Ragionando sulla catastrofe di piazza San Carlo / Bun sì cujun no
«Riesci a respirare? Vedi?» chatto alle 20.54 di sabato 3 giugno 2017 al mio figlio sedicenne da casa, «Ahahah si» mi risponde alle 21.03. Un genitore, quando il figlio comincia a girarsene da solo in città con il suo smartphone, all’inizio è molto apprensivo: cerca di localizzarlo in modo onesto, senza spyware, cerca di sapere dove va, con chi va, cosa fa, quando ritornerà. Ha paura che venga travolto da un’auto mentre legge su WhatsApp una delle chat dei suoi dieci o venti gruppi, pensa che possa essere derubato o accoltellato. Ma se ha un buon rapporto con lui, può diradare, sapere più o meno qual è la banda con cui esce, quante birre più o meno berranno, e quanti spinelli più o meno si faranno. Lo lascia andare per il suo mondo, per la sua città, con il suo branco, perché sa che la sua città, Torino, Italia, 3 giugno 2017, grosso modo ha un basso tasso di possibile strage terroristica. Non è Parigi, non è la Francia, non è Londra, non è il Regno Unito, ma sa che poi ci sono la Norvegia e le stragi in un ritiro di ragazzi laburisti, e uno studente impazzito che mitraglia in un liceo americano… Cerca di non farsi divorare dal panico quotidiano, che ha sostituito o che si accompagna molte volte al pane quotidiano per cui molti di noi si battono ogni giorno.
Così, come cantava Noel Gallagher degli Oasis, io il 3 giugno mi rilasso e « I'm gonna start a revolution from my bed», perché nella politica credo ancora, ma preferisco la politica dell’amore, in due in un letto abbracciandosi e accarezzandosi, perché l’amore che si espande da me in un altro, e agli altri, e al cosmo, è molto più forte e persistente di ogni contingenza politica e di ogni egoismo.
Alle 22.30 di sabato 3 giugno 2017 squilla il mio, di smartphone: è la suoneria personalizzata che ho riservato a mio figlio sedicenne; quando tuo figlio è fuori con gli amici, e ti telefona, c’è qualcosa che davvero non quadra. Mi sfilo dall’amore e lo sento senza fiato, con la voce roca, «Pa’ c’è stato un attentato in piazza San Carlo! Sto scappando! Sto correndo verso casa! Sono tutti impazziti! Sono scappati tutti! Dicono che è una bomba, che hanno sparato! È un massacro! È pieno di gente a terra, ne ho dovuti scavalcare correndo, c’è sangue dappertutto!». Dopo pochi minuti citofona: si è fatto di corsa più di due chilometri, è un atleta ma i polmoni gli stanno scoppiando mentre cerca di capire cosa è capitato.
Ma cosa è capitato è una catastrofe civile: piazza San Carlo, nel cuore barocco di Torino, può contenere secondo la Questura sino a 45.000 persone gomito a gomito. Accendo SkyTg24 e comincia la diretta: nessuno sa niente, nessuno capisce niente, né quella sera, né nei giorni successivi. Un giudice indaga da sette giorni, ma non è ancora chiaro cosa ha originato tre successive spaventose ondate di panico che hanno schiacciato in ogni direzione i 30.000 ragazzi (della Juve e non della Juve: mio figlio è del Toro come il figlio di Bonucci), che erano lì per una serata davanti al grande schermo televisivo dove si trasmetteva dal Millennium Stadium di Cardiff la finale di Champions League di calcio tra Real Madrid e Juventus. Al 3-1 del Real la piazza è muta di afflizione. Quel silenzio è stato il principale fattore ambientale che poi, per un petardo forse, per uno stronzo che ha spruzzato i vicini di spray urticante al peperoncino, per non si sa tuttora cosa, ha scatenato una tempesta perfetta di panico nella folla.
Ma tutti, tutti quei 30.000 hanno ormai come noi nel sangue l’ordinaria adrenalina che ci fa scattare a correre quando può toccare a noi che un militante seguace dei tagliatori di gole del Daesh ci abbia scelto per quel minuto di quel giorno in quella piazza di quella città.
Poco dopo lo schermo di SkyTg24 si taglia in due, perché parte la diretta dal London Bridge di Londra: un altro furgone lanciato contro la “normale folla di cittadini occidentali in festosa serata”, altri militanti Daesh che balzano giù e tagliano gole sino a che il poliziotto più vicino non li trasforma in kamikaze morti.
Quella sera ho sentito allargarsi dentro di me e dentro di noi una sensazione immensa, troppo vasta per ragionarla, di disfatta morale. La piazza svuotata, una distesa di bottiglie di vetro rotte, di scarpe perdute, zaini perduti, occhiali rotti, sciarpe usate come bendaggi.
Quindi, nelle ore e nei giorni successivi, chi era lì ed è diventato uno degli oltre 1.500 feriti, chi non era lì e aveva figli e amici lì, chi era lì come mio figlio e non sapeva più niente dei suoi amici e dopo un’ora riusciva a fare il censimento, e a conteggiarne uno al Pronto Soccorso con i piedi e le ginocchia e le braccia tagliate dai vetri di birra venduti abusivamente nella piazza sin dal pomeriggio, giorno dopo giorno ha cercato di sapere qualcosa di quel puzzle impazzito.
Sono passati sette giorni, e la paura poco per volta è diventata indignazione per la inaudita leggerezza organizzativa di Città e forze di polizia, commozione per gli 8, poi 5, poi 3 che erano in coma in fin di vita (una donna rischia ancora di morire perché ha il torace sventrato dalla calca), poi sbalordimento per l’apparire il giorno dopo della sindaca Appendino in un paio di minuti di dichiarazione, che con la permanente fresca e di ritorno dalla tribuna di Cardiff, il volto robotico e inespressivo, la voce a-patica e inespressiva, dichiara le prime parole dello “Stato” cui solitamente noi affidiamo i nostri figli in uscita nel mondo limitrofo: «Circa i fatti accaduti ieri sera in Piazza San Carlo a Torino durante la proiezione su maxischermo dell'incontro Juventus-Real Madrid, ove la folla presa dal panico e dalla psicosi da attentato terroristico, causati da eventi in corso di accertamento da parte dell'Autorità Giudiziaria, ha lasciato precipitosamente la piazza con danni causati dalla calca, le attività di soccorso poste in essere nell'immediatezza hanno consentito allo stato di medicalizzare 1527 persone di cui 1142 a Torino e le restanti negli Ospedali limitrofi…»
Da quel momento la questione è diventata anche politica: chi non è del M5S come la sindaca ne ha chiesto la testa, anche tutti i partiti all’opposizione che al ballottaggio dell’anno scorso l’avevano votata pur di far cadere la testa al sindaco PD Piero Fassino. Il Ministro degli Interni Minniti (PD) si reca a Torino e verifica eufemisticamente «che qualcosa non ha funzionato nella prevenzione e nelle garanzie di sicurezza»; poi l’ex sindaco PD della Città, Chiamparino, ora Presidente della Regione Piemonte, appare in tv e dice che «qualcuno dovrebbe almeno avere l’umiltà di scusarsi per il poco fatto nel senso della prevenzione e della sicurezza». E si arriva a venerdì, quando il Prefetto di Torino Saccone (il cui capo è il Ministro degli Interni) decide o viene invitato a decidersi a fare lui le prime scuse: «Io sono il responsabile generale dell’ordine e della sicurezza pubblica e quindi rientro tra le persone che devono chiedere scusa. Però guardando al futuro, e imparando da questa lezione così dura. In questo momento non si sa che cosa abbia innescato il panico, perché alla base c’è un “non fatto” che rende il tutto ancora più difficile da prevedere e da gestire».
Così, una settimana dopo, racconto quella notte, in cui il riquadro sinistro del televisore mostrava un vero attentato terroristico a Londra, con veri morti, e tanti veri poliziotti e vere ambulanze, mentre il riquadro destro mostrava un non-vero attentato terroristico a Torino, con alcuni quasi-morti, 1.500 ragazzi tagliuzzati e insanguinati, pochi poliziotti, una sola ambulanza, e un Sindaco molto molto diverso dal Sindaco di Londra Khan (di fede islamica), che appare subito in televisione per farsi portavoce di empatia, di incoraggiamento, di commozione, di resistenza, di coraggio, di solidarietà intorno agli ultimi veri valori che rimangono nelle persone più che in tanta politica e tanto stato: il ragazzo immigrato del Ghana che insieme a un alpino italiano si gettano a proteggere il bambino cinese calpestano dalla calca, facendolo respirare e portare in ospedale; i ragazzi di buon senso che allineano le scarpe abbandonate e i telefonini persi perché qualcuno possa ritrovarli; i pochi cittadini residenti nella zona che aprono i loro portoni quando ragazzi terrorizzati citofonano implorando di aprire, e che li confortano poi nella loro casa con un bicchier d’acqua e un abbraccio (come è accaduto a Manchester e a Londra nei recenti attentati)…
Mio figlio si è sentito in colpa per giorni perché «pa’ scappando ho dovuto calpestare gente caduta»; ma solo io gli ho parlato: né un sindaco, né un altro adulto, né uno dei pochi poliziotti che lasciavano bonariamente entrare i ragazzi con gli zaini pieni di birra perché “siamo tutti tifosi e stasera non c’è pericolo”.
In Francia, in Inghilterra, la consuetudine con l’imprevedibile morte improvvisa per terrorismo ha denudato l’unico nocciolo che ci permette di non impazzire d’odio, rabbia, angoscia: la solidarietà, la compassione, la capacità di “non guardare indietro con rabbia”, ma ancora avanti con la certezza che i valori della vita sono la bellezza della creatività e la dolcezza degli abbracci.
Una settimana dopo quella sera anche la sindaca M5S di Torino Chiara Appendino ha trovato la lucidità e la calma per inviare una lettera aperta ai cittadini, pubblicata da "la Stampa" il 10 giugno: «Ad essere ferita è un'intera città, che per la prima volta ha conosciuto su se stessa gli effetti di un clima di instabilità globale e crescente incertezza, pur in assenza di un evento terroristico...» E ancora: «Per ogni persona a terra c'è n'erano due che la rialzavano. Per ogni ferito c'era uno sconosciuto che lo medicava o lo proteggeva. Per ogni grido di paura c'è stata una voce a tranquillizzare... Un sindaco, però, rappresenta un'intera comunità... per questo desidero porgere le mie scuse a tutte le persone coinvolte».
Anche il Pubblico Ministero Antonio Rinaudo dopo una settimana forse ha trovato un principio del perché: dopo il terzo gol del Real qualcuno avrebbe urlato insulti contro i giocatori della Juventus, e un gruppo di ultras avrebbe reagito con lanci di oggetti e un principio di rissa... di lì rumori strani, secchi... forse petardi... di lì le ondate di terrore nella folla.
Ariana Grande, al cui concerto sono morti ragazzi per terrorismo, si è ritrovata pochi giorni fa a Manchester con Chris Martin dei Coldplay, e ha cantato con migliaia di ragazzi protetti in quell’assembramento pubblico da molti poliziotti molte ambulanze molti controlli e bicchieri di plastica per la birra, Don’t look back in anger degli Oasis. ONE LOVE era il motto, e da questa vicenda spero che mio figlio esca con la convinzione che ci si salva la pelle senza fare del male agli altri, aiutando gli altri.
Verità e amore hanno sempre portato guai agli uomini che l’hanno praticata e predicata. Jesus in Matteo 10;16 dice «siate prudenti come serpenti e semplici come colombe». I Legnanesi, in un loro magnete, scrivono «Bun sì, cujun no». E i monaci buddhisti cinesi, a furia di prendere bastonate dai briganti impararono la difesa non-offensiva, ovvero le arti marziali con mani e bastone.
Poiché ci restano amore, prudenza, semplicità, ma non passività cogliona alla indifferenza di tante donne e uomini di potere o alla ferocia assassina di terroristi assassini che hanno letto poco e male il Corano, io concludo ricordando con simpatia l’episodio di quell’hooligan che a Londra, urlando «fuck off! sono del Millwall!» (squadra di calcio della seconda divisione inglese), si è scagliato a mani nude contro gli accoltellatori per prenderli a cazzotti, rimediando varie coltellate. «Estote parati» ha tra l’altro detto Jesus: «Siate pronti», tenete accese le lanterne, perché la morte può cogliervi in ogni momento, ed è più bello morire in umana condivisione. Magari con un buon corso di karate o krav maga ebraica per i mala tempora che currunt. «Non mettere la tua vita nelle mani di una rock band» cantavano gli Oasis: non deleghiamola più neanche noi nelle mani di qualche anaffettivo. Restiamo uniti.