Bestiario / La sapienza del corvo

21 Marzo 2021

Tutta la storia della civiltà umana si è sviluppata sotto l’occhio attento dei corvi. Dovunque i nostri antenati sono andati, dall’Africa verso l’area continentale europea o varcando lo stretto di Bering per scendere in quelle terre poi chiamate America, i corvi erano già lì. Avevano seguito i carnivori e gli animali di cui questi si nutrivano. I corvi sono onnivori come gli uomini, e tuttavia manifestano una spiccata preferenza per la carne e, poiché non cacciano, seguono i cacciatori, animali o uomini che siano, per nutrirsi dei resti del pasto altrui. Cinque o sei milioni di anni fa, gli antenati dell’Homo sapiens, ancora molto simili alle scimmie, erigendosi in piedi attraversarono il territorio africano in cerca di nuovi spazi. Probabilmente seguivano grandi mammiferi oggi estinti, che si trasferivano progressivamente verso Nord: mandrie enormi di megaloceri, grandi cervi scomparsi, di uri, bovini estinti, e di mammut, gli unici ancora noti forse proprio per la loro parentela visiva con gli elefanti. Nel lasso di tempo che va dall’Oligocene al Miocene, tra ventotto e sette milioni di anni fa, gli antenati dei corvi, che vivevano nelle foreste tropicali, si divisero in varie specie e si disseminarono su tutta la superficie della Terra. Secondo Josef H. Reichholf, biologo, interessato ai corvi, autore nel 2009 di un volume dedicato alla storia della intelligenza di questi animali, e insieme alla loro persecuzione da parte degli umani, ritiene che nel passaggio dalla giungla agli spazi aperti, diventati poi sede della rivoluzione agricola, esista un parallelismo tra l’uomo e il corvo, da cui nascerebbe la complessa relazione che ci lega ancora oggi a loro.

 

Verso questi volatili gli esseri umani hanno sempre manifestato una forte ambivalenza: da un lato, sono attratti da loro, mentre dall’altro non gli piacciono davvero sino in fondo, salvo qualche rara eccezione. Pur avendoli sempre intorno, com’è oggi evidente nelle città, dove i corvidi si sono trasferiti in massa per nutrirsi dei nostri avanzi, gli umani provano una sorta di ancestrale timore. L’ha colto molto bene Alfred Hitchcock parecchi anni fa con Gli uccelli (1963), film basato proprio sui pregiudizi e le paure che i corvi suscitano in noi umani. Questi uccelli ci stanno vicini, ci osservano, ci spiano, ma si tengono a debita distanza. Del resto, loro dominano un elemento che noi non controlliamo. Volano e sono molto intelligenti, e soprattutto non addomesticabili come altri animali che ci stanno intorno sin da epoche remote: il cane o il gatto. Nelle grotte di Lascaux, datate circa 17.000 anni fa, è raffigurata una scena ancora oggi misteriosa: un uomo-uccello, dalla testa di corvo e un pene in erezione, è a terra; forse è stato colpito da un animale, un bisonte; in primo piano c’è un uccello da cui promana una linea che scende verso il basso. Questa pittura sancisce un legame che ha qualcosa di ancestrale e di misterioso. I corvi e le cornacchie, che si distinguono dai primi per varie caratteristiche, appartengono entrambi alla famiglia dei corvidi (Corvidae), che fa parte dell’ordine dei passeriformi (Passeriformes) e della classe degli uccelli (Aves); secondo le ultime classificazioni questi uccelli canori contano 130 specie e 25 generi, cui appartengono le gazze, le ghiandaie e le ghiandaie azzurre, ben più colorate dei monocromi corvi e delle cornacchie.

 

I Corvus contano 43 specie: corvi, cornacchie grigie e nere, il corvo comune, le taccole, il corvo imperiale (Corvus corax), il più famoso e maestoso di tutti. Il loro nome deriva dal suono che emettono: cra. Un biologo e filosofo che insegna alla Freie Universitat di Berlino, Cord Riechelmann, specializzato in fauna urbana, ha pubblicato l’altro anno un volume intitolato Il corvo (tr. it di Angela Ricci, Marsilio, pp. 166) con una bella prefazione di Telmo Pievani. Vi racconta molte cose anche poco note di questo uccello. Lo stesso anno è apparso anche il ponderoso volume del maggiore studioso di corvi, Bernd Heinrich, La mente del corvo (tr. it. di Valentina Marconi, Adelphi, pp. 556), un tedesco emigrato dopo la Seconda guerra mondiale negli Stati Uniti, passato dall’entomologia all’ornitologia per amore di questo volatile. Il breve volume di Riechelmann contiene molte interessanti osservazioni sui corvi di città, quelli che vediamo svolazzare sulle nostre teste tutti i giorni, posarsi sulle antenne televisive o mentre becchettano dentro i cestini stradali dell’immondizia alla ricerca di cibo. Il biologo e filosofo si sofferma soprattutto sulla caccia che gli umani hanno dato a questo animale il quale riveste sin dai tempi remoti un valore sacro per molte popolazioni del mondo. Odino, la divinità nordica, ha accanto a sé due corvi: Hugin, il cui nome in antico norreno significa “pensiero” e Munin, che significa “memoria”; i due sono inviati tutti i giorni dal dio a controllare ciò che accade in giro per mondo, sino ad arrivare ai suoi remoti confini; la sera tornano da lui per riferire quello che dicono e fanno gli umani. Questo compito di messaggeri, ma anche di attenti osservatori, lo si ritrova anche nella Bibbia.

 

Noè manda un corvo per cercare di capire se le acque si sono ritirate dopo il diluvio, esattamente come accade nell’Epopea di Gilgameš, dove prima del corvo parte una colomba, che ritorna, una rondine, che fa altrettanto, e infine il corvo che non torna più: il mondo è di nuovo abitabile. La stessa storia si ritrova nella saga detta di Flòki, riguardante il modo in cui i vichinghi scoprirono l’Islanda. Furono liberati tre corvi: il primo non tornò, il secondo invece sì, e il terzo volò verso ovest e Flòki lo seguì e trovò il paese. Perché dunque gli uomini pur confidando nei corvi come messaggeri, li hanno sempre perseguitati arrivando quasi a sterminarli in alcuni paesi? Secondo Reichlmann dipende da due fattori: la grande capacità di adattamento dei corvi e la storia della civiltà umana. La prima rende questi animali molto presenti, ma sempre “selvaggi”. La seconda riguarda il nostro rapporto con la morte. Questi uccelli hanno una indubbia relazione con questo aspetto. Si nutrono infatti di carcasse, ragione per cui hanno seguito, prima ancora che l’uomo, i lupi nelle loro migrazioni; e hanno sviluppato un grande spirito di osservazione, così da riuscire a capire da impercettibili segni quando un animale ammalato, oppure ferito, sta per morire; lo tallonano da vicino fino all’evento finale, e così rendono anche un servizio agli animali carnivori. Questo ha fatto sì che molti miti contengano storie di corvi annunciatori di morte, come è evidente in quel disegno sulle pareti delle grotte di Lascaux. Nel corso del XX secolo in Europa e in America la caccia al corvo ha raggiunto punte elevate con trappole destinate a loro, attacchi ai nidi nell’epoca delle covate o sparando. Poi nel 1979 il Parlamento europeo ha votato delle linee guida per la protezione dei volatili inserendo la tutela degli uccelli canori senza eccezioni di sorta.

 

Così anche i corvi, che gracchiano, sono stati messi tra le specie protette. Sulla intelligenza di questo animale Bernd Heinrich ha scritto pagine davvero esaurienti in un libro che non è solo un testo scientifico, ma anche un diario di lavoro e la storia del suo rapporto con questo animale. Del medesimo autore è disponibile in italiano anche il bellissimo Corvi d’inverno, tradotto molti anni fa e ora ristampato da Ricca Editore per la traduzione di Marta Suatoni. Heinrich non parla solo di temi etologici, ma include nella sua trattazione anche gli aspetti mitologici dei corvi. In un mito dei nativi americani il colore nero delle penne del corvo è collegato all’imperfezione del mondo. Prima dell’avvento degli uomini, quando il mondo era solo ai suoi albori, il Dio-Corvo era bianco come la neve. Lui creò le montagne e la sua anima era piena di luce e di bellezza, ma il suo gemello nero geloso tentò di ucciderlo a frustate. Allora Corvo Bianco lo abbatté. Poi assalito dal senso di colpa diventò, anche a causa del sangue del gemello che l’aveva macchiato, tutto nero. Da allora i corvi sono così: segno dell’imperfezione del mondo stesso. Heirinch, che in origine era entomologo, oltre che campione di corsa, li ama spassionatamente. Ha studiato per anni la loro intelligenza, dimostrando la simbiosi dei corvi con i lupi nei parchi americani, e la plasticità della loro mente. Attraverso una serie di esperimenti ha mostrato come i corvi siano capaci di rappresentazioni mentali, che permettono loro di risolvere dilemmi legati al recupero del cibo, e non solo. La parte finale di La mente del corvo è dedicata a descrivere le forme di immaginazione e di pensiero di questo volatile privo di parola. Noi uomini ci siamo evoluti, scrive Heinrich, grazie alla costruzione del linguaggio, ma esistono forme di immaginazione creativa che non richiedono alcuna consapevolezza.

 

Il pensiero si radica nel sistema nervoso, diventa automatico e non è più necessario prendere decisioni per farlo accadere, salvo per la prima “via” iniziale. I corvi, si domanda Heinrich, provano emozioni? La risposta è sì. Noi non possiamo comprendere appieno la loro mente, però sappiamo che provano qualcosa che somiglia alla paura, all’irritazione, alla curiosità, mostrano capacità di visualizzazione e di possedere un pensiero che non conosce le parole. E tuttavia anche “parlano”, tanto che lo studioso tedesco-americano e i suoi colleghi hanno identificato le varie espressioni del loro gracchiare. Nel suo libro, molto elegante graficamente, Reichlmann racconta un esperimento che alcuni etologi hanno compiuto nel 2002 con una coppia di corvi, Betty ed Abel, cui fu proposto come cibo il cuore di un maiale dentro un cilindro di vetro dal collo molto lungo, per cui nessuno dei due arrivava fino a toccarlo. Gli sperimentatori avevano lasciato due pezzi di fil di ferro, uno dritto e l’altro piegato a forma di gancio. Abel si prese questo secondo e tirò fuori la ciotolina col cibo, che poi si mangiò da solo. Betty, senza perdersi d’animo o contendergli il cibo, prese il filo di ferro, ne piegò l’estremità aiutandosi con zampe e becco, e realizzò un gancio con cui estrasse dal cilindro il proprio pasto. Questa coppia di corvi della Nuova Caledonia ha dimostrato la capacità dei volatili di munirsi di strumenti in modo creativo.

 

 

Fino a quel momento entrambi non avevano infatti mai visto un fil di ferro; non erano stati scelti a caso, dal momento che questi corvi utilizzano rametti per estrarre da tronchi marci larve di insetti, fino a infilzarli per mangiarli. I corvi di Tokyo, dotati di un grosso becco, dal canto loro hanno imparato a forare i sacchi della spazzatura per banchettare sulle strade la mattina presto. Perciò le autorità municipali hanno preso tempo addietro varie misure per evitare che i sacchi restassero a lungo nelle vie; così i corvi di Tokyo sono stati i primi ad aprire le noci gettandole sotto le automobili di passaggio ferme ai semafori. Gli esempi di ingegnosità dei corvi, anche solo per effettuare giochi che li divertono, sono parecchi, descritti da ornitologi ed etologi nei loro studi. Non a caso in diversi miti vengono presentati come trickster, bricconi divini, imbroglioni e clown, insieme intelligenti, astuti e dispettosi. Reichlmann si sofferma poi sul contributo che Konrad Lorenz ha dato allo studio dei corvi, delle taccole e delle cornacchie. Chi ha letto L’anello di Re Salomone (tr. it. di Laura Schwarz, Adelphi) si ricorderà di Roa, il corvo dell’etologo austriaco, che ruba la biancheria intima dei suoi vicini di casa. Pur essendo stato iscritto al partito nazista, fatto che l’etologo ha rievocato in una intervista televisiva negli ultimi anni della sua vita, egli è stato senza dubbio uno dei più grandi studiosi di animali.

 

Gregory Bateson, antropologo e studioso di cibernetica, l’ha definito uno “sciamano praticante” in Mente e natura (tr. it. di Giuseppe Longo, Adelphi). Esercitando una particolare forma di empatia – pensare come pensano i corvi – è arrivato nel corso della sua vita a “dedurre moltissimo dal paragone (consapevole o inconsapevole) tra le azioni che vede fare a un animale e le sensazioni che prova compiendole lui stesso”. Per quanto oggi molte delle teorie di Lorenz siano considerate superate, resta fondamentale il suo metodo di immedesimazione, qualcosa che egli possedeva in modo inconsapevole senza averlo mai appreso da nessuno. Forse è stato leggendo da bambino il libro di Selma Lagerlöf, Il meraviglioso viaggio di Nils Holgersoon (tr. it. di Laura Cangemi, Iperborea), che Lorenz ha imparato questo metodo dal protagonista del libro. Il giovane Nils, grazie all’incantesimo di un folletto, è diventato piccolo ed ha acquistato il potere di parlare con gli animali: li capisce ed è compreso. Il ragazzo possiede quello che Lorenz chiamerà l’anello di Re Salomone. Ad ammirarlo non c’è solo Gregory Bateson, ma anche lo scrittore inglese Bruce Chatwin, che nel libro dedicato agli aborigeni australiani, Le vie dei canti (tr. it. di Silvia Gariglio, Adelphi), racconta come sia andato a trovarlo ad Altenberg, la piccola città vicino a Vienna. Qui lo vede calarsi nei panni di un uccello o di un pesce mentre spiega le sue idee su quegli animali, o imitare davanti al suo visitatore un esemplare di taccola posta all’ultimo gradino della “gerarchia”, l’uccello più infelice della Terra. Bateson nel suo libro spiega come l’etologo austriaco abbia saputo riassumere il sapere motorio espressivo di tutti gli esseri viventi.

 

Come dice più letterariamente Chatwin, è stato un attore straordinario. Si tratta, scrive l’antropologo, dell’esatto contrario di ciò che facciamo oggi “quando instilliamo nei bambini un po’ di storia naturale e poi un po’ di “arte”, ottenendo che dimentichino la loro natura animale ed ecologica, così come l’estetica propria degli esseri viventi, così che sia possibile crescerli per farli diventare dei bravi uomini d’affari. Il metodo di Lorenz non presuppone l’idea di raggiungere un livello di conoscenza dei corvi, delle anatre o delle taccole per dominarli o controllarli, ma di immergersi totalmente nel loro mondo da cui tornava, scrive Reichelmann, ricco di acquisizioni sull’estetica degli esseri viventi del regno animale. E non ci sono solo Bateson e Chatwin tra gli ammiratori di questo etologo dei corvi. Leggendo Deleuze e Guattari, il loro mitico libro Mille piani (tr. it. di Giorgio Passerone, Castelvecchi), si scopre che mentre parlano della scoperta della territorialità degli animali, quale fenomeno espressivo, lo citano ampiamente nel capitolo Del ritornello: gli animali marchiano il territorio con i colori o con i suoni, con canti e rumori vari, aspetti che per i due filosofi francesi costituiscono dei veri e propri movimenti artistici paralleli a quelli dell’arte umana. I corvi possiedono un cervello molto più grande di tutti gli altri uccelli in rapporto alle loro dimensioni corporee. Solo i pappagalli li eguagliano, come ha dimostrato il grande zoologo svizzero Adolf Portmann negli anni Quaranta del XX secolo.

 

La loro evoluzione nel corso di milioni di anni li ha portati a un livello di intelligenza straordinario, come spiega con vari esempi Bernd Heinrich nel suo studio. Il capitolo del libro di Lorenz intitolato Le mie perenni compagne descrive poi i giochi delle sue taccole con una straordinaria partecipazione osservativa che lascia stupefatti. Si tratta di giochi nel senso che diamo a questa parola, attività di cui reputiamo capaci animali come i gatti e i cani. Ci sono movimenti di questi uccelli praticati per puro piacere, virtuosismi che riguardano il volo, le distanze, gli spostamenti in aria, che appaiono come il risultato non tanto o non solo di gesti innati e istintivi, bensì frutto di una conquista personale, scrive Lorenz. Nel suo libro Riechelmann cita Boria Sax, autore di Crow (Reaktion Books), secondo cui nel 1666 si apre l’era moderna dei corvi. Cosa è accaduto in quell’anno? In settembre era scoppiato un grande incendio a Londra, che aveva infuriato per una settimana distruggendo parte della città e facendo molti morti, che non si riuscì a rimuovere e portare fuori città a causa di varie difficoltà. Per questa ragione si videro i corvi della città calare a nutrirsi dei cadaveri. Questo provocò una furiosa reazione degli abitanti che uccisero decine di migliaia di quegli uccelli e distrussero i loro nidi. Il re, Carlo II, fu contrario a questa forma di vendetta contro i corvi. La ragione, scrive Reichelmann, deriverebbe da una profezia che riguardava la fine della sua monarchia e la distruzione del palazzo reale se i corvi che alloggiavano nella Torre di Londra fossero stati uccisi. Per questo il re stabilì che dovessero esserci sempre sei corvi in quell’alto edificio e nominò una guardia speciale, il maestro dei corvi della Torre, per custodirli, carica che esiste tuttora.

 

Ora proprio l’attuale Ravenmaster, Christopher Skaife, ha pubblicato un libro intitolato Il signore dei corvi alla fine del 2019 (tr. it. di Stefania De Franco, pp. 245, Guanda). Nell’ultima parte del volume Skaife sostiene che questa vicenda della istituzione del Ravenmaster e della profezia, compresi i sei corvi allocati nella Torre, è solo una leggenda. Nei documenti che ha raccolto nel corso degli anni attraverso una ricerca puntigliosa e dettagliata, non si sono trovati riferimenti alla storia di re Carlo II antecedenti il tardo Ottocento. Non esisterebbe perciò nessun decreto reale sulla tutela di questi volatili, se non un mandato riferito all’astronomo di corte dell’epoca, che era infastidito dai corvi, così che alla fine si trasferì per le sue osservazioni a Greenwich. La rassegna che ci offre il Ravenmaster è ampia e probabilmente definitiva. Skaife è un ornitologo dilettante, come si definisce, ma dopo tanti anni dedicati ai suoi corvi, di cui parla diffusamente con grande trasporto nel volume, è diventato uno dei maggiori esperti in questo campo. Il libro è piacevole perché mescola le sue avventure per tenere i corvi nella torre (sono liberi di andare dove vogliono, non sono tenuti in una voliera) a molte notizie sulla presenza di questo volatile nelle opere letterarie di ogni tempo e luogo, sulle leggende che lo riguardano, sulle voci e sulla vista, tanti dettagli tenuti insieme da un racconto orale messo per iscritto.

 

Un dettaglio riguarda anche la celebre poesia di E. A. Poe, Il corvo, apparsa nel 1845, da alcuni ritenuta la poesia lirica più famosa del mondo – di certo lo è in lingua inglese. Poe sarebbe arrivato a scriverla attraverso Charles Dickens. Si tratta del suo romanzo Barnaby Rudge, di cui esiste una traduzione italiana di Ferdinanda Pivano del 1947. Il protagonista di questo libro, che si svolge durante le sommosse anticattoliche del 1780, possiede un corvo di nome Grip, che l’accompagna dappertutto. Questo corvo esisteva davvero in casa Dickens, e oggi lo si può vedere impagliato nella Free Library di Philadelphia tra le cose appartenute allo scrittore. Poe pubblicò quel romanzo a puntate sul giornale che dirigeva, Graham’s Lady’s and Gentleman’s Magazine, e lo recensì. In Filosofia della composizione racconta come gli nacque l’idea di questo uccello che ripeteva Nevermore a chiusa di ogni stanza poetica, collegando così in modo definitivo nella modernità malinconia, morte e corvo. Uno stigma quasi definitivo per un animale così straordinario, misterioso e perspicace.

 

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Una versione più breve è stata pubblicata nella edizione on line del quotidiano “La Repubblica” che ringraziamo di aver concesso di ripubblicarlo.

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