Il cavallo e il pronome in terza persona / Algirdas Greimas. Del senso in esilio
Cosa c’entra il cavallo col pronome di terza persona? Algirdas Julien Greimas, che non amava parlare a sproposito, ripeteva spesso che si tratta delle due più azzeccate invenzioni della specie umana, poiché, a ben vedere, hanno svolto nel tempo la medesima funzione antropologica: quella di distaccare l’ominide dalla sua condizione cosiddetta naturale, cioè bestiale, permettendogli di accedere alla sfera della cultura, della socialità, della simbolizzazione. Laddove l’asservimento dell’equino, con buona pace degli odierni animalisti, ha aiutato nel lavoro e nei trasporti, innalzando di parecchio la qualità del vita umana, l’egli ha permesso di parlare di qualcosa che non è lì mentre si parla, che è supposta esistere a prescindere da chi, al contrario, la sta esprimendo. Come dire che, se il cavallo ha prodotto qualcosa come la soggettività, la terza persona ha reso possibile l’oggettività. Che non è poco.
Ragionamenti così, incongrui ed evidenti al contempo, erano pane quotidiano per questo studioso assolutamente sui generis di cui nel 2017 si sta celebrando il centenario della nascita, con incontri di studio, seminari, pubblicazioni, rammemorazioni e commemorazioni varie, e che, in particolare, ha visto riuniti nei giorni scorsi a Parigi, nella prestigiosa sede dell’Unesco, più di centocinquanta semiologi e linguisti provenienti, per ricordarlo, da tutto il mondo. Il titolo del congressone, peraltro, non era rivolto al passato ma semmai a un futuro che è già iniziato: “Greimas aujourd’hui: l’avenir de la structure”.
Ma chi era veramente costui? L’immagine che generalmente se ne ha, in accademia come nei media, è quella di uno studioso ingegnoso ma difficile, chiuso nel suo mondo d’astrattezze formaliste, per giunta attorniato da una cerchia fortemente esoterica di pedissequi adoratori. Nome di spicco nel periodo d’oro dello strutturalismo francese (la sua Semantica strutturale, coniata a calco dall’Antropologia strutturale dell’amico e maestro Claude Lévi-Strauss, vendette nei tardi anni Sessanta decine di migliaia di copie), Greimas è difatti noto per i suoi studi sulla significazione come Del senso, (1970), Semiotica e scienze sociali (1976), Dizionario ragionato della teoria del linguaggio (1979) o Del senso 2 (1983), con estensioni geniali nel campo dell’analisi letteraria (Maupassant, 1976), della teoria estetica (Dell’imperfezione, 1987), dell’affettività (Semiotica delle passioni, 1991). Per non parlare dei suoi saggi sulle arti visive (da cui la celebre distinzione tra figurativo e plastico), la poesia, le letterature etniche, le mitologie nordeuropee, i cruciverba. A lui si deve il famigerato modello del ‘quadrato semiotico’, che ha fatto venire l’orticaria a decine di sospirosi seguaci di un umanesimo di maniera, cento volte criticato dai dialettici in servizio permanente effettivo, ma comunque adoperato, con esiti molto spesso felici, da generazioni di interpreti non solo del testo letterario e artistico ma, anche e soprattutto, del discorso mediatico contemporaneo (il mondo del brand lo sa).
Ma sua è più che altro l’idea che la narrazione, o per meglio dire la narratività, sta al fondo d’ogni atto di senso, sia esso un racconto propriamente detto, un’opera filosofica, un’immagine pubblicitaria, un oggetto di design, un manufatto architettonico, una pietanza, un balletto, come anche l’esperienza vissuta del nostro quotidiano. Ogni nostra azione, ogni cosa che ci accade, ogni evento piccolo o grande della nostra vita hanno senso se e solo se stanno in una qualche serie narrativa, là dove ogni soggetto, individuale o collettivo, va in cerca di oggetti che sono carichi di valori: i valori, appunto, delle nostre esistenze, quelli che inseguiamo perché hanno per noi un qualche senso, una qualche importanza, regalandoci anche per lo spazio di un attimo quel demone che ci opprime e che si chiama identità. Non siamo altro che l’esito delle storie che ci accade di vivere, ripeteva Greimas – dando alla pratica dello storytelling uno spessore e un’ampiezza straordinariamente più grandi di quello dei suoi odierni teorici. Lo aveva colto bene il suo amico e sodale Paul Ricoeur, il filosofo della scuola del sospetto e dell’ermeneutica esistenziale, che scrisse i suoi tre volumoni su Tempo e racconto (1983-85) discutendo a fondo, e accettandole per gran parte, giusto le tesi semiotiche di Greimas.
Studi non facili, sicuramente, scritti che non concedono al lettore alcuno sconto, redatti con uno stile asciutto ed essenziale, ma che regalano a chi si assume l’onere di studiarli con una certa attenzione, continui sprazzi di euforica comprensione delle cose del mondo. Il fatto è che, spiegava lo stesso Greimas nelle prime pagine del suo libro più importante, il già citato Del senso, il semiologo lavora in quel varco strettissimo che separa, unendoli, la logica matematica dalla metafisica, finendo per scontentare entrambe. Troppo poco formali per i logici, troppo astratti per i metafisici, gli studi semiotici cercano di iniettare massicce dosi di umanesimo al pensiero ingegneristico e funzionale, donando al contempo un bel po’ più di rigore alle scienze umane e sociali. Per questo si fa fatica, all’inizio, a seguirne a fondo i ragionamenti (da cui la pioggia di critiche tanto aprioristiche quando saccenti che ricevono da decenni), e per la medesima ragione ci si rallegra, dopo un po’, per la ventata d’aria fresca che gettano sulla ricerca scientifica contemporanea e sul pensiero critico che l’accompagna. Lo hanno capito matematici come René Thom, epistemologi come Michel Serres e Isabelle Stengers, antropo-filosofi come Bruno Latour, sinologi come François Jullien che, in modi più o meno diretti, hanno riconosciuto a Greimas di aver portato avanti una ricerca che si rivela essenziale, al di là del mondo semiotico in cui è sorta, per le scommesse intellettuali dei nostri giorni, adottandone categorie e concetti come quello di attante, enunciazione, schema narrativo e simili.
Per comprendere a fondo il personaggio, e quest’apparente contraddizione fra l’asperità dei suoi scritti e le aperture al mondo che essi pure permettono, potrà essere d’aiuto saperne un po’ di più, da un lato, della sua formazione intellettuale e, dall’altro, delle sue vicende biografiche. Greimas ha sempre studiato, in Francia, la linguistica: si laurea a Grenoble in filologia romanza nel 1939, ben presto collabora alle ricerche lessicografiche di studiosi come Georges Matoré e Bernard Quemada, compilando un fondamentale Dictionnaire de l’ancien français (1968), che è diventato un punto di riferimento obbligato per filologi e storici della lingua. Approda allo strutturalismo da lì, dalla linguistica di Ferdinand de Saussure e soprattutto di Louis Hjelmslev, del quale seguirà sempre, con ammirabile ostinazione, l’idea di fondare uno studio sistematico dei significati linguistici (la semantica strutturale, appunto), ovvero di rendere conto scientificamente di quel luogo che tiene in contatto, mettendoli in discussione come entità autonome, le regole linguistiche e le pratiche sociali, le forme del senso e quelle della cultura.
L’esperienza della migrazione, della vita da esule e della successiva ‘naturalizzazione’ francese non sono estranee a tutto ciò. Lituano di nascita, Greimas vive tragicamente l’invasione nazista, prima, e quella, sovietica, dopo. Perde il padre in un gulag, partecipa attivamente ai gruppi della resistenza fra Vilnius e Kaunas, dei quali diviene per un breve periodo comandante in capo, rischiando personalmente la vita anche a causa di una serie di scritti politici, rigorosamente in lituano (la lingua più simile all’indoeuropeo, si vantava), che circolavano clandestinamente per mezzo mondo. È costretto a fuggire subito dopo la seconda guerra mondiale, e torna in Francia, dove aveva studiato negli anni Trenta. Mantenendo costantemente i contatti con le comunità lituane (da cui le relazioni con intellettuali, anch’essi esuli lituani, come Levinas e Baltrusaitis), non riuscendo a trovar posto, da straniero, nell’accademia francese, diventa docente di linguistica prima ad Alessandria d’Egitto, dove incontra – guarda un po’ – Roland Barthes (a cui passa il Corso di linguistica di Saussure, spiegandogli la nozione di grado zero), e poi ad Ankara e Istanbul (dove conosce il grande storico delle religioni Georges Dumézil). Quando viene chiamato come professore a Poitiers, nel 1962, ha già scritto saggi importanti, come il celebre L’attualità del saussurismo (1956), dove per la prima volta si disegna il vasto panorama delle ricerche strutturaliste, dalla filosofia di Merleau-Ponty alla critica letteraria di Barthes e Callois, dalla filologia di Jakobson all’antropologia di Lévi-Strauss. Ed è proprio quest’ultimo a chiamarlo a Parigi, nel 1965, attribuendogli la cattedra di Semantica generale all’Ecole des hautes etudes en sciences sociales, che terrà sino alla sua scomparsa, nel 1992. Da lì fonda, con Jakobson, Sebeok, Benveniste ed Eco, l’Associazione internazionale di studi semiotici, che proprio a Kaunas, a fine giugno di quest’anno, terrà il suo tredicesimo congresso mondiale dove lo si ricorderà ancora.
Ma l’attenzione appassionata per il suo paese d’origine non ha mai avuto tregua. Non solo scrive ben due libri sulle mitologie lituane, uno dei quali direttamente nella sua lingua madre, ma pubblica periodicamente, più o meno apertamente, a Vilnius, dove, dopo la caduta del muro di Berlino, verrà accolto come una specie di eroe nazionale. Lo testimonia il bel volume di croniques lituaniennes intitolato Du sens en exil, pubblicato in occasione del congresso Unesco dalle edizioni Lambert-Lucas (pp. 336, € 24), puntando l’attenzione su un aspetto della fisionomia intellettuale di Greimas sinora molto poco conosciuta. Il libro è pieno di cose interessanti, come un abbozzo di autobiografia, molti saggi di critica letteraria (da Corneille a Cervantes, da Verlaine ai poeti lituani), parecchie riflessioni sull’essere lituano e sull’esilio. Vi troviamo affermazioni piene d’orgoglio come questa: “L’être lituanien est devenu un mode de vie naturel, normal, quotidien”. Ecco, fra gli altri luoghi possibili, il punto d’incontro della scienza semiotica con l’esperienza vissuta: la ricerca del senso, di un senso che sia chiaro e distinto, ma che soprattutto ridoni alla vita il suo valore più prezioso: la normalità. Che altro? Il cavallo, l’egli…