Tito Livio

29 Agosto 2015

Poeta della storia, questa è la definizione che fu data di lui, in un passato non troppo lontano. Lui è Tito Livio. Quasi che questo austero cavaliere padovano, che ha scritto sotto Augusto, avesse scoperto, prima del giovane Croce (La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte) e prima anche di Hayden White, la funzione estetica dello scriver storia, o storie. Come se quest’uomo, dedito unicamente alla compilazione dei suoi  cento e quarantadue libri Ab Urbe condita (dalla fondazione di Roma), si fosse potuto permettere il lusso di contraddire Aristotele, che pretendeva vi fosse un’insanabile contraddizione tra lo storico “che narra ciò che è avvenuto” e il poeta che parla di “ciò che potrebbe avvenire”.

 

A me, nel mio piccolo, Livio, nei suoi trentacinque libri superstiti, è sempre parso, più che altro, un indefesso creatore di figure da sussidiario. Sì, proprio quel libro delle scuole elementari in cui si trovava un po’ di tutto, anche, un tempo, i grandi eroi della Storia Romana. Muzio Scevola che, fallito l’attentato a Porsenna, stende la mano destra sul braciere acceso per il sacrificio, pronunciando la famosa sentenza: et facere et pati fortia romanum est (fare e soffrire grandi cose è da Romano). Orazio Coclite che difende da solo il ponte Sublicio dall’assalto dei nemici e poi si tuffa nel Tevere con corazza e tutto il resto e, sotto la pioggia di dardi, nuota indenne fino a riva. Impresa di cui Livio stesso arriva ad insinuare la scarsa attendibilità: rem ausus plus famam habituram ad posteros quam fidei (osò un’azione che presso i posteri avrebbe goduto più fama che credito).

 

E poi i re. Con le loro alternanze, regolate da una misteriosa dialettica. A Numa Pompilio, per esempio, insigne per pietà e giustizia (inclita iustitia religioque), segue il bellicosissimo Tullo Ostilio. Se quello aveva, dopo Romolo, rifondato in certo senso il regno, ancorandolo a tutta una serie di rituali religiosi, desunti anche da civiltà limitrofe, questo trascinò Roma in una serie infinita di guerre e fu lo spietato carnefice del traditore albano Mettio Fufezio, fatto squartare da due quadrighe di cavalli lanciati al galoppo in direzioni opposte. E mentre Numa era stato un esecutore di cerimonie religiose quanto mai scrupoloso, Tullo morì fulminato da Giove Elicio proprio per l’incuria manifesta esibita nel corso di un sacrificio (sed non rite initum aut curatum id sacrum esse).

 

Né possono esser tralasciate le imprese dei condottieri. A cominciare da quella di Furio Camillo. Che sbaragliò Veienti e Falisci ma fu poi esiliato, come Temistocle, dal popolo irriconoscente. Salvo poi venir richiamato in fretta e furia, per vendicare Roma dall’onta subita dai Galli invasori di Brenno, e dalla batosta patita al fiume Allia. Camillo sapeva che la vittoria si compra col ferro, non con l’oro dei riscatti (ferroque non auro reciperare patriam iubet). Vinse e recuperò le insegne. L’onore di Roma era salvo. Che i fatti non si siano svolti effettivamente così, come appurarono già eruditi settecenteschi quali il Beaufort, non significa nulla. Per un poeta della storia conta più una bella leggenda che una realtà assodata. Hic manebimus optime (qui staremo benissimo) disse un centurione nella piazza del comizio, e i senatori romani decisero che Roma sarebbe rimasta a Roma, secondo la volontà di Furio Camillo, e non si sarebbe trasferita nella deserta Veio, né altrove. Un’altra bella e significativa leggenda, meticolosamente registrata da Livio. Lasciando il tempo favoloso delle origini per approdare all’epoca della seconda guerra punica, ci si imbatte in una figura assai più mossa e chiaroscurata, quella di Quinto Fabio Massimo, il celebre Temporeggiatore (Cunctator). Questo Kutuzov dell’epoca repubblicana evitava accuratamente il combattimento in campo aperto col nemico cartaginese. Fabius per loca alta agmen ducebat modico ab hoste intervallo, ut neque omitteret eum neque congrederetur (conduceva l’esercito per luoghi alti e montuosi, tenendosi a discreta distanza dal nemico, in modo da non abbandonarlo e al tempo stesso da non venire alle mani). La tattica dilatoria, fondata su azioni che oggi diremmo di guerriglia (et parva momenta levium certaminum), diede ottimi risultati, e Fabio Massimo, generale taoista ante litteram, ebbe ragione dei suoi numerosi critici. La sua fu una cunctatio sollers, un’esitazione attiva.

 

Livio è affascinato dai grandi del passato, storico o leggendario, di cui narra le gesta esemplari. Benché scriva in quello che è considerato l’apogeo della storia romana, l’epoca augustea, nuova età dell’oro, per lui, in realtà, il culto del passato non è altro che una fuga dalle miserie del presente. Fa un po’ specie seguirlo in quest’amara confessione, cui si abbandona nella sede più esposta, il prologo all’opera: questo compenso vorrò alla mia fatica: distogliermi dallo spettacolo dei mali dell’età nostra (ego contra hoc quoque laboris premium petam, ut me a conspectu malorum, quae nostra tot per annos vidit aetas… avertam). Ma non sono solo gli eroi e i grandi fatti indigeni, a colpirlo. È davvero singolare che sia sempre lui, il cantore della romanità originaria, a darci dettagliatissime notizie sull’avvento, a Roma, dei principali culti stranieri, di quelle forme di religiosità esotica che tanto meravigliarono le menti di Catullo e Lucrezio, cioè i rituali della dea Cibele e quelli dionisiaci.

 

La dea Cibele, la Grande Madre degli dei e degli uomini, signora delle fiere, arrivò a Roma nel pieno della seconda guerra punica, all’epoca dei consoli Marco Cornelio Cetego e Publio Sempronio Tuditano. I Cartaginesi avevano portato la guerra sul suolo italico e piovevano pietre dal cielo e s’erano visti due soli di notte e tre lune di giorno e una striscia di fuoco s’era distesa da oriente a occidente, a Terracina, mentre a Lanuvio un boato seguito da orrendi fragori aveva scosso il tempio di Giunone Sòspita. Bisognava ricorrere al soccorso della dea straniera, giunta da lontano, dalla Frigia, da Pessinunte. Solo la più pura tra le matrone la poteva accogliere degnamente. Fu scelta Claudia Quinta, discendente del troiano Clauso. Il popolo mormorava che non fosse così casta come avrebbe dovuto (dubia, ut traditur, ante fama). Ma fu solo lei che, a dispetto delle malelingue, riuscì a disincagliare dalle secche della foce del Tevere la nave che portava il simulacro della dea. Riuscì a tirare la fune come se tirasse un filo di lana e la nave la seguì, docile, come i leoni del seguito di Cibele. La dea, in forma di pietra caduta dal cielo, fu collocata nel tempio della Vittoria, sul Palatino, e mai tempio fu più appropriato, perché, di lì a poco, i Romani si risollevarono e sconfissero il nemico cartaginese.

 

Dioniso arrivò a Roma un po’ più tardi, all’epoca dei consoli Spurio Postumio Albino e Quinto Marcio Filippo. Il suo culto fu introdotto da un crotoniate ignoto o sibarita o siceliota. Era un sacerdote e indovino, esperto di sacrifici (sacrificulus et vates). Ma fu una donna, una campana di nome Annia Paculla che trasformò il culto del dio: cinque volte al mese, coperti e accompagnati dal rumore assordante di nacchere e sonagli, accoppiamenti rituali in suo onore avvenivano nei boschi della dea Stimula (o Semele), presso l’Aventino. Mai la fantasia umana, e nemmeno quella divina, s’era sbizzarrita a tal punto nel reperire le più stravaganti figure dell’amore. Migliaia di donne e di uomini sperimentavano un’insolita felicità in quei sacri boschi sull’Aventino. I consoli, avvisati da un’oscura prostituta di nome Ispala Fecenia, stroncarono sul nascere questi culti perniciosi, con ogni mezzo, perché non c’è niente di più ingannevole di una falsa religione (nihil enim in speciem fallacius est quam prava religio).

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