Diario 9 / Il cielo dal centro del canneto

12 Agosto 2020

Domenica ho preso la macchina e sono andato in uno di quei grandi negozi di bricolage, fai-da-te, edilizia e giardinaggio. Volevo comprare un ombrellone da giardino. La commessa mi ha detto che gliene era rimasto solo uno. “Il migliore, bellissimo”, mi ha assicurato. Poi ha indicato il prezzo: costava uno sproposito. Ha aggiunto che era in procinto di montarlo per metterlo in esposizione, quindi se volevo prenderlo avrei dovuto dirlo subito. Ma non avevo intenzione di comprare un ombrellone da giardino che costa uno sproposito. Lei ha insistito. Immagino che non avesse nessuna voglia di montare quell’ultimo ombrellone da giardino per metterlo in esposizione. Così, per non ascoltare la sua lagnosa insistenza, me ne sono andato.

Oggi (lunedì) scrivo in giardino, sotto una pioggia incessante di aghi di pino, aghi che si staccano dai rami dell’enorme pino che mi sovrasta. Un uccello becca insistentemente nei vasi dell’attico provocando una continua caduta di terriccio. Intorno a mezzogiorno il sole invaderà il tavolo su cui lavoro costringendomi a rientrare in casa. Il mio non era un capriccio estivo, avevo davvero bisogno di quell’ombrellone da giardino.

 

Tre giorni fa a Berlino quindicimila negazionisti hanno sfilato fino alla porta di Brandeburgo in quella che hanno ribattezzato Giornata della libertà. La natura dei negazionisti è di una specie precisa: sono coloro che pensano di aver subìto un grave torto nella vita. Il loro agire è assimilabile a quel disturbo della personalità caratterizzato da un atteggiamento di eccessiva ricerca di attenzione. Un disturbo che deriva inequivocabilmente dal non aver ricevuto la giusta dose di attenzione e che si manifesta con inappropriati comportamenti di seduzione e con un eccessivo bisogno di approvazione. Il negazionista tenta di sedurre il mondo con le sue teorie alternative alla ricerca di un’approvazione. Poiché a stare dalla parte della ragione non si guadagna alcuna attenzione, sceglie la parte del torto in modo da suscitare una reazione che gli faccia guadagnare finalmente il centro della scena. È così che ragiona il negazionista.

Il negazionista non riconosce alcun principio di autorevolezza, crede di poter pensare con la propria testa, in realtà tra due alternative sceglie sempre la meno ragionevole, e in questo modo non sceglie affatto e non pensa con la propria testa, ma si sottopone senza saperlo a un altro principio, che è il principio dello scarto: tra ciò che è logico e ciò che è inevidente sceglie sempre l’inevidente.

 

Molta parte della società contemporanea ha un problema col principio di autorevolezza, qualunque esso sia. La società contemporanea ha abbattuto uno dopo l’altro tutti i principi di autorevolezza (i quali, a loro volta, non hanno fatto molto per evitare di essere abbattuti): l’autorevolezza della cultura, quella della fede, quella della politica, e in ultimo quella della scienza. Cultura, fede, politica e scienza sono i quattro pilastri che fondavano la società umana del Novecento. La società attuale è dominata da coloro che negano questi quattro principi di autorevolezza (oltre a tutto il resto, naturalmente). I negazionisti di Berlino e di tutto il mondo sono la quintessenza di questa società. I negazionisti di Berlino e di tutto il mondo credono che negare indistintamente qualsiasi principio di autorevolezza renda liberi. Ma se negassi l’autorevolezza di Kafka sarei uno scrittore migliore?

 

La città non si è ancora risvegliata, le tracce dello svuotamento sono ovunque. Ieri sera mia moglie è andata in centro. Alle nove mi ha mandato la foto di piazza San Silvestro completamente deserta. Ha scritto: “Sembrano le tre di notte”. Qualche giorno fa, tornando dalla montagna, la prima cosa che ho visto entrando a Roma è stata una branda abbandonata accanto a un cassonetto. Poi ho notato altissimi ciuffi d’erba cresciuti negli spiragli tra la strada e il marciapiede. E l’asfalto, che assomiglia alla superficie di un uovo che si schiude.

 


 

Sono le sette e mezza di sera e mi trovo in piazza di Ponte Lungo. Ho un appuntamento con un’amica e aspetto. Questa è una delle zone più trafficate di Roma. Mentre aspetto mi guardo intorno, ci sono poche macchine che sfrecciano sulla via Appia, zero passanti. C’è solo un mendicante al semaforo che entra in una vecchia cabina telefonica per prendere qualcosa, esce dalla cabina con una maglietta di ricambio e si spoglia sul ciglio della strada, ha il petto scavato e bianco, la pancia piccola e gonfia e le costole che spuntano come le onde inoffensive del mare al mattino presto. Poi attraversa la strada e scompare. La cabina telefonica all’improvviso mi appare come l’unica cosa assennata di questa città.

 


Sono stato a Fano per due giorni, ospite di una coppia di amici. Vicino alla casa in collina dei miei amici c’è un canneto. Siamo andati a visitarlo nel tardo pomeriggio mentre la luce del sole si sgonfiava lentamente sulla città distesa. Il canneto visto da lontano è rotondo e alto, ha l’apparenza di un gasometro vegetale. Ha una sua porta d’ingresso, per chi la conosce, e un sentiero interno. Nel centro del canneto è preclusa ogni visione del mondo, a eccezione del cielo a strisce che traspare tra una canna e l’altra. Né il sole né la pioggia possono penetrare le sue guglie. Solo il vento qui ha un suo potere. Lo ricorda Pascoli in un verso della poesia Il fiume: “A un po’ d’auretta scricchiola il canneto”. Nel centro del canneto le canne hanno fusti più larghi, mentre le piante più giovani si trovano lungo il suo perimetro. All’interno si cammina su un morbido e frusciante tappeto di sfalci essiccati. Se cerco dentro di me un’idea o una parola che custodisca il senso del canneto trovo classicità, quella che Benedetto Croce invocava come castità della forma.


Sono le sette di domenica mattina, rileggo qualche pagina da La casa vuota di Hermans. Ambientato durante la seconda guerra mondiale, narra la storia di un partigiano olandese fuggito da un campo di concentramento che si ritrova a combattere sul fronte ungherese rispondendo a ordini che gli vengono impartiti in lingue a lui sconosciute. Un giorno il protagonista entra per caso in una villa abbandonata, si spoglia degli abiti militari e indossa quelli trovati nell’armadio della casa. La metafora dell’intrusione è straordinaria, il soldato è un estraneo che cerca di conformarsi alla nuova situazione: “Mi rasai davanti a uno specchio nel quale mi vedevo dalla testa ai piedi. In una stanza tutta tappezzata di specchi sarei potuto rimanere senza mai annoiarmi, come Robinson Crusoe sulla sua isola”.

Hermans era un fotografo dilettante, collezionava macchine da scrivere ed era un infaticabile flâneur. Considerava l’ampolla entro cui si consuma l’esperienza della vita umana un “universo sadico”. Universo sadico (Het sadistische universum, 1964) è anche il titolo di una sua raccolta di saggi in cui emerge questo suo punto di vista sulla realtà, una realtà in cui gli individui, che ci sia o meno una guerra in atto, muoiono in modo miserabile e nella più sconcertante indifferenza generale. Secondo Hermans ciò che accade nella routine quotidiana è un mero inganno, quel che dà valore e senso alla vita sono le imprese folli e senza alcuna possibilità di riuscita. La scrittura rientra nel novero di queste imprese. Lo scrittore è come don Chisciotte che tenta di sconfiggere il mago Malabruno montando in sella a un cavallo di legno che crede alato, ma che in realtà volerà solo nell’istante in cui verrà dato fuoco alle polveri piriche di cui è imbottito.

 

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