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San Lorenzo / Navi immobili e senza marinai
Perché flagellare il mare? Incatenarlo? Perché mai punirlo? L’episodio deve esser accaduto verso il 480 a. C., stando a Erodoto (7.33-37). Per capire questo singolare gesto, bisogna prendere da capo il racconto dello storico antico. Serse, il sovrano persiano, stava per invadere la Grecia con i suoi eserciti. La zona più conveniente per passare dall’Asia all’Europa era il lungo stretto dell’Ellesponto, che mette in comunicazione il mar Egeo, il mar di Marmara e, attraverso il Bosforo, il mar Nero. Qui le due coste sono straordinariamente vicine una all’altra, in particolare tra le località di Abido (l’odierna Çanakkale in Turchia) e quella di Sesto, dalla parte opposta.
I Persiani non costruirono un ponte in muratura, ma adottarono una soluzione tecnica che arriverà fino ai nostri giorni: un ponte di navi. Navi che non vanno per mare, ma restano immobili, e senza marinai, a sostenere pesi enormi.
I lavori – grandiosi tanto più che si trattava di un ponte doppio – erano iniziati ed erano arrivati a un buon punto, quando una tempesta distrusse tutto. E’ questo il momento in cui il re persiano “tremendamente indignato, ordinò che l’Ellesponto venisse percosso con trecento colpi di sferza e che fosse gettato in mare un paio di ceppi” (trad. Augusta Izzo d’Accinni). Ma non era finita qui: Erodoto riferisce che Serse volle persino marchiare a fuoco (come si faceva con gli schiavi) quel tratto di mare. E poi, agli uomini che lo fustigarono impose – in un rito sconcertante – di pronunciare frasi che allo storico greco sembravano “barbare e sacrileghe”, infatti trattavano lo stretto come un suddito che si era ribellato al sovrano e lo avevano offeso: “giustamente a te nessuno degli uomini offre sacrifici, perché sei un fiume torbido e salmastro”. Erodoto venne colpito non tanto dal fatto che la natura era stata trattata come una persona (è un processo normale nella cultura greca attribuire un’anima ai monti o ai fiumi), ma dal fatto che era stata oltraggiata e trattata come un essere sottomesso.
Sostituiti gli architetti (decapitati perché considerati anch’essi colpevoli), i lavori ripresero. Vennero unite assieme 360 navi da guerra per formare un ponte e 314 per l’altro, ed entrambi vennero direzionati in modo da assecondare le correnti e tenere nella giusta tensione le gomene; a questo scopo gli operai egizi usarono funi di papiro e quelli fenici di lino bianco, e in più vennero gettate lunghissime ancore. “Quando finalmente lo stretto fu munito di ponti, segati dei tronchi d’albero e fattili uguali alla larghezza del ponte li disposero in bell’ordine al di sopra delle corde tese, e dopo averli posti l’uno accanto all’altro di nuovo li legarono insieme. Dopo aver fatto questo, vi misero sopra delle fascine, e dopo aver messo in ordine anche le fascine vi posero sopra della terra, e calcata con forza anche la terra tirarono un parapetto di qua e di là del ponte, perché le bestie da soma non si spaventassero vedendo dall’alto il mare”.
Ai nostri occhi le scene dipinte da Erodoto – la fustigazione del mare, le urla di condanna, la costruzione dei ponti e il transito dell’esercito persiano – sono tra loro inconciliabili nel loro sovrapporre sapienza tecnologica e pensiero magico. Resta il fatto che l’invasione persiana inaugurò una tecnica militare di straordinaria efficacia tanto da essere messa in pratica a distanza di millenni.
Gli eserciti romani la adottarono più volte. Sia sulla Colonna di Traiano che su quella di Marco Aurelio, gli scultori descrissero l’attraversamento di un fiume – con ogni probabilità il Danubio – per mezzo di un ponte di barche.
In età rinascimentale più di una battaglia venne risolta con la rapida costruzione di un ponte su barche. Un caso speciale, visto che coinvolge due grandi architetti, è quello narrato da Giorgio Vasari nell’edizione del 1568 delle Vite de' più eccellenti pittori scultori e architettori. Nel 1509, il gonfaloniere della repubblica fiorentina Pier Soderini assediava Pisa. Per impedire che le vettovaglie arrivassero in città, si chiese l’aiuto di Giuliano da Sangallo; l’architetto, assieme al fratello Antonio, progettò “un ponte che fu cosa molto ingegnosa, perché, oltre che alzandosi et abbassandosi si difendeva dalle piene e stava saldo, essendo bene incatenato”. Con questo mezzo vennero bloccati i rifornimenti alla città assediata, che dovette arrendersi.
Una situazione analoga si ripeté, più in grande, verso la fine del Cinquecento, quando Alessandro Farnese, duca di Parma e governatore delle Fiandre per conto della Spagna, assediò Anversa. Questa volta la documentazione grafica è ricca e accurata, e mostra chiaramente come il ponte sulla Schelda non servisse al transito, ma solo da sbarramento fortificato, per impedire che i rifornimenti degli orangisti arrivassero in città. Il ponte-blocco era preceduto, sia verso Anversa, che verso il mare da un sistema di zattere da cui si protendevano lunghi puntoni metallici.
L’incisione illustra la situazione militare dei mesi tra 1584 e 1585: le navi con bandiere rossastre sono quelle della flotta indipendentista, che con le loro artiglierie tentano di forzare il blocco. A un certo punto gli indipendentisti tentarono una soluzione estrema, affidandosi a Federico Giambelli (o Giannibelli), un ingegnere mantovano emigrato nelle Fiandre forse perché di fede protestante.
Anche in questo momento – come sempre – il mondo della guerra è teatro di grandi sperimentazioni e innovazioni, per quanto mortali. Giambelli fece costruire due navi esplosive – “Fortuna” e “Speranza” – dotate di un congegno a orologeria. Le due imbarcazioni, dalla complessa struttura interna, vennero lanciate verso la barriera voluta da Alessandro Farnese, precedute da una trentina di barche più piccole. Solo una delle due navi riuscì a raggiungere il ponte-sbarramento, provocando una gigantesca e memorabile esplosione.
Visto che neppure questa soluzione riuscì a forzare il blocco, gli orangisti costruirono una nave corazzata e munita di cannoni. La chiamarono Finis Belli, fine della guerra, convinti com’erano di avere in mano un’arma risolutiva. Ma non fu così.
L’assedio di Anversa e lo spettacolare argine di barche e zattere voluto dal generale Farnese colpì l’opinione pubblica per decenni. A Roma, agli inizi del Seicento, lo stampatore Giuseppe de Rossi mise in vendita l’ennesima descrizione grafica del “mirabile assedio della fortissima cità de Anversa”; una copia dell’incisione venne acquistata anche da un Cassiano dal Pozzo (1588-1657), figura di primo piano del collezionismo e dell’erudizione dell’epoca.
I casi di Pisa e di Anversa, alla fine, furono un’eccezione: per tutta l’età moderna, i ponti di barche servirono prima di tutto a traghettare eserciti e armamenti, come era accaduto del resto per l’invasione persiana in Grecia. Ecco alcuni soldati inglesi che passano la Senna su strutture del genere a Vernon (28 agosto 1944).
Eppure i ponti di barche hanno avuto e mantengono tuttora (per quanto rari) un uso civile. Un disegno del pittore tedesco Johann Alexander Thiele (Vienna, Albertina) mostra un mulattiere che porta merci in una città, agli inizi del Settecento.
Dopo la seconda guerra mondiale, per diversi anni funzionarono sul Po lunghi ponti su barconi in cemento per congiungere Emilia e Lombardia. Nel 1955, Einaudi pubblicò Un paese, il libro che Cesare Zavattini aveva scritto su Luzzara, con fotografie di Paul Strand (vedi articolo su doppiozero): la prima immagine è dedicata al ponte di barche di Viadana. La seconda foto, invece, è presa da quello di Borgoforte, e mostra alcune barche in cemento a riva, accantonate forse come scorte. Scrive Zavattini: “I più bei tramonti si vedono da questo punto, prima il sole sta nel centro del cielo come un ostensorio, poi scende diventando sempre più rosso, le creste dei galli sembrano di fuoco e le faraone si mettono a gridare. Chi passa in macchina sul ponte traballando per le assi piuttosto sconnesse è accompagnato dal sole fino alla testa del ponte dove si arresta di colpo mentre noi saliamo sulla strada”.
I barconi di Viadana, di Borgoforte, di Guastalla non esistono più. Ma non lontano da questa zona, alla confluenza dell’Oglio col Po, rimane ancora uno degli ultimi ponti in barche, quello che unisce San Matteo delle Chiaviche (nel comune di Viadana) con Torre d'Oglio (nel comune di Marcaria).
Anche da queste parti, come in altre aree italiane, il nome di battesimo Serse non è troppo raro.
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