Romeo Castellucci, da Alexis de Tocqueville / Democracy in America

11 Maggio 2017

La parola e il vuoto: ecco i confini estremi dell’ultimo spettacolo di Romeo Castellucci. La parola che annuncia la Terra Promessa e si infrange contro un deserto che non dà frutti. Il misterioso nome di Dio che concede la grazia per sua insindacabile scelta e le preghiere che contro tale nome troppo presente e troppo assente si rompono, risuonando a vuoto.

 

È un vuoto frastornante, travestito di molte parole, comprensibili e incomprensibili, in parlate conosciute e in lingue lontane. Sono suoni magici, che hanno il senso delle cose, sono cose, sono azioni, oppure pervadono di puri percussivi significanti corpi in trance, in forma di glossolalie, linguaggi divini ignoti a chi li parla, simili a quelli che invasero gli apostoli durante la Pentecoste. Sono parole cantate come strazianti blues di carcerati o come spiritual che, ripetendo versi simili a formule, cercano di incontrare lo spirito di un Dio che riserva solo dolori e promette una liberazione sempre lontana. È il deserto pullulante di presenze dietro il nome di Dio, Democracy in America di Romeo Castellucci, visto al Metastasio di Prato e ora in scena all’Arena del Sole di Bologna, poi a Trento, quindi alle Wiener Festwochen, all’Holland Festival e in altri appuntamenti europei. Uno spettacolo velato dietro vari schermi trasparenti, che si sovrappongono, si duplicano, si triplicano, in assolvenza e dissolvenza, fino a sfumare l’immagine, a renderla fantasmatica ombra di ombre. Un vorticare di parole, suoni, didascalie, dialoghi e immagini, con un cast tutto femminile che interpreta anche i ruoli maschili, un rutilare di idee e visioni ispirato all’artefice della Raffaello Sanzio dal famoso saggio di Alexis de Tocqueville, aristocratico francese che agli inizi degli anni trenta dell’ottocento viaggia negli Stati Uniti e pubblica poi due volumi nel 1835 e nel 1840, fondando la sua analisi della democrazia americana sulla lotta tra i padri fondatori puritani e un paesaggio bellissimo ma aspro, severo, inospitale, da conquistare.

 

© Guido Mencari

 

L’America del nord è la Nuova Israele, il sogno del Vecchio Testamento, la promessa fatta da Dio ad Abramo, il patriarca che agisce senza ombre, senza discutere, pronto a sacrificare il figlio, sostituito solo all’ultimo momento per l’intervento di un angelo. L’angelo in Castellucci, però, recalcitra ad arrivare e i figli, bocche da sfamare, diventano vittime da immolare, merci da scambiare con un sacco di semi per sopravvivere. Già nell’episodio di Parigi della Tragedia Endogonidia (2003) l’apparizione del messaggero divino, a indicare l’ariete da sostituire a Isacco, era tardiva, a sacrificio avvenuto, su una lavatrice (e Cristo veniva crocifisso sull’abitacolo di una macchina piovuta dal cielo). E anche qui Elisabeth pensa che la salvezza non arriverà, perché la terra che dio ha destinato alla sua famiglia di pionieri produce solo tuberi secchi e non ci sono parole della Bibbia che possano farla fruttare. Forse solo le formule e le credenze magiche dei nativi, che vedono i fiumi risalire verso la sorgente, possono riportare ai semi, alle radici, alle origini, al fruttificare. Solo parole dotate di ombra, di alone magico, di aura. E questa eresia, e le bestemmie contro un Dio che invocato in molti modi non appare, non dà segno alcuno, porteranno all’ira della comunità dei pionieri puritani, dei vari Isac e Samuel, nel testo che occupa la parte centrale dello spettacolo, scritto, come gli altri, da Romeo e Claudia Castellucci. Della sorella Castellucci, collaboratrice di lunga data, già avevamo ammirato le parole dense dello spettacolo ispirato al quarto libro dell’Ethica di Spinosa, Ethica. Natura e origine della mente, presentato in Italia solo alla Biennale Teatro di Venezia del 2016.

 

© Guido Mencari

 

Il regista, nella zona centrale di Democracy in America, affidata alle brave Giulia Perelli, Elizabeth, e Olivia Corsini, con barbetta puritana Nathanael, sembra tornare a quella scritta di Sul concetto di volto del figlio di Dio: “Tu (non) sei il mio pastore”, con il “non” che lampeggiava e si abbuiava, scompariva. De Tocqueville individua nella Bibbia, nello spirito comunitario puritano la radice della democrazia americana, diversa da quella greca, nata nell’Atene di Pericle, sostanziata di filosofia, di arte e di teatro. Castellucci in quella nuova veste del potere del popolo basata sull’egualitarismo biblico scorge, sulla scorta del pensatore francese, possibili derive maggioritarie, rischi di consenso, sterminio o oppressione delle minoranze, spianamento delle differenze. I neri sono voci di lamentazioni blues e spiritual. Gli indiani appariranno nei deliri di Elizabeth come forza magica e poi nella scena finale, in un discorso sull’accettare la lingua dei colonizzatori che potrebbe essere detto dal Calibano della Tempesta di Shakespere, nel retro, rossastro come un paesaggio roccioso, di un fregio, di un bassorilievo greco. Siamo nel rovescio della tragedia attica, della democrazia come dialettica della parola che indaga il mondo e i suoi scontri, in una zona di azione pura ed efficace apparentemente senza ombre, che stermina ciò che si oppone al Disegno, distrugge, chiede di omologarsi o perire. I due nativi, un uomo e una donna, discuteranno se conservare la propria lingua, una lingua fatta di cose, di paesaggio, di memorie, di azioni efficaci, o adeguarsi per non morire.

 

Ma varie forme di linguaggio sono attraversate da Castellucci in questo spettacolo. Non a caso Bologna gli dedicò una rassegna intitolata e la volpe disse al corvo, con il sottotitolo significativo Corso di linguistica generale, a indicare un continuo duello ingaggiato dall’artista con i linguaggi, verbali e di immagini, e con la lingua che li impronta e che ne deriva. Una vera lotta senza quartiere per sfuggire le cullanti stanze della riproduzione, della re-citazione, della rappresentazione – in poche parole dello spettacolo – per avventurarsi in marosi inquieti, ad ascoltare, catturare, assecondare, contrastare, far spirare e perfino infuriare nuovi venti indefiniti, sfuggenti, contemporanei (vedi lo speciale di doppiozero Lettere a Romeo Castellucci).

 

© Guido Mencari

 

Democracy in America incomincia con la glossolalia, lingua profetica di possessione, che chi parla non conosce. Da questo iniziale s-concerto di voci, illustrato da didascalie che ne spiegano il senso, appare un esercito con bandiere (esercito americano in gonnella o Salvation Army), ognuna con una lettera, a formare il titolo, Democracy in America. Poi il gruppo si scioglie e si ricompone molte volte in tableaux vivants da Opera di Pechino, a esplorare le possibilità anagrammatiche del nome del libro di Tocqueville, a suggerire, con le lettere sulle bandiere, ”crime”, “coca”, “car comedy”, “carcinoma”, “cynic” e altre parole contenute nello scrigno del potere di tutti, della massa. E poi lampeggiano nomi di paesi di tutto il mondo, scenari di conflitto o semplici località del Grande Impero Globalizzato, dalla Macedonia all’Iran all’Oman all’India, mentre una donna si spoglia, nascosta dal gruppo, e poi si dimena, come in preda a trance, dipinta di rosso, come sangue, a terra, piangendo, battendo i capelli su un’asta calata dal cielo. E intanto scendono e salgono velatini di tulle, a sfumare le immagini, a farle lampeggiare come sogni tra musiche chirurgiche e telluriche di Scott Gibbons e canti di carcerati.

Baluginano figure primitive: una donna con un bambino, quasi una visione animalesca, l’ombra di un contadino, una terra nera, patate secche, una stella polare o rosa dei venti o stella degli stati americani… Vedere. Sfumare. Scomparire. Appare un aratro, e la sfiducia, il dialogo sull’indifferenza di Dio e sulla costruzione della Nuova Israele, sul bestemmiare con tutto il cuore e vendere, rubare, offendere, violare le leggi di una comunità coercitiva… Le nostre preghiere tutte a vuoto… Il coro, il gruppo, la setta, il processo. Un nuovo volteggiare di danze, senza volto la donna, circondata da figure incalzanti, rosse, tribunalizie, mentre scritte ricordano le tappe principali della storia dell’affermarsi della democrazia e della potenza americana... La società e l’individuo, la società sopra l’individuo, contro l’individuo. Balletto della maggioranza, del patto, del grande sacrificio. Scende un ramo d’oro.

 

Il finale è degli indiani: imparare o non imparare la lingua dei coloni, in quel retro del fregio a bassorilievo greco, nella sua parte cava, negativa, cartapesta rossastra come un pueblo, come un paesaggio roccioso. Spogliarsi della lingua, come se fosse la pelle: i nativi abbandonano alla fine in primo piano le loro pelli, appese all’asta di trapezio discesa dalla soffitta del teatro.

 

© Guido Mencari

 

È uno spettacolo misterioso, questo. Non perché incomprensibile. Perché interroga profondamente lo spettatore, in cerca del suo mistero, in questi tempi di consenso, in cui, per provare disperatamente a consistere, ci abbandoniamo a qualche rassicurante maggioranza, a un gruppo, a un clan, a una fede, calcistica, politica, virtuale... Castellucci, attraverso Tocqueville e l’America, come sempre, ci riporta a noi, al magazzino delle nostre visioni, delle nostre ossessioni, del nostro rapporto con il magma del reale e con le possibilità infinite e inevase del linguaggio. Come pochi altri sanno fare in teatro, senza bisogno di prediche o di storielle edificanti, ci mette davanti a uno specchio, però ustorio, che concentra i raggi sulle nostre ombre, sulle nostre oscurità, sui nostri bui e sui nostri incolmabili vuoti. E, più che illuminarli, riempirli o rifletterli, li incendia.

 

Democracy in America, liberamente ispirato all’opera di Alexis de Tocqueville; regia, scene, luci, costumi di Romeo Castellucci; testi di Claudia Castellucci e Romeo Castellucci; musica di Scott Gibbons. Con Olivia Corsini, Giulia Perelli, Gloria Dorliguzzo, Evelin Facchini, Stefania Tansini, Sophia Danae Vorvila e con dodici danzatrici locali. Si può vedere all’Arena del Sole di Bologna l’11 e il 12 maggio, al Teatro Sociale di Trento il 16 maggio e in vari festival in Europa.

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