Tre domande a Matteo Melchiorre

23 Febbraio 2012

La banda della superstrada Fenadora-Anzù (con vaneggiamenti sovversivi) è uscito nella scorsa stagione letteraria da Laterza ed è stata una delle sorprese più belle e una conferma del talento di Matteo Melchiorre (classe 1981), già autore di Requiem perun albero (Spartaco, 2006).


Abbiamo rivolto qualche domanda a Matteo che sarà oggi alla Libreria Utopia di Milano (ore 18.30) per inaugurare “Italia piccola”, un ciclo di incontri sulla realtà italiana organizzato dalla Libreria in collaborazione con doppiozero.
 

 
 



Qual è il motivo che ti ha spinto a scrivere la storia della costruzione di una superstrada, peraltro continuamente rimandata?

 

Perché il cantiere era sotto ai miei occhi, e perché sono convinto che l’osservazione del presente sia urgente, senza gerarchie in termini di luoghi, senza che i centri valgano più delle periferie. Scrivere è un atto civile, non una implicazione commerciale – come purtroppo, lo sappiamo tutti, avviene di norma.

Oltre a questa componente conoscitiva, però, c’è stata una componente emotiva. A me quella superstrada non andava giù, per ragioni di strategie viabilistiche e, specialmente, per come il paesaggio sia costantemente interpretato come null’altro che il campo di realizzazione di interessi d’impresa. Opposizione compulsiva, così chiamerei lo stato d’animo che mi ha spinto a scrivere.

 

 

Quanto di realtà e quanto di finzione c’è nel tuo libro e come sono impastati?

 

Realtà e finzione sono un intreccio continuo ma sempre l’una e l’altra si possono agevolmente distinguere (nel libro). La letteratura quella vera del resto, dovrebbe fare proprio questo, impastare realtà e finzione, produrre storie forse anche inventante nell’intreccio ma vere nella sostanza. Il resoconto, la cronaca, l’inchiesta – infatti – raggiungono e scandagliano certe tipologie di problemi, ma non tutti. Alcuni vanno raggiunti e analizzati e compresi  per il tramite del possibile, del verosimile, del potenziale. Alla base, tuttavia, ci deve essere, l’assoluta disciplina del non fare parole vuote, non inseguire retoriche prestampate nelle nostre menti di fruitori di comunicazione.

 

 

La tua forma di scrittura, il reportage narrativo di finzione, ha qualche esempio a cui ti rifai? E perché hai scelto di scrivere proprio in questo modo?

 

La forma di scrittura che ho scelto è quella che è perché è quella che so. Modelli ce ne sono fin troppi, ma è sempre bene pescare dai modelli puri. Così ti posso indicare senz’altro il modello dei modellli su come si descrive ciò che accade: Tucidide, La guerra del Peloponneso. Aggiungo Cechov – Cechov come modello stilistico di sobrietà e lucidità descrittiva (I Racconti) e Cechov come autore di inchieste in cui l’arte letteraria si stempera nel resoconto con benefici e reciproci effetti(L’Isola di Sachalin). Potrei dimenticare qualcosa, ma non voglio dimenticare assolutamente Luigi Meneghello, Libra Nos a Malo e I piccoli Maestri. E nemmeno - come potrei? - il mio amatissimo - e quanto amato! - Sebald (Vertigini su tutto, ma anche Austerlitz o le Alpi nel mare). Certamente non rientrano tra i miei modelli impastacci retorici quali Roberto Saviano e analoghe pseudo-inchieste che si uniformano invece a schemi narrativi propri di generi bassamente televisivi.

 

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