trieste, dove la vita è cara e la sua numerosa e difficile famiglia non è benvenuta; perciò s’accorda per uno scambio informale con una certa signora Mirella, anch’essa assegnataria di un alloggio comunale fuori città, in quel di Anguillara Sabazia. Gran parte dell’adolescenza di Gaia, che è tenuta a frequentare buone scuole, si svolge quindi sull’asse Bracciano-Cassia Nuova; e di fatto la maggior parte delle vicende sono ambientate o in riva al lago, o in quell’estremo lembo settentrionale di Roma dove l’agiatezza borghese lambisce vecchie e nuove forme di indigenza. L’ultima decisione di Antonia è un polemico ritorno in corso Trieste; ma Gaia sceglierà di tornare al lago per un finale che s’indovina tragico. 

 

Il più originale merito di Giulia Caminito consiste nella scelta di raccontare una storia di povertà: una povertà contemporanea, assediata da immagini e simboli di un benessere tanto prossimo quanto apparentemente irraggiungibile. Tutta la vita di Antonia è un arrangiarsi con il poco, con il quasi nulla; e la protagonista impara presto a fare altrettanto, nei campi che le competono, nella speranza di un possibile riscatto da conquistare a forza di sacrifici. Senonché la sua storia, il suo destino, è quello di un futuro negato. Se la decisione di studiare filosofia risulta poco lungimirante, perché non idonea a cambiare la sua condizione sociale («Mi sono iscritta a filosofia per ripicca, per danno, per malaugurio, per sfida»), a pesare sono anche altri e più sottili fattori. La difficoltà di Gaia a stringere relazioni umane positive e durature sembra discendere dal cumulo di brutture e frustrazioni che nel tempo ha intossicato la vita familiare, strozzando l’affettività di ogni singolo componente: rivelatrice la scena del Natale «normale», progettato con l’amica Iris e concluso con un penoso fallimento.

 

Una qualche complicità lega la protagonista al fratello maggiore Mariano, che però, inquieto e ribelle, viene a un certo punto allontanato dalla madre. Il padre è un ingombrante soprammobile; i due gemelli stanno per i fatti loro; il rapporto con la madre si svolge all’insegna di una somma di costrizioni cui Gaia stenta a sottrarsi. Le amicizie femminili riservano delusioni, gelosie e raggiri, e la protagonista reagisce con asprezza a volte inconsulta. Con i ragazzi non va molto meglio, tanto che è difficile parlare di storie d’amore; la sostanziale incomprensione reciproca dipende non solo dalla loro maschile mediocrità, ma anche dal fatto che la protagonista ha nei loro confronti un atteggiamento strumentale (il ricco e insipido Luciano è definito «il mio ragazzo monile, pepita e baule, il mio orpello prezioso, la spilla di pietre cangianti che espongo sul bavero sinistro della mia giacca»). A ben vedere, proprio il disamore sembra essere la cifra del destino di Gaia, assuefatta a una vita troppo dura per concedersi il lusso della tenerezza.

La narrazione in presa diretta, l’incalzante sintassi emotiva di cui sopra si diceva, lo scorrere torrentizio degli avvenimenti che lascia poco o nullo spazio alla rielaborazione dovrebbero indurre nel lettore una forte immedesimazione con la protagonista.

 

Giulia Caminito, ph Rino Bianchi.


Che ciò si verifichi davvero, però, non è garantito. Intendiamoci: ogni libro ha il suo pubblico di elezione, e in questo caso è verosimile che si tratti di destinatari più giovani dell’autore di queste righe. Tuttavia si ha l’impressione che l’autrice, nell’ideazione della protagonista, non abbia ben deciso se puntare più sull’empatia o sulla provocazione. Ad esempio, il tasso di violenza del romanzo si colloca su valori intermedi, forse più consoni a un’esposizione distaccata (un racconto in terza persona, ad esempio) che a una focalizzazione così radicale sul soggetto narrante. Gaia deve sopportare molte rinunce e subisce vari torti, che suscitano in lei impulsi vendicativi: a un compagno che l’ha presa di mira – invero, con persecutoria crudeltà – rompe una rotula a racchettate; quando Andrea la tradisce con l’amica Elena, prima dà fuoco alla macchina di lui con una tanica di benzina, poi manca poco che strangoli lei nelle acque del lago. Troppo per alimentare una spontanea, umana solidarietà con l’eroina del libro; troppo poco per innescare il tipo di identificazione che sollecitano i thriller propriamente detti (con cui pure la Caminito contrae qualche debito in termini di ritmo del racconto).  

 

A parte l’ordinata presentazione dell’ambiente provinciale, quasi un interludio sociologico, nel capitolo VIII (Che sapore ha l’acqua del lago?), le pagine meglio riuscite sono quelle dove i dettagli materiali rendono in maniera più immediata le condizioni della famiglia: come il rimpianto di Gaia bambina per il quadrato di cemento della prima casa, dove poteva giocare liberamente con Mariano, opposto al decoroso cortile con piante e fontana del condominio di corso Trieste, dove nulla sfugge allo sguardo ostile dei casigliani. O come la descrizione delle povere suppellettili dell’appartamento di Anguillara Sabazia, dove da rubare non c’è nulla: «Chissà un ladro cosa ne penserebbe delle scatole per scarpe che Antonia usa per dividere i calzini dalle magliette nei nostri cassetti, delle confezioni delle uova che dipinge di blu, di argento, di porpora e tiene su una mensola in camera sua, le ha riempite di ninnoli, anelli da bigiotteria, collanine fatte da lei con conchiglie trovate a Ostia e i fili dei pacchi, dei poggiapentole realizzati grazie a tappi di sughero, resti del vino rosso e frizzante che ama tanto mio padre e a me fa venire dolore alle tempie». 

 

Quella di Gaia è dunque la storia di un riscatto fallito: vuoi per gli ostacoli esterni, vuoi perché, nell’intimo, rifiutato, in quanto estrema, ennesima imposizione materna. Fra le vicende collaterali, spiccano le tragiche storie di due amiche: Carlotta, disinibita solo in apparenza, che finisce per togliersi la vita, e Iris, ripudiata e recuperata solo in parte, che un male incurabile si porta via lasciando in Gaia un forte senso di colpa. Curiosamente, il diagramma meno pessimistico riguarda la relazione tra due personaggi maschili, il padre Massimo e il primogenito Mariano (che non è suo figlio). I due, che si detestano finché convivono, nella lontananza scoprono un legame affettivo sincero.  Ma nella trama è un filo secondario. Nell’insieme, L’acqua del lago non è mai dolce lascia soprattutto l’impressione di una vita predestinata alla disgrazia, con una protagonista incapace di emanciparsi dalla sua «coriacea voglia di offendere e affondare». E, in effetti, fa entrambe le cose. Lasciando il lettore, più o meno partecipe, a guardare dalla riva.

 

Giulia Caminito, L’acqua del lago non è mai dolce, Bompiani, pp. 300, € 18.

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