Quarant’anni dopo / Terremoto in Friuli

2 Maggio 2016

Una vecchia foto in bianco e nero: due sorelline inquadrate in un piano americano, la minore con cappottino chiaro davanti alla maggiore con cappottino più scuro; dai fazzoletti annodati sotto il mento spuntano una frangetta e una ciocca bionde. La più piccola ha un’espressione imbronciata, non pare contenta di essere immortalata dall’obiettivo: inquieta, ha disatteso l’ordine di star ferma, lo scatto l’ha colta mentre piega il gomito destro tagliandone di netto la mano. La maggiore (quella con la frangetta), più ubbidiente, è in posa con un sorriso imbarazzato, il braccio sinistro lungo il fianco e le dita della mano semi chiuse. Doveva essere stata una bella giornata di fine inverno: strizzano gli occhi per il sole in faccia. Sullo sfondo incombe il versante roccioso di un monte e a sinistra, dietro la spalla della piccola, s’intravede una vigna spoglia e una casa dall’architettura anni sessanta. Nessuna scritta sul verso, non i nomi, né l’anno, né il luogo. Ma non servono. 

 

 

Conservo questa immagine da quasi mezzo secolo, so chi sono quelle bambine, posso ricostruire l’anno in cui sono state fotografate, e so qual è il paese. Un paese distrutto dal terremoto del 6 maggio 1976. Gemona del Friuli era per me un toponimo legato a un incontro d’infanzia mai dimenticato, ma che a lungo ha rischiato di rimanere confinato al fondo della memoria. 

Ho conosciuto Daniela in una colonia estiva romagnola, un’istituzione ormai scomparsa ma che allora consentiva al proletariato contadino o artigiano, che nemmeno nell’Italia del boom economico partiva per le vacanze con la famiglia, di mandare per qualche settimana i figli al mare o in montagna.

 

 

 

Eravamo bambine tra i dieci e gli undici anni, gli anni tra il 1969 e il 1971: la colonia estiva era interdetta al compimento del dodicesimo anno. Partivi dal paese con la tua prima valigia, le iniziali e il numero di riconoscimento stampati e cuciti sugli indumenti, ignara che il viaggio in corriera era la vera vacanza. Poi arrivavi in questi casermoni dove dormivi in grandi camerate, mangiavi cibi insipidi, e il bagno era affare di minuti regolamentati dal fischietto delle istitutrici, le “signorine” in camice bianco. Un mese di disciplina da collegio, in cui il mare si guardava. Te ne tornavi a casa dai genitori, convinti che il cambio d’aria ti aveva fatto bene alla salute, con la fotografia di te in costume intero, cappellino di paglia a fianco della signorina di turno e la dedica: «Perché guardandola ti ricordi le vacanze trascorse al mare con noi».

 

Il ricordo sbiadiva rapidissimo. Non il volto di un compagno, non il piacere dell’acqua salata (per me che mi bagnavo in quelle grevi del lago), non quello di giochi o momenti particolari. Difficile stringere amicizie in un ambiente così governato e in così breve tempo. Tornavi e benedicevi la regola del dodicesimo anno. Invece, proprio in quell’ultimo anno la incontrai, infelice lontano dai suoi, spaesata, sola. E dolcissima. Non so bene cosa ci attrasse reciprocamente. So solo che ci dispiacque lasciare la colonia. Ma arrivammo a casa con in tasca un indirizzo a cui scrivere. A lungo le lettere corsero (si fa per dire) tra il suo paese friulano e il mio franciacortino; in una ci infilammo anche le fotografie con le rispettive sorelle minori. Poi, improvvisamente, più nulla. Il silenzio calò tra noi con fragore terribile. Il terremoto, che alle 21,06 della sera del 6 maggio 1976 colpì con la prima scossa il Friuli, ebbe come epicentro il gruppo del monte Chiampon e – ai suoi piedi – Gemona, il comune più disastrato. 

 

Quel terremoto, per la mia generazione, arrivò nel pieno della giovinezza e della contestazione: quelle scosse che nel Friuli orientale fecero crollare case e spezzarono centinaia di vite minarono anche le nostre velleità ideologiche, ci costrinsero a gesti concreti, ai fatti, non bastavano le parole non servivano le discussioni. Fummo trascinati da un’onda emotiva impensabile il giorno prima, le nostre assemblee, i collettivi, i gruppi di lavoro si svuotarono, molti partirono volontari. Partì anche il mio ragazzo di allora e sperai che mi portasse notizie non funeste della mia amica. Ma nulla ne seppi più e, ogni tanto, dal fondo del cuore, sommessa saliva al pensiero la domanda «chissà che ne è stato di lei». 

Ma questa è una storia a lieto fine.

 

 

 

 

Quarant’anni dopo Daniela mi ha ritrovato. E senza ricorrere ai social! Non vi sto a raccontare per quali strade, dopo quali depistaggi, una nuova lettera mi è giunta qualche mese fa, non è importante. Anche se un’altra fotografia, l’unica che obtorto collo circola in rete (quella della rubrica Clorofilla), ha pure avuto un ruolo nell’agnizione. Più importante è stata la volontà di Daniela di ricostruire non solo il paese, una casa, una famiglia, ma anche quel legame lontano a cui io avevo rinunciato. 

 

Sono stata a Gemona, finalmente. E quel toponimo ha preso consistenza. Ho rivisto Daniela e ritrovato i suoi occhi chiari, il sorriso mite, ho conosciuto i figli e il marito Emilio che, miracolosamente, quella sera, dopo la partita di calcio, dal terzo piano si è trovato ad uscire dalla casa di uno dei compagni di squadra come fosse al pianterreno. Sono discesa lungo via Bini, che conserva ancora i portici medievali e le facciate delle antiche case sventrate, e sono entrata nel bel Duomo di Santa Maria Assunta, vanto della comunità, che chiude il paese; ho percorso il sentiero scosceso sotto il monte fino al luogo dove sorgeva la casa dei suoi. Sono entrata nel più commovente e vivo dei monumenti alla memoria, la Mostra Fotografica Permanente, dove giorno e notte, a ciclo continuo, si proiettano le immagini della catastrofe. E sono stata al cimitero, dove le molte vittime hanno trovato, dopo una prima provvisoria inumazione, una sepoltura degna, come si suol dire, lì tutte insieme come insieme sono morte sotto le macerie. Sono passata davanti a decine e decine di fotografie, anche a quella di Anna, una cugina di Daniela: fissano volti sguardi sorrisi di quegli anni travolti, come le nostre scambiate allora, uniche sopravvissute dell’epistolario.

 

Quel terremoto, si sa, fondò anche un’epica della ricostruzione e consolidò il mito dei friulani operosi e tenaci. E tenace la mia amica lo è stata, lo è.

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