Mito e caduta dei Lehman Brothers
Trilogy. Trilogia: come la forma scelta da Eschilo per narrare della vicenda degli Atridi. Una vicenda che ha bisogno di dilatarsi in una struttura di monumentale grandiosità per raccontare il destino di una comunità intera. Anche quella dei Lehman, del resto, è la storia di un genos: una storia dai molteplici risvolti giuridici, etici, sociali in senso lato. Lo sa bene il drammaturgo Stefano Massini, laureato proprio in Lettere Classiche, e scelto da Luca Ronconi per la produzione di punta del Piccolo Teatro di questa stagione, Lehman Trilogy. È chiaro fin da subito che né a Massini né a Ronconi interessa uno sguardo documentaristico o da teatro civile: chi si aspettava una speculazione sulle ragioni del crack finanziario del 2008, corredata da nomi e numeri, non può che rimanere deluso.
I 160 anni della banca Lehman Brothers raccontano la trasformazione di un’epoca, non diversamente da come i Buddenbrook di Mann fotografano lo snodo tra Otto e Novecento; ma a differenza di quanto accade nel familienroman, in questa trilogia teatrale la dimensione simbolica, quasi trascendente, prevale sull’affresco sociale. Drammaturgia e regia operano in questa prospettiva in una visibile comunanza di intenti: entrambe dilatano e allo stesso tempo sfoltiscono la materia della cronaca fino a renderla rarefatta come quella della parabola religiosa, essenziale come quella del mito. Per articolare il lungo percorso storico – che dal negozio di vestiti del capostipite Henry Lehman in Alabama conduce al colosso finanziario di New York di inizio secolo – Massini lavora per episodi: ognuno di questi ha come titolo una parola in Yiddish (in omaggio alla matrice ebraica della famiglia), in tedesco (ricordo d’Europa, terra di provenienza), o in inglese (l’America, approdo definitivo). La singola scena, pur evidentemente connessa con l’ampia architettura di insieme, è sempre dotata di valenze e funzioni proprie, come il comparto di un polittico. Non sono pochi i rimandi e le simmetrie che legano i diversi capitoli: “Shivà”, il lutto, torna più volte a interrompere il ritmo degli eventi. Il rito funebre – sempre osservato dalla famiglia Lehman con particolare cura, ultimo residuo di umanità in una corsa sfrenata verso in guadagno – è infatti la chiave per leggere l’intero spettacolo: la trilogia tutta è un “grande requiem”, un estremo saluto ai protagonisti della storia (che non a caso continuano a comparire anche dopo morti), all’impresa-Titano fondata e poi estinta, e infine a un intero mondo.
De Francovich, Popolizio, Gifuni, ph. Marasco
Poiché il cuore del racconto non sono i singoli individui ma l’intera comunità, Massini non lascia spazio a psicologismi: i personaggi, come nell’epica, sono marcati da un epiteto, un segno esteriore fortemente riconoscibile capace di rimandare a una caratteristica interiore. Ecco allora che i fratelli fondatori sono identificati da un attributo, proprio come Achille-piè veloce: Henry Lehmann-la testa (Massimo De Francovich), Emanuel Lehman-il braccio (Fabrizio Gifuni), Mayer Lehman-patata (Massimo Popolizio). La drammaturgia gioca a reiterare con piccole variazioni l’accostamento tra il personaggio e il suo epiteto: da Omero in poi, il narratore sa che il pubblico ama poter aggrapparsi a qualcosa di noto, specialmente quando l’arco del racconto è così ampio. E se il ritratto del singolo uomo è abbozzato con tratto volutamente schematico, la progressione della discendenza (come si addice a una trilogia tragica, dove le colpe dei padri ricadono sui figli) è invece ricostruita con particolare cura: la generazione dei padri (Henry, Emanuel, Mayer) è caratterizzata da una cauta e ponderata inventiva; i figli Philip (Paolo Pierobon) e Herbert (Roberto Zibetti) da un controllato desiderio di potere, che si trasforma pian piano nell’ossessione della vittoria; mentre l’ultimogenito Robert (Fausto Cabra) è schiacciato dalle responsabilità e dal peso del proprio arrivismo.
La regia di Ronconi cavalca la parabola discendente disegnata da Massini, mettendo sotto gli occhi degli spettatori una degenerazione dai connotati quasi metafisici: alla luce limpida che accompagna Henry Lehmann mentre dipinge l’insegna del primo negozio, subentrano le atmosfere febbrili, fosche, malsane che avvolgono Philip e Robert. Le due parti dello spettacolo, fruibili separatamente o nella stessa sera, hanno dunque registri differenti. Nella prima (senz’altro più riuscita) domina l’ironia controllata dei tre Lehmann, i lazzi garbati, i commenti caustici su quell’America sempre straniera, un compiacimento per i successi che non supera mai un contenuto fair play. Poi i personaggi vengono lanciati sulla superficie di un piano inclinato, dove fermarsi è impossibile: il ritmo dei dialoghi si fa concitato, i successori Lehmann sudano, si angosciano, dormono sonni tormentati o non dormono affatto. Le porte si aprono e si chiudono in un’atmosfera ormai del tutto onirica, si susseguono spari, gli antenati si manifestano in sogno, i visi degli interlocutori diventano lividi e spietati. La macchina dei soldi è partita, e travolge qualsiasi cosa si pari davanti, persino chi l’ha attivata: è il capitalismo, bellezza.
ph. Marasco
Allo spettatore vengono lasciati da decifrare simboli, parole, rimandi biblici, nessi storici e le quasi cinque ore di spettacolo – va detto – si sentono tutte: quasi la materia fosse davvero troppo ampia per essere compressa in una manciata di ore. Ma è altrettanto chiaro che ci si trova di fronte a un’opera di altissima qualità, da affiancare senza ombra di dubbio alle più importanti produzioni del Piccolo Teatro. Vale il costo del biglietto anche solo la squadra di attori, di eccellenza assoluta: se altrove (per esempio in Celestina) Ronconi accosta abili mattatori a interpreti meno convincenti, non di rado schiacciati da troppa ‘scuola’, in Lehman Trilogy vengono messi in campo solo fuoriclasse. Popolizio, Gifuni, e Pierobon sono in stato di grazia: ed è solo la punta dell’iceberg. Altrettanto notevoli le scene minimali del pluripremiato Marco Rossi: un disegno asettico ed essenziale di sedie, tavoli, insegne. Come accadeva in Sogno di una notte di mezza estate (2008, scene di Margherita Palli, regia di Ronconi) anche qui è la parola a farsi scenografia: le insegne dell’impresa Lehman sono l’unico tratto descrittivo di un ambiente senza tempo, di un luogo che vuole essere un ‘ovunque’, di un’America che è qui e ora.
Dario Del Corno scriveva, a proposito dell’ Orestea “la tragedia porta sulla scena un remoto fatto del passato, ma lo rivive nella meditazione e nella discussione della realtà presente”. Riuscire in un simile obiettivo non è cosa da poco.
Lo spettacolo sta in scena al Piccolo Teatro Paolo Grassi di via Rovello fino al 15 marzo, alternando i due atti, con alcune giornate di “maratona”, secondo questo calendario.