Pensieri sul silenzio

25 Febbraio 2013

Silenziare l’antipolitica

 

Uno degli aspetti che più mi ha colpito della campagna elettorale 2013 in Italia, che ho osservato muta e solatia da terre assai lontane, è il paradosso stilistico della cosiddetta antipolitica. L’antipolitica espressa dal richiamo diretto al popolo – o populismo – di Beppe Grillo, che vorrebbe opporsi e contrapporsi alla politica stessa, la quale, nella sua forma più sintetica e squisitamente democratica, è parola. Il “parlamento” è il luogo in cui, grazie al procedimento democratico, invece di spararsi si parla, ci si accorda, si delibera e si decide democraticamente. Grillo non contrasta questa politica con il suo opposto, un garbato ed educato silenzio, o con parole sussurrate elegantemente sottovoce; Grillo grida, urla e sbraita; io vincerò, smania, perché grido più forte di te. E giù grida e ululati e singhiozzi.

Ma perché non fai silenzio per una volta, mi viene da pensare, taci e pensa; rifletti e medita, in silenzio. Anzi, iscriviti all’Accademia del Silenzio, partecipa alla Maratona del Silenzio, impara a fare silenzio e a diffondere la cultura del silenzio, rieducati al silenzio!

 

 

Rompere il silenzio

 

Al silenzio della voce, il tacere, per usare espressioni più proprie, e al silenzio dei suoni, il silere dei latini, per il quale l’italiano non ha un termine. Parliamo ora un poco, davvero poco – per quanto ciò sia paradossale –, scriviamo – va già meglio – un poco di silenzio, partendo da questa bizzarra Accademia (da un’idea, si dice, di Nicoletta Polla-Mattiot e Duccio Demetrio, due intellettuali silenziosi ma non di poca rilevanza) e dalla collana su cui stanno infilati come perle i libretti sul silenzio pubblicati da Mimesis edizioni di cui sei sono già usciti e altri tra non molto seguiranno. Scriviamo di tacere degli uomini e di tranquillità dei luoghi silenti, beni primari che molti, che ci tenevano, hanno perduto a causa di altri, che li hanno a loro volta perduti ma non sembrano farci caso. In alcuni casi prevalgono fattori inarrestabili – ci dicono –, come il frastuono del progresso; dall’altra, prevale soltanto la prepotenza di chi riempie di musica di sottofondo, annunci pubblicitari, notizie o altro, gli spazi chiusi in cui si viene a trovare l’ignaro cittadino-cliente-consumatore-paziente-viaggiatore, ma anche gli spazi aperti di una pista di sci o del bordo di una piscina. Di chi è quello spazio al quale si ruba il silenzio, o quel poco di esso che era rimasto? Privato? Pubblico? Comune? Forse giusto nel primo potrò quel che voglio, se ne sono il padrone; negli altri due casi padroni e proprietari che decidono chacun pour soi non ce ne sono.

 

 

Silenzio bene comune

 

Il silenzio è un bene comune molto delicato; è come un pascolo o una fungaia o una fonte d’acqua, sì, dove se io mi approprio sregolatamente della più parte del bene, ne tolgo agli altri il godimento (gli economisti chiamano questi beni “rivali”).

Come nel caso dei beni comuni tradizionali (acqua e pascoli) e dei nuovi beni comuni della conoscenza, “non rivali”, studiati da Elinor Ostrom, di cui oggi non a caso ci si occupa molto, anche il silenzio torna a ridestare attenzione man mano che lo si perde; talvolta non soltanto a causa di una generica diffusione di rumori  industriali e urbani, ma proprio perché qualcuno che del silenzio è fobico gira una manopola, schiaccia un pulsante e lo distrugge, per sé e per gli altri. Qualcuno che non ama il silenzio e che impone le sue preferenze, perché non è vero che il silenzio lo amiamo tutti e ci dispiace perderlo.

 

 

I portatori di silenzio

 

Sono, coloro che lo amano, I portatori di silenzio, come dice il titolo di uno dei libretti-perle della collana, del poeta Stefano Raimondi? Il silenzio dei poeti è diverso dal silenzio dei filosofi, dei mistici, dei sociologi, degli scienziati o dei musicisti. Per Raimondi si tratta del luogo nel quale il silenzio “ha luogo”, trova posto, un posto dove crescere in intensità e mostrarsi nel suo silenzioso biancore. Il silenzio è il luogo in cui si può abitare allontanandosi dalla chiacchiera che lo stupra e lo offende, a cui occorre silenzio per farsi largo, farsi spazio e luogo.

Che il silenzio sia un luogo, un contenitore, un ricettacolo attraversato talvolta, rotto quindi, da suoni e parole? Uno spazio torpido, in penombra, immobile, statico, forse persino un po’ stolido; uno spazio ovattato e acquatico dove entra, spezzandolo, la parola che esce dal tempo, la parola/suono mobile, veloce, penetrante? Vedo che sto spostandomi verso quello che sarà il mio intervento, tra questi svariati sul tema del silenzio, che quando sarà pubblicato mi impedirà di parlare da esterna, mi chiederà silenzio. È meglio allora ch’io taccia già da ora.

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