Speciale
Parole per il futuro / Avvenire
Spesso l’architettura è stata qualcosa come un’immagine realizzata del futuro. Non solo ha mostrato il destino da cui ci si supponeva attesi, ma ha anche inteso realizzare questo destino avveniristico nel presente delle sue costruzioni. È forse questo il motivo per cui i giornali hanno recentemente dato grande risonanza al fatto che a breve la Nakagin Capsule Tower – un edificio composto da due torri nell’esclusivo quartiere di Ginza a Tokyo, non lontano dalla stazione di Shinbashi – verrà smontata. La torre è costituita da moduli che ricordano delle lavatrici ammassate le une sulle altre. Sono capsule ovvero mini-appartamenti dalle dimensioni ridottissime di meno di dieci metri quadrati. Un tempo struttura d'avanguardia architettonica, capace di comporre la tradizione del futon con la tecnologia più innovativa di quei primi anni ’70, quando fu costruita, la Nakagin Capsule Tower si trova oggi in uno stato di forte degrado che ha condotto al suo abbandono.
Esistono indubbiamente superfici che sprigionano la loro potenza evocativa solo quando risplendono, quando nuove di zecca appaiono fatte di un’assenza di tempo che le rende quasi magiche. Eppure è proprio su tali materiali che il tempo pare imprimersi in maniera particolarmente crudele. Si respira aria di anacronismo da queste parti, quando il futuro non è come ce l’eravamo immaginato. Quella della torre di Ginza voleva essere un’immagine eterna del futuro, come se la sua architettura ipermoderna potesse fungere da esorcismo laico rispetto ai timori del mondo a venire, creando un tempo sempre uguale a se stesso, un futuro sospeso nella sua atemporalità. Voler essere sempre attuali ha significato essere sempre più avanti del presente, fuggirne le angosce. È singolare quanto invecchi in fretta questo strano futuro senza futuro. E non è senza sorpresa che oggi constatiamo come una certa visione del futuro appaia quasi arcaica.
Michelet lo diceva bene: ogni epoca sogna sempre la successiva. La nostra ha provato anche a realizzarla architettonicamente. Del resto, l’Occidente ha spesso guardato al futuro come se potesse liberare il presente dei suoi limiti o dei suoi errori, in una sintesi perfetta di pensiero tecnologico e di pensiero magico o scaramantico. Questo connubio ha prodotto delle rovine singolari. Non sono più le rovine vetuste dell’antichità, ma hanno la forma di avanzi inassegnabili a un’epoca. Benché si riconosca facilmente l’impronta degli anni in cui furono costruite, appartengono in un certo senso a un futuro sognato, a una proiezione ideale. E nella metratura ristrettissima delle capsule la tecnologia finisce per fungere da supplemento o da consolazione per la cancellazione o la minimizzazione del corpo umano, che una simile visione di futuro porta con sé.
È invecchiato, il futuro immaginato. In un certo senso è invecchiato più velocemente dello stesso tempo cronologico. Attorno a sé non lascia che relitti. Naturalmente la tentazione, oggi, è di fare a meno di questi relitti, un po’ infantili e anche naïf. Ci ricordano troppo da vicino l’ingenuità di certe serie tv di quegli stessi anni, ambientate nella galassia. Il futuro della Nakagin Capsule Tower è come quello di un’astronave spiaggiata nel nulla: un resto perfettamente anacronistico in un paesaggio urbano complesso da decifrare. Per questo motivo non dovrebbe essere abbattuta: nella storia gli anacronismi fioriscono e possono essere presi come fonti di luce che da lontano ci indicano qualcosa di ciò che siamo stati e di ciò che ancora siamo e forse anche di ciò non saremo mai. Singolare è che in molti paesi – la Cina in testa – si abbatte il passato in quanto resto anacronistico rispetto alla formidabile avanzata di un’industrializzazione da cui ci si aspetta evidentemente molto.
Ci si aspetta il futuro stesso e la prosperità promessa. Qui invece si abbattono le reliquie di un futuro immaginato che non ha funzionato o che quanto meno non ha funzionato così come ci si aspettava. Non solo i moduli della Nakagin Capsule Tower si sono deteriorati, quando il tempo ha fatto la sua comparsa sulla superficie asettica di un’immagine, una volta che aveva preso forma nel cemento armato. Soprattutto il futuro aveva un avvenire che non era stato calcolato, perché era ed è in effetti incalcolabile. Questo avvenire che si insinua dentro le cose, che vive perfino dentro le nostre vite, mostra come il tempo non sia solo una faccenda di un calcolo, ma di nuovi accadimenti che inavvertitamente, ma indiscutibilmente deviano la rotta della nostra navicella, come quella dei nostri desideri.
Se il futuro invecchia, e male a volte, esso ci appare come eroso dal suo interno, da un movimento che lo svuota, non concedendo altro se non il vuoto simulacro di una forma presto superata dagli accadimenti. Questo non è che l’ultimo dei sintomi che oggi ci informano come il futuro sia di fatto assente o, per lo meno, costellato di assenze. Sia per l’accelerazione del tempo e dei suoi processi, sia per un nostro difetto di immaginazione e un corrispondente eccesso di paura, l’inafferrabilità del futuro ha raggiunto oggi livelli notevoli. E questo ha indubbiamente una sua portata epocale.
Pensiamo solo al fatto che tutta la politica novecentesca ha trovato la propria legittimazione nel rimando al futuro: nell'epoca post-teologica non più il passato, ma il futuro è stato la vera referenza che giustificava gli sforzi del presente in vista d'altro, di meglio: un illuminismo tecnologico o tecnocratico delle massime sorti e progressive. A quel riferimento al futuro si chiedeva di non abbandonare il presente alla sua contingenza ovvero alla sua insignificanza, destinandolo ad altri e maggiori orizzonti. Non occorre neppure che siano orizzonti di gloria: il solo fatto di sapere che ci sono o che ci saranno altri cieli e altre stelle, rassicura il presente nella sua costitutiva precarietà.
Ora questo riferimento al futuro è divenuto abbastanza introvabile, minacciato com’è da ogni parte. La scomparsa di futuro è il vero contrassegno di un'epoca che si è definita post-ideologica e che oggi si incarna nelle peggiori pieghe del biologistico. Il negazionismo anti-covid, in tutte le sue forme, ne è il sintomo più eclatante e più assordante. Singolare che il negazionismo, un tempo rivolto verso il passato, risalga ora la corrente e si installi nelle condizioni di vita presenti. Singolare che la sua avversione contro il presente venga fatta valere, a sua volta, in nome di un futuro immaginato come il luogo in cui gli effetti dei vaccini o delle restrizioni presenti mostreranno il loro vero volto, che non può che essere diabolico. Qui il futuro ha smesso di essere la sorgente di nuova energia e non mostra più il volto del progresso, ma solo il riflesso di un’angoscia senza fine.
Per questo è così complicato oggi impegnarsi a fondo in questioni come quella ecologica o della sostenibilità ambientale, che implicano uno sguardo più lungimirante. È più semplice ricorrere all'orizzonte apocalittico. Nell'immaginario hollywoodianamente ispirato l'apocalisse pare restare l’unico riempitivo di un vuoto epocale – un riempitivo efficace, benché alla lunga tristissimo. Certo, la vicenda della sostenibilità ci mostra, con le decisioni discordanti di India e Cina, come non abitiamo tutti lo stesso presente e come non tutti ci immaginiamo il futuro allo stesso modo. Forse tornare al presente, lavorare sul presente, significa inventare un avvenire che non sia un futuro immaginato. Significa indugiare su un modo che somiglia a quello del futuro anteriore: il tempo dell'esitazione. Se ciò che viene è l'avvenire, in questa esitazione ciò che viene potrà essere di nuovo l'oggi?
Si parla tanto di individui atomizzati. Ma, come Epicuro e Lucrezio ci insegnano da qualche millennio a questa parte, la caduta degli atomi è di per sé puramente verticale e senza possibilità d’incontro. Serve un clinamen ovvero un’inclinazione, un qualche vento che li spinga turbinosamente gli uni verso gli altri. Può essere questa esitazione la nuova inclinazione che permetta di incontrarsi realmente, di scostarsi per un lungo istante da questa lunghissima caduta libera e tentare, se non di prendere forma in comune, almeno di disegnare una figura di una nuova vita?
Cosa può tracciare per noi la figura di un nuovo clinamen? Forse paradossalmente ce ne dà un indizione quella qualità delle cose che le torri Nakagin provano a evitare a ogni costo e che, contemporaneamente, subiscono nella maniera più brutale: l’invecchiamento. Già il surrealismo riconosceva l’energia posseduta dalle cose invecchiate. Che lezione c’è per noi in questo pensiero? Occorre investire non sul nuovissimo, ma forse proprio su ciò che può invecchiare. Affinché un avvenire si produca occorre procedere nel tempo in tutte le direzioni, non solo in un’immaginaria fuga in avanti.
Occorre investire su ciò che è capace di portare su di sé il tempo non per una questione di utilitarismo economico, ma perché le cose che attraversano le generazioni sono capaci di futuro, come non lo sono i prodotti del nostro immaginario desiderio di futuro. Solo ciò che porta su di sé le tracce di uno dei nostri tanti passati, è capace di avvenire. Solo allora riusciremo a compiere quel passaggio che una volta Walter Benjamin ha indicato con la sua abituale lucidità, in Strada a senso unico, come il solo miracolo telepatico che fosse auspicabile: “Tramutare la minaccia del futuro nell’oggi realizzato”. Quest’arte di invecchiare e di maturare, delle cose come delle situazioni, è un’immagine fragile, ma più giusta, di ciò che siamo e di ciò che saremo.