Readymade e pittura / Duchamp con Matisse

5 Novembre 2020

Calvin Tomkins è stato – ed è tuttora, compie 95 anni in dicembre, si legga l’intervista su Maurizio Cattelan, nel volume della collana “Riga” dedicato all’artista (Quodlibet, Macerata 2019) – un critico d’arte di grande sensibilità e qualità. Non di quelli più noti perché hanno cavalcato chiavi interpretative forti, bensì di quelli che hanno puntato sul rapporto arte-vita. Ha incentrato tutta la sua attività su “profili” o vere e proprie biografie, per riviste e collane editoriali. Di lui conosciamo in Italia il bellissimo Vite d’avanguardia (su John Cage, Leo Castelli, Christo, Merce Cunningham, Philip Johnson, Andy Warhol – Costa & Nolan, Genova 1983) e la splendida biografia di Robert Rauschenberg (Johan & Levi, Monza 2008).

 

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L’incontro con Marcel Duchamp è stato determinante, lo dice esplicitamente nell’intervista che introduce il volumetto appena uscito Marcel Duchamp. Le interviste pomeridiane (Postmedia, Milano 2020) – un’intervista, sia detto tra parentesi, che vale da sola il prezzo, come si suol dire. Ha capito subito che Duchamp non concepiva l’arte separata dalla vita e invece distaccata da quella che fanno credere che essa sia, senza polemica, come scelta, con convinzione e insieme humour (è Tomkins a sottolineare). Duchamp si presenta affabile e disponibile, fin dal primo incontro: “Mi sorprese davvero, e fui ben lieto che, nonostante le mie domande fossero ottuse e ignoranti – Tomkins non aveva una cultura artistica, all’epoca, 1959, era solo un giornalista curioso –, in qualche modo lui riusciva sempre a trasformare il discorso in qualcosa di interessante. Aveva dei modi incantevoli”. Da allora i due si frequentano con regolarità, fino a diventare amici. Tomkins viene incaricato da Time-Life di scrivere un volume su di lui – esilarante la scenetta del silenzio che cade quando Tomkins risponde ai redattori che non c’era problema per le immagini, le avrebbe chieste direttamente a Duchamp con cui aveva appuntamento il giorno dopo; i redattori credevano tutti che fosse morto da tempo!

 

Poi nel 1996 pubblica la grande biografia, ormai erano passati quasi trent’anni dalla morte dell’artista. Ebbene, durante il 1964, Tomkins registra una serie di conversazioni “pomeridiane” con Duchamp – l’aggettivo dice con humour, appunto, la tonalità ma anche il senso degli incontri – ma che non vengono mai pubblicate se non cinquant’anni dopo, nel 2013. Non sono una rivelazione, non ci si aspetti degli scoop, ma è l’ultimo Duchamp che risponde con confidenza a un amico e riracconta varie vicende della sua vita e ribadisce idee. Siamo in pieno clima Pop, Tomkins chiede molto sull’attualità e Duchamp non si sottrae, le curiosità che vi si troveranno alla lettura sono molte.

 

Marco Senaldi, che ha scritto la postfazione a questa edizione e che ha appena pubblicato una monumentale monografia su Duchamp (Duchamp. La scienza dell’arte, Meltemi, Roma 2019), evidenzia di Duchamp il trattamento del tempo, o “esperimento col tempo”, come lo chiama, e dopo averlo messo alla prova delle numerose interviste rilasciate dall’artista – di cui Senaldi ha recuperato quelle televisive e radiofoniche poco note e che non avevano fin qui ricevuto grande attenzione –, conclude giustamente che Duchamp ha fatto anche delle interviste delle operazioni artistiche. Non ci si poteva aspettare di meno da un artista del suo genere! Quale genere dunque? Si sa che a Duchamp viene imputata una progenie artistica che molti non amano. La chiamano “concettuale”, in senso anti-artistico; lo si accusa di avere rotto il vaso di Pandora dell’arte: ora tutto è arte, cioè più niente. Una storia polemica che dura da tanto, su cui si è giocata appunto l’opposizione con l’arte che resta attaccata ai valori estetici, alla pittura e scultura, alla bellezza.

 

Prima di affrontare la questione, evidenziamo a nostra volta un aspetto determinante di queste Interviste. Tomkins finisce la sua introduttiva con un’affermazione sorprendente e però lampante, che non lascia spazio a obiezioni, paragonando Duchamp niente meno che a Montaigne! “Vedo Duchamp come una specie di figura alla Montaigne”. Da parte sua Duchamp finisce le Interviste con un’altra affermazione forse non sorprendente ma tutta da meditare, e in perfetta sintonia con Tomkins: “Io non credo nell’arte. Credo nell’artista”. Penso che siano delle chiavi determinanti. Che cosa significa?

 

 

Come dicevo, Duchamp è da tanto imputato come responsabile di tanti sviluppi dell’arte contemporanea considerate delle deviazioni che molti respingono. L’uscita di un bellissimo volume sui libri di Henri Matisse offre il destro per tornare a rifletterci: Matisse. I libri, l’autrice è Louise Rogers Lalaurie, l’editore Einaudi. Gli otto libri d’artista che Matisse ha realizzato nella sua vita sono perfettamente e dettagliatamente descritti, contestualizzati, commentati. Le illustrazioni sono talmente numerose da rasentare la completezza. È un grande strumento e piacere per chi non si può permettere il lusso di possedere o la facilità di visionare le edizioni originali.

 

I libri di Matisse sono bellissimi, mai scontati, uno diverso dall’altro e conseguente all’altro, come un’opera a un’altra opera. L’artista vi ha profuso una quantità impressionante di invenzioni, instancabile, mai ripetitivo. È chiaro ed evidente che non si tratta di “illustrazioni”, che il lavoro di Matisse è, come avrebbe detto Argan a suo tempo, una “critica letteraria per immagini”, una lettura in punta di disegno. Il primo è una selezione di poesie di Stéphane Mallarmé, e la scelta del poeta è fortemente voluta da Matisse, proposta invece di quella commissionatagli dall’editore. È uscito nel 1932, realizzato nei due anni precedenti. Sono tutti disegni al tratto, senza sfumature, né tratteggi né altro. Il tratto straordinario di Matisse è una scrittura accanto e dentro la scrittura del poeta, evidentemente, che orienta la lettura – numerosi sono i disegni che fanno da enjambement, cioè, disposti sulla pagina di destra, di fronte alla poesia che è su quella di sinistra, in realtà rimandano alla poesia seguente, accompagnando il voltare della pagina e legando le due – e la interpreta per immagini, per arabeschi, per vuoti e pieni, per polisemie come Mallarmé fa con le parole e i suoni. Le sorprese sono frequenti: volti e figure rovesciate, a testa in giù, dettagli invece di scene, scene che non hanno direttamente a che fare con la lettera della poesia e il cui legame va scoperto altrimenti. E infine la selezione e il “montaggio” in sequenza delle poesie per costruire un percorso tutto proprio, matissiano.

 

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Poi per dieci anni Matisse non ne fa altri, mentre durante la guerra i libri sembrano diventare il suo interesse principale. Matisse è dichiaratamente pittoricamente in crisi, ma nel disegno è al suo acme e i libri sono lo strumento, anzi il dispositivo perfetto per farli “parlare” al meglio. Segue in effetti una raccolta, di nuovo un “montaggio” studiato di disegni, divisi per temi, intitolata Dessins, thèmes et variations. Sarebbe un libro di sole immagini, ma Matisse ha voluto condividerlo con Louis Aragon, che scrive un meraviglioso testo di accompagnamento e interazione, significativamente intitolato Matisse-en-France, quasi fosse una cittadina, alludendo all’identificazione di Matisse con la Francia, con la francesità. Sono gli anni della guerra appunto, anzi di Vichy e del collaborazionismo, come ricostruisce in dettaglio Lalaurie, quando tali questioni sono cogenti e tuttavia non se ne può parlare esplicitamente se non si è allineati all’ufficialità. Qual è la posizione politica di Matisse? Lalaurie ne discute con grande tatto ma precisione e decisione. I libri, anzi, sono per lei l’occasione per ricostruire tutto l’ultimo periodo di Matisse, dopo la malattia, il cambio di moglie e di città e di vita, nel contesto di un periodo storico pieno di eventi drammatici.

 

Troppo lungo sarebbe anche solo accennare a ognuno dei libri, i quali sono poi un “florilegio”, termine in cui risuonano i fiori, di poesie di Ronsard, il poeta francese dell’amore, una selezione di poesie di Charles d’Orléans, la Pasiphaé di De Montherlant, dove i disegni si rovesciano in bianco su nero, una scelta dai Fleurs du mal di Baudelaire, le Lettres portugaises di Marianna Alcaforado, fortemente volute da Matisse,  infine il capolavoro da tutti conclamato e arcinoto Jazz, realizzato con la nuova tecnica dei papiers découpés, carte ritagliate, il “disegnare con le forbici direttamente nel colore” che ha caratterizzato l’ultima produzione dell’artista, un’idea tanto semplice quanto geniale, se anche solo si pensa all’opposizione storica tra disegno e colore, decantato e rielaborato da più di una generazione di pittori dopo di lui. I testi, scritti a mano, cioè “disegnati”, sono questa volta dello stesso Matisse e contengono alcune delle sue dichiarazioni più ripetute dagli studiosi, a partire dalla prima, significativamente antinomica: “Chi vuole darsi alla pittura deve cominciare col farsi tagliare la lingua”. È la chiave, naturalmente, la chiave della non ingenuità e invece dell’acutezza dialettica di Matisse, della sua “contemporaneità”, vorrei dire della sua “avanguardisticità”.

 

Octavio Paz, come si ricorderà, ha lanciato una interpretazione dell’arte del XX secolo sulla contrapposizione tra Duchamp e Picasso: “Forse i due pittori che hanno esercitato maggior influenza sul nostro secolo sono Pablo Picasso e Marcel Duchamp. Il primo per le sue opere; il secondo per un’opera che è la negazione stessa della moderna nozione di opera” (Il castello della purezza). Da un altro punto di vista l’antagonista – o il coprotagonista, dipende da come lo si intende – di Duchamp potrebbe essere piuttosto Matisse. Picasso infatti è l’uragano, Matisse invece è la bellezza in pittura secondo una visione contemporanea. Ricordo ancora il giorno in cui nella sala di Matisse al Centre Pompidou mi sono proprio detto: “Ehi, se Matisse non è un grande artista siamo davvero fregati”, intendendo noi che amiamo l’arte contemporanea. Questo per dire che sono ben lontano dal parteggiare per un Duchamp schematicamente ridotto all’anti-artistico. Il tema è proprio questo.

 

Di Matisse, peraltro Duchamp ha sempre riconosciuto l'impor­tanza e l'influenza. Nell’intervista con Pierre Cabanne (Ingegnere del tempo perduto) ricorda addirittura: “L'avvenimento più importante per me è stata la scoperta di Matisse nel 1906 o 1907. [...] In ogni caso, fu durante il Salon d'Automne del 1905 (quello della famosa cage aux fauves) che mi venne l'idea di poter fare della pit­tura...”. Più dettagliatamente aveva redatto anni addietro la scheda di presentazione di Matisse per il catalogo delle opere della Société Anonyme, messa insieme per la collezionista Katherine Dreyer, sottolineandone il carattere di “pioniere”, che appartie­ne sì a un movimento ma mantenendo l'indipendenza e maliziosamente, credo, ma sapientemente, descrivendone non tanto la rivoluzione del colore che più comunemente gli si attribuiva, ma invece la deformazione anatomica e prospettica “in modo da poter introdurre ogni disegno giudicato idoneo a far risaltare al massimo i non-piani colorati inse­riti all'interno dei contorni intenzionali”. “Contorni intenzionali” è una sua tipica invenzione lessicale, quasi ossimorica: non i contorni come li intendiamo di solito, cioè realistici, “anatomici”, ma per esprimere un’intenzione. Non è una perfetta definizione del disegno contemporaneo, e matissiano in particolare? Matisse è appunto un artista che pensa disegnando – e anche dipingendo.

 

I suoi segni non seguono le forme che vedono né sono intese a restituire ciò che rappresentano, ma restituiscono il pensiero dell’artista a proposito di ciò che raffigurano. Maliziosamente potremmo dire che è un disegno “concettuale”, ma un pensiero, un concetto che non è astraibile dal segno stesso, e che è così convinto da accettare le disarmonie, i disequilibri, perché sa integrarli e recuperare su un altro piano. È questo a farne un pittore “contemporaneo”, non attaccato ai valori presunti stabiliti, non arroccato su prese di posizione. “Tagliarsi la lingua”! E Duchamp? With my tongue in my check, titolo come si ricorderà di un’opera del 1959, letteralmente “con la lingua nella guancia”, impossibile parlare senza stravolgere le parole, e senza suscitare il riso. È un’altra faccenda, certo, ma non così lontana, questo è il punto.

 

Infine, ironia della sorte, Duchamp passerà gli ultimi anni della sua vita circondato da quadri di Matisse, lo ricorda proprio nell’intervista a Tomkins, avendo sposato Teeny, divorziata dal figlio del pittore. Non si cerchi di immaginare Matisse circondato da opere di Duchamp, sono sempre i più giovani a trovarsi in queste situazioni.

Resta questo: i grandi artisti stanno lì a dire, al di là delle loro diversità, che la grandezza non sta da una delle parti, ma altrove. Non va bene chiamarla “vita”? Non va bene chiamarla “forma”? Come si vuole, ma è per rimandare a quel punto che è più in profondo, alla sorgente, a monte dell’estetica, della bellezza, del concetto. Ora io guardo Matisse con gli occhi di Duchamp e a sua volta anche Duchamp con gli occhi cambiati da Matisse.

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