L'onestà e i suoi miti

9 Giugno 2014

Poco dopo l'uscita del mio saggio Onestà (Cortina Raffaello, 2014) ricevo l'invito a partecipare a un dibattito sull'omonimo tema, da inserire all'interno di un tal calendario di iniziative. «Quando?» chiedo io. «Ah, pensavamo nel 2015» è la risposta che ricevo, «tanto l'argomento non passa di moda».

 

No, non passa proprio di moda il tema dell'onestà, davvero un evergreen, almeno in alcuni paesi, mi dicevo qualche tempo dopo ancora, vedendo e ascoltando, ai primi di giugno, i notiziari della CCN e della BBC nei quali scorrevano immagini di Venezia, non sott'acqua ma sotto corruzione, immagini in cui comparivano palazzi, canali e gondole, nonché la laguna, con quei grandi cassoni gialli che dovrebbero impedire l'ingresso dell'acqua in città, e infine un uomo con la barba bianca e la fascia tricolore. Ancora un caso di disonestà e corruzione, anzi di grande corruzione, se vale, come vale, l'equazione: grandi opere = (rischio di) grande corruzione.

 

Di questi temi ho parlato nel libro, non con intento omiletico quanto descrittivo, e in parte anche normativo, e non ritengo il caso di tornare sul già detto. Desidero però aggiungere alcune osservazioni, due di natura pratica e due di natura teorica, cominciando dalle prime.

 

1) Accenno nel libro all'importanza dell'educazione a temi etici. Aggiungo che a temi etici dovrebbero essere educati non solo i ragazzi delle scuole, operazione facile e comoda, tutto sommato, ma anche e soprattutto amministratori e politici. Come? Una volta esistevano le «scuole di partito»; ora che i partiti non ci sono più sarebbe il caso di introdurre altre forme di educazione alla gestione della cosa pubblica e del bene comune/beni comuni. Magari anche forme di educazione alla individuazione di che cosa è «il bene» per questo o quel partito (o corrente, o movimento etc.).

 

Sovente infatti si sentono e si leggono, per esempio da parte di candidati sindaci, roboanti dichiarazioni del tipo: «Non intendo fare altro che il bene del mio paese». Intenzione troppo vaga a mio avviso, e che richiede una specificazione della concezione del bene del suddetto candidato, come pure dichiarazioni su quanto si è disposti a intervenire danneggiando eventualmente di bene di altri paesi per favorire quello del proprio: Anche Matteo Renzi qualche anno fa, andò in veste di sindaco ad Arcore a inchinarsi al potente, dicendo col miglior sorriso: «vado per il bene di Firenze»! Senza ulteriormente specificare che cosa egli intendesse per il bene della città, e come se la ricerca di tale non meglio qualificato «bene» potesse giustificare ogni azione e intenzione.

 

2) Ma l'educazione, e anche il senso dell'onore e dell'onestà, non bastano in questi frangenti. Occorre controllo da parte delle istituzioni e occorrono misure effettive e ben conosciute a tutti e l'applicazione delle stesse per dissuadere amministratori e impiegati pubblici da attività di corruzione e concussione, dal momento che la quasi certezza dell'impunità è ovviamente una ottima modalità di incoraggiamento.

 

Vivendo tra la Germania e la Svizzera – e senza voler beatificare tali paesi – ho potuto constatare che il timore di sanzioni quali la sospensione, e eventuale perdita, del posto di lavoro nonché della pensione accumulata che pende sul capo del Beamte (impiegato pubblico di alto livello) lo trattiene spesso da azioni anche minime di sfruttamento del bene pubblico. Poi però, quando le somme diventano ingenti e la tentazione troppo forte, al punto che non basta nemmeno l'invocazione al Padreterno della preghiera cristiana ed economica per eccellenza («e non ci indurre in tentazione») intervengono, o perlomeno danno l'illusione di intervenire, con accurati controlli e verifiche, le istituzioni preposte.

 

Vengo ora alla parte teorica, anch'essa divisa in due.

 

1) Componente dell'onestà dovrebbe essere la trasparenza, la massima trasparenza, si invoca da ogni parte. Oggi la trasparenza vale come ideale regolativo per antonomasia della nostra epoca postideologica e postpartitica. Mai come oggi la richiesta di «maggior trasparenza» ha incontrato tanti consensi, mai tanto come oggi si è invocato il comandamento della trasparenza. La nuova società della trasparenza è ossessionata dall'idea della visibilità totale, come se essa fosse garanzia di limpidezza, onestà, correttezza, benessere. Rifletto su questi temi sulla scorta di un acuto paper di Emmanuel Alloa, giovane docente di filosofia all'Università di San Gallo in Svizzera, (E. Alloa, Kritik der Transparenzgesellschaft, Simposio della Società svizzera di filosofia su "Critica e crisi", San Gallo, CH, 5-7 giugno 2014. Vedi anche un suo intervento).

 

Come puntualizza Alloa, la trasparenza è diventata più che altro un rituale auspicato e rappresentato dai media, anzi, «un altro nome per informazione», come la definisce J. Stiglitz come se i due elementi coincidessero. Ora, è vero che la trasparenza crea fiducia e la fiducia è importante, anzi fondamentale per la costruzione delle società democratiche. E fin qui niente da eccepire. Ma il mito della trasparenza cristallina e totale in tutti i campi è, come tutti i miti, ambiguo e anche pericoloso: chi vorrebbe vivere in una società in cui tutti sanno tutto di tutti in tutti gli aspetti della vita, dalle relazioni amorose a quelle di lavoro, fino ai comportamenti più intimi? In cui nessuno manterrebbe più un segreto rivelatogli perché ciò contravverrebbe al comandamento della trasparenza?! Io no di sicuro, anche perché ciò corrisponderebbe a una società in cui regna quel disciplinamento pervasivo e totale le cui nefaste conseguenze ci furono rivelate da Michel Foucault.

 

2) Al mito della trasparenza si accompagna, nei nostri tempi bizzarri, il nuovo mito del perdono, laicamente rivisitato. Il perdono fa star meglio tutti, si ripete, chi perdona e chi è perdonato, e quindi, via con l'elogio e l'invocazione di questa disposizione d'animo e le conseguenti pratiche. Si perdonino i peggiori tradimenti coniugali e politici, si condonino gli scempi e gli abusi edilizi, si rimettano i debiti, come premette, all'invocazione al non indurre in tentazione sopra citata, la preghiera cristiana al Dio-padre.

 

E in effetti la pratica della riduzione, anzi della soppressione del debito era comune nell'antico Israele, dove veniva esercitata ogni sette anni, in misura minore; mentre al cinquantesimo anno (7x7=49), l'annus remissionis, quando risuonava il suono lieto e festivo del corno liturgico (in ebraico jobel), nell'anno del giubileo dunque, tutti i debiti ancora vigenti erano rimessi e le persone in stato di servitù per debiti venivano liberate (Harald Weinrich, Lete. Arte e critica dell'oblio, Bologna 1999, pp. 246-247).

 

Se si possa considerare onesta l'invocazione, implicita dei paesi oggi indebitati, a un perdono/condono generalizzato in nome della ripresa economica e della crescita produttiva è dubbio. La contrazione di un credito è una forma di patto, e ogni patto e contratto richiede impegno al rispetto del patto medesimo. Onestà non è soltanto non rubare: è anche parlare sinceramente, è anche rispettare la parola che sancisce il patto. Questo intendo quando scrivo che onestà è un concetto poliedrico e sfaccettato e con una grande ricchezza di significati oggi soffocati dal mero aspetto economico.

 

Esercitare l'onestà richiede molti requisiti: non mentire, non ingannare, mantenere la parola e gli impegni presi, non nascondere o omettere informazioni, non rubare, non frodare e non corrompere. Senza peraltro voler negare ingenuamente, a conclusione, l'esistenza di dilemmi dell'onestà coi quali si mettono a confronto le ragioni della corretteza con quelle dell'opportunità e del vantaggio dei molti, anzi, alla Rawls, degli svantaggiati.

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