La “mente moderna” dell’uomo paleolitico e neolitico / All'origine dell'immaginazione

5 Febbraio 2022

“Faremo storia a modo nostro, sfarfallando tra migliaia di anni fa” avverte Silvia Ferrara nel suo ultimo libro Il salto. Segni, figure, parole: viaggio all’origine dell’immaginazione (Feltrinelli, Milano 2021). Secondo la docente di filologia micenea e civiltà egee all’Università di Bologna, la storiografia tradizionale fornisce un racconto mistificato degli albori della civiltà al quale oppone una narrazione alternativa “sfarfallando” e saltando “di palo in frasca”. Nel saggio, articolato in una rincorsa, uno stacco e quattro salti, viene esposta la tesi che la creatività umana non si sviluppi in sequenza, come vorrebbe l’evoluzionismo sociale dell’Ottocento, ma appunto per salti e interpolazioni temporali. Ferrara scrive di un passato che parla di noi “non solo come eravamo cinquantamila anni fa, ma anche di noi adesso” (p. 17). L’originalità del suo approccio sta nel considerare tutte le età contemporanee rispetto alla facoltà dell’uomo di immaginare attraverso astrazioni.

 

 

Originale è anche la forma del testo. Con una narrazione rizomatica mette alla prova il modello lineare e binario di coordinazione/subordinazione della forma saggistica. Prende per mano il lettore e lo porta qua e là nella storia “sfarfallando”. Rompe gli schemi storiografici e i generi letterari: il suo “non è un libro di scienza o di arte, non è un libro di semiotica […] Non è un libro di storia, né di estetica, né di antropologia, né di filosofia” (p. 11).

 

Profili di felini, grotta di Chauvet, Vallon-Pont-d'Arc, Francia.


Sfarfalliamo e saltiamo dunque, ma per spiccare il salto verso il pensiero astratto serve una rincorsa e uno stacco. Il terzo capitolo (Stacco) è dedicato al disegnare linee di contorno su superfici piane, operazione che implica l’attivazione di quei processi cognitivi che caratterizzano la “mente moderna”. La linea di contorno è un’astrazione. Non percepiamo linee nere che circondano gli oggetti ma solo discontinuità tra superfici diversamente illuminate e diversamente rispondenti all’intensità e alla qualità della luce. “Non fare i termini delle tue figure d’altro colore che del proprio campo, con che esse figure terminano, cioè che non faccia profili oscuri infra il campo e la tua figura” raccomanda Leonardo da Vinci al pittore (Trattato della pittura, Parte seconda, 113). Queste linee “oscure” che separano superfici non esistono nel mondo fisico e perciò non possono essere percepite, se non dopo che siano state disegnate. Possono solo essere concepite in rapporto all’uso di specifici codici visivi ai quali siamo stati educati.

 

Dopo lo Stacco, documentato dalla rappresentazione di figure attraverso linee, puntini e silhouette, ecco Il salto in avanti dedicato ai segni, che entrano in rapporto con i disegni. Nel capitolo Disegni come segni del suo poderoso studio sulla psicologia dell’arte decorativa, Ernst Hans Josef Gombrich rileva un parallelismo tra la teoria di un’evoluzione dell’ornamento in termini darwinistici e la stilizzazione grafica insegnata nelle scuole d’arte vittoriane. Questo parallelismo trova un solido sostegno nell’ipotesi che la scrittura si sia evoluta dai pittogrammi ai segni (Il senso dell’ordine. Studio sulla psicologia dell’arte decorativa, Einaudi, Torino, 2000, p. 242). In Arte e illusione Gombrich pubblica una eloquente fotografia di studenti vittoriani al lavoro. Se questa concezione evolutiva ha condizionato fortemente l’interpretazione del rapporto tra disegno e segno, quale influenza potrà avere la lettura sincronica proposta da Ferrara?

 

Segni schematici e geometrici individuati da Genevieve von Petzinger in grotte paleolitiche.

 

Segni schematici e geometrici individuati da Genevieve von Petzinger in grotte paleolitiche.


Per tutto ciò che non è disegno Ferrara usa il termine segno in “assoluta libertà”, considerando che la sua definizione è impresa ardua perché può essere tutto: glifo, graffito, parola, numero, pittogramma, icona e molto di più (p. 95). Evitando di affrontare i problemi posti dai distinguo della semiotica considerata “un vero campo minato”, l’autrice preferisce mettere in luce la capacità dell’essere umano d’immaginare cose che non ci sono e di raccontare storie disegnando, dipingendo e incidendo segni sulle pareti paleolitiche e neolitiche. L’ordine con il quale alcuni di questi segni sono stati rinvenuti presuppone la capacità di creare e trasmettere messaggi, “un ordine iconico, ma che sembra quasi alfabetizzato […] una linea sequenziale, indubbiamente proto, che va verso l’invenzione che un giorno chiameremo scrittura” (p. 117). Ferrara sostiene che già a quel tempo l’uomo pensava in astratto attraverso segni pronti a diventare linguistici e che anche nelle figure ripetute a sistema c’è un germe di scrittura. La “mente moderna” paleolitica e neolitica, così come la nostra, attiva un sistema di rappresentazioni eterogenee (disegni e segni) che interagiscono tra loro? 

 

Secondo gli studi di Stanislas Dehaene i circuiti neuronali preposti al riconoscimento dei contorni, presenti nel sistema nervoso dell’homo sapiens prima dell’invenzione della scrittura, si sono adattati a un’attività cognitiva come la lettura (Les neurones de la lecture, Odile Jacob, Parigi 2007). Di questo riciclo neuronale scrive anche Ferrara in un altro saggio: La grande invenzione. Storia del mondo in nove scritture misteriose (Feltrinelli, Milano 2019, p. 21). La possibilità di leggere i contorni degli oggetti allo stesso modo in cui leggiamo le lettere permette uno scambio tra figurale e linguistico? La “mente moderna” dell’uomo paleolitico e neolitico è anche la nostra? Le costellazioni di figure e simboli disegnati, colorati e incisi sulle pareti delle grotte mettevano in moto la loro mente come mettiamo in moto la nostra quando chiamiamo “chiocciola” il simbolo @ trasformandolo in un’immagine, o quando componiamo una emoticon utilizzando i segni d’interpunzione :), oppure quando mescoliamo i segni alfabetici alle faccine tristi o sorridenti attraverso la gestualità Multi-Touch? Anche il gesto fa parte di un sistema di scrittura non alfabetico e Ferrara ricorda che il simbolo nasce da un segno “tracciato nell’aria dal gesto di una mano” (p. 218).

 

La gestualità Multi-Touch ha la ritualità del gesto codificato. Seguendo la traccia degli studi di Jacques Derrida (Della grammatologia, Milano, Jaca Book 2012), il filosofo Maurizio Ferraris (Documentalità. Perché è necessario lasciar tracce, Laterza, Roma-Bari 2009) sostiene che i gesti codificati appartengono a un sistema di scrittura indipendente dal linguaggio, definita con il termine “archiscrittura”, che comprende tutto ciò che ha a che fare con l’iscrizione, la traccia, la registrazione e l’iterazione del gesto. Nell’ottica dell’interpretazione sincronica proposta da Ferrara, possiamo immaginare che l’atto d’imprimere le cinque dita della mano su una superficie abbia un rapporto con la gestualità Multi-Touch?  “Quel che lasciamo indietro, lo lasciamo inevitabilmente avanti” scrive l’autrice a pagina 220, regalando al lettore una bellissima immagine dell’interpolazione di tempi diversi, divenuta una figura emblematica del contemporaneo.

 

Impronte di mani, Cueva de las Manos, Parco Nazionale Perito Moreno, Argentina.


Divagando ho fatto un salto in più scavalcando il quinto capitolo (Il salto in alto). Torno indietro.

 

Il salto in alto

Raccontando del kebab più buono al mondo, dei fischi dei missili lanciati dalla Siria confinante e dell’imbarazzo provato all’aeroporto turco di Gaziantep, Ferrara guida il lettore in visita al misterioso complesso di Göbekli Tepe, che ha scombussolato la linea del tempo storico perché in questo sito, databile a dodicimila anni fa, forse si trovano le tracce di una proto-scrittura. La filologa enuncia una tesi ardita: i santuari potrebbero non essere stati gli effetti della stanzialità ma la sua causa. Il desiderio di riunirsi per celebrare un rito “incentivava a fermarsi” (p. 163). Se così fosse, la scrittura non sarebbe nata per registrare le quantità di derrate alimentari in società divenute nel frattempo stanziali, ma da una vocazione all’astrazione dell’uomo che caccia e raccoglie, astrazione funzionale alla comunicazione tra individui che compongono una comunità. L’autrice rovescia i paradigmi e rompe gli schemi. Contrariamente ai modelli antropologici vigenti, attribuisce a una società pre-agricola e pre-economica la capacità di pensare e comunicare attraverso dei segni che formano una proto-scrittura. Come già si diceva, l’originalità del suo approccio sta nel considerare tutte le età contemporanee rispetto alla facoltà di immaginare attraverso astrazioni utili per comprenderci gli uni con gli altri, astrazioni che a Göbekli Tepe si mescolano con numerose immagini figurative. Uno dei problemi posti da questo sito archeologico è infatti quello del rapporto tra le immagini scolpite a basso e alto rilievo e i segni schematici ricorrenti, da alcuni studiosi interpretati come veri e propri segni di scrittura (p. 161).

 

Circolo di Göbekli Tepe, Şanlıurfa, Turchia / Particolare con animale scolpito ad alto rilievo su pilastro a T.


A questo proposito vale la pena richiamare uno studio di Paola Mola che potrebbe dare un contributo all’interpretazione del dialogo tra scrittura e scultura, accogliendo l’invito di Ferrara di lasciare ad altri il compito di interpretare il naturalismo delle statuine rinvenute in diversi contesti archeologici (p. 202). In margine a uno studio sull’iconografia dell’edera lobata, simbolo di Dioniso, Mola annota che il disegno della foglia, inciso su alcune lastre funebri (secoli II-I a.C. - II d.C.), svolge la funzione di segno epigrafico distinguendo, separando un gruppo di parole dall’altro. Questi segni “sostituiscono il punto come segno di separazione tra le parole”. Tra i primi segni epigrafici che separano gruppi di parole troviamo quindi le hederae distinguentes (non tra i primissimi: in iscrizioni anteriori al secolo V a.C. è attestato l’uso del tratto verticale e dei tre punti, usati per separare unità di breve estensione, e della linea orizzontale che segnala l’introduzione di un argomento nuovo). Questo segno d’interpunzione fissa nella scrittura un termine, un limite, come l’erma di Dioniso lo fissava lungo le strade, agli incroci e ai confini: separa campi all’interno della scrittura, annota Mola nel suo studio. Dioniso dirige la danza delle parole, imprime loro un ritmo fissando i termini nello spazio della lastra epigrafica, come l’erma posta al confine di una proprietà, lungo la strada o a un crocevia, fissa i termini dello spazio agricolo e urbano. Il simbolo dionisiaco e di qui ermetico trasporta nella pagina scritta un aspetto della scultura, nella fase in cui la tecnologia di scrittura e lettura inizia a subire una lenta ma graduale e progressiva trasformazione passando dalla scriptio continua a quella interrotta (Interrogativo sul Cuore, in Solchi, Anno III - Numero 1, febbraio 1999, Università degli Studi di Milano, p. 12). Lo studio documenta uno scambio tra scultura e scrittura, che trova nel concetto di campo e limite il suo centro. Il concetto di campo e limite è un concetto matematico. 

 

Anche se l’epoca dei costruttori di Göbekli Tepe è diversa, possiamo ipotizzare che la loro “mente moderna” abbia utilizzato un analogo insieme di rappresentazioni eterogenee costantemente interagenti tra loro. La stessa Ferrara rileva che “La scrittura è connessa ad altre invenzioni umane che già erano presenti e vive: arte, icone, simboli, segni astratti che ancora non avevano nome […] Non è un caso che il calderone dell’arte sia lo stesso dal quale sono stati pescati i primi segni di scrittura” (La grande invenzione, p. 237). Alla scrittura che registra i suoni delle lingue, alle lettere alfabetiche che trovano “la loro prima culla nelle immagini” l’autrice dedica il sesto capitolo (Il salto oltre) del suo libro. 

Dalla lettura del saggio di Ferrara traggo la conclusione che l’astrazione non ha mai reciso il suo rapporto con la figurazione che l’ha cullata e svezzata. Per capirci abbiamo bisogno di immagini insieme alle lettere scrive l’autrice. Attraverso l’incessante dialogo tra immagine e parola l’immaginazione esprime il suo massimo potenziale mettendo in moto gli “ingranaggi del pensiero di uomini e donne, primitivi, per chi ancora si ostina a usare questo termine, ma modernissimi” (Il salto, p. 210). Un pensiero astratto carico di sfumature, accenti e tonalità.

 

Il 5 dicembre scorso, durante la prima prova del Nabucco alla Fondazione Prada, nel contesto della settima edizione di Riccardo Muti Italian Opera Academy, Muti ha spiegato ai suoi studenti che il lavoro del cantante “è scolpire le parole” con sottolineature, accenti, tonalità. Riferendosi alla scena 1 dell’atto 1 del Nabucco, Muti ha precisato che in “Disperdi, distruggi d'Assiria le schiere” dopo “Disperdi” c’è una virgola e poi “distruggi” (lo ha pronunciato ruggendo), vale a dire che la pausa e la pronuncia portano sulle loro spalle il senso, aggiungendo che purtroppo molti “cantano senza pensare”. Rivolgendosi poi a una giovane direttrice d’orchestra che stava provando: “Pensa a quello che dici. La mano sinistra è l’espressione. Il movimento della bacchetta disegna la musica”. Ecco ancora una volta il gesto che richiama attraverso un disegno “tracciato nell’aria dal gesto di una mano” suoni e parole, in rapporto a una scrittura, quella di Giuseppe Verdi, da “leggere” e interpretare. 

 

Ho “sfarfallato” un po’ anch’io allo scopo di suggerire come la mente creativa operi simultaneamente su più piani trasformando un simbolo in un’immagine con un semplice atto linguistico oppure “motivando” i segni linguistici per trasformarli in simboli (Caterina Marrone, I geroglifici fantastici di Athanasius Kircher, Viterbo, 2002, pp. 116-121), nel contesto di una esperienza cognitiva che non ha reciso il suo legame con quella sensibilità che accompagna il gesto, con l’impronta lasciata dai polpastrelli su una superficie (dermatoglifo), punto di arrivo del viaggio di Ferrara all’origine dell’astrazione. “Quel che lasciamo indietro, lo lasciamo inevitabilmente avanti”. 

 

Segni ritrovati nella Grotta dei Cervi, Porto Badisco, Otranto / Keyboard con segni ideografici e alfanumerici.


Il libro di Ferrara parla dell'uomo paleolitico e neolitico per parlare di noi, del nostro modo di pensare attraverso immagini, che possono mutare in simboli e segni anche linguistici, come per esempio la mela morsicata di Apple, il cui senso oscilla tra un’interpretazione allegorica (frutto proibito della conoscenza), una logografica (il nome dell’azienda) e una fonetica (la parola “morso” in lingua inglese “bite”, essendo omofona al termine “byte” del linguaggio informatico, introduce un gioco fonetico). Giochiamo con le immagini rendendole cangianti, suscettibili cioè di mutare in segni o simboli e viceversa. Se trasformiamo il simbolo @ in un'immagine attraverso un atto linguistico (chiamandolo “chiocciola”) possiamo legittimamente sospettare che la “logica delle immagini” non sia irriducibile alla logica predicativa del linguaggio, come invece sostiene Gottfried Boehm, uno dei fondatori della Bildwissenschaft (scienza o teoria dell'immagine). La Bildwissenschaft costituisce un importante campo di ricerca transdisciplinare sull'immagine, ma le immagini producono senso e sapere solo attraverso una logica non-linguistica?

 

Un campo di ricerca transdisciplinare che sposti l'attenzione dalla visualità dell'immagine a quella della scrittura forse potrebbe aiutare a comprendere la cangianza delle immagini in un contesto tecnologico mediale dominato dal Touch, dal gesto codificato con il quale richiamiamo una fotografia dalla galleria dello smartphone per corredare il testo prima dell’invio. Diretto discendente delle impronte lasciate sulle pareti della Cueva de las Manos in Argentina, questo gesto comanda l’immagine e al tempo stesso coordina la sua relazione con il testo, svolgendo al contempo anche funzioni di calcolo. Secondo lo studioso di archeologia cognitiva Karenleigh Overmann, le impronte di dita ritrovate in diversi siti archeologici sono tracce di numeri. 

Il libro di Ferrara ci guida in un viaggio all’origine del pensiero astratto, dimostrando che le immagini disegnate sulle pareti della grotta di Chauvet in Francia sono più “grammi”, nel senso di segni, che “pitto” (p. 198), ma anche ricordando che il simbolo nasce “dal segno tracciato nell’aria dal gesto di una mano”, da un’esperienza corporea che ci radica nel concreto.

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