Montagne / L’epica dello scavo del Monte Bianco
Fronte di scavo, pubblicato a febbraio da Einaudi, è un libro che intreccia l’evento epocale del traforo del Monte Bianco, con le vicende umane dei protagonisti. L’epica di quell’impresa era già nei fatti, grandi per obiettivi e riuscita: procedere dai due fronti opposti della montagna, sino al loro congiungimento. Un cammino materiale e morale, individuale e collettivo, narrato dall’autrice, Sara Loffredi, con scrittura limpida, con stile essenziale, preciso, tecnico dove necessario. Quando fu inaugurato, era il tunnel stradale più lungo d’Europa, 11 chilometri e 600 metri; per realizzarlo occorsero 1.500 tonnellate di esplosivo, 200mila metri cubi di calcestruzzo e 235mila bulloni: collegò Courmayeur e Chamonix, l’Italia e la Francia. Vi persero la vita ventitré uomini, quattordici operai sul versante italiano, sette sul versante francese, e due guide italiane, scomparse tra le cime durante le attività preliminari di triangolazione.
I lavori iniziarono nel 1959 e i due fronti di scavo si fusero nell’agosto del 1962. Si avverò così la profezia di Horace-Bénédict de Saussure, lo scienziato e alpinista che giunse in vetta al Monte Bianco nel 1787, un anno dopo i primi salitori, e riuscì per primo a misurarne l’altezza: “Giorno verrà che sotto il Monte Bianco si scaverà una strada, e queste due vallate, quella di Chamonix e quella di Aosta, saranno unite”.
La difficoltà principale riguardò l’imponenza di forti getti d’acqua che iniziarono a fuoriuscire dalla montagna dopo i primi 400 metri di sbancamento, a volte cascate di mille litri al secondo. Si dovette quindi organizzare un grande lavoro di pompaggio verso l’esterno, contestuale all’avanzata del traforo, dapprima salendo, per far defluire l’acqua naturalmente, poi scendendo, per colmare il dislivello con la minor altezza dello scavo francese. Scorrendo verso l’uscita, quel fiume d’acqua arrivava a volte a mezzo metro di altezza. Quei getti incutevano paura, lasciavano presagire crolli e inondazioni improvvise. Nessuno aveva mai traforato quella montagna di granito, nessuno poteva avere certezze su cosa avrebbero trovato, nessuno poteva garantire che un crollo non potesse un giorno seppellire tutti.
Il libro della Loffredi pone un’attenzione rispettosa al lavoro, alla sua etica, che permette di inserirlo in quel rado filone narrativo che va da La chiave a stella di Primo Levi a Come si fanno le cose di Antonio Bortoluzzi.
Ecco un breve passo del libro che rende l’idea del tono narrativo, forte e agile, utilizzato per descrivere il lavoro sul fronte di scavo:
“Ci tappammo le orecchie.
L’aria ci investì, ci travolse mentre il boato veniva amplificato dall’eco della caverna e dalle grida dei non addetti ai lavori, impreparati all’entità di quel frastuono.
Mi trovai Hervé tra le braccia, si era girato e mi si era buttato contro ridendo, poi subito andò verso altri, i suoi più stretti, mentre ancora il gas rendeva l’aria irrespirabile e oscurava le lampade; trovai in tasca il fazzoletto ma bastò qualche istante e gli aspiratori pulirono tutto.
Eccolo qui, il tunnel del Monte Bianco. La parete di tre metri aveva ceduto nel punto più alto e sotto si ergeva un cumulo di detriti, eppure il passaggio c’era. Si intravedevano movimenti e ombre dall’altra parte e l’istinto fu quello di gettarci in avanti, per scalare quell’ultima roccia infranta ma non si poteva ancora, il materiale era mobile e andava messo in sicurezza. Rimanemmo fermi, impazienti, ipnotizzati dai nostri uomini concentrati nel lavoro più importante, l’ultimo”.
Come nella vita reale, la storia del traforo s’intreccia ai sentimenti e agli accadimenti degli uomini e delle donne che lavorano nel cantiere. Non sono lì per scoprire la montagna e goderne la bellezza, e nemmeno per sfruttarla a fini di arricchimento. Mentre sono impegnati nel loro lavoro la presenza della montagna incombe però su tutti, con il suo incanto e la sua potenza, a volte terribile, come quando si tramuta in valanga, e uccide alcuni operai. I soccorsi furono guidati dalla grande guida alpina Gigi Panei, che riuscì a salvare un operaio seppellito da molte ore sotto la neve.
A fungere da prisma narrativo, che compone e rifrange i tanti angoli di prospettiva di questa storia, è la vicenda di Ettore, ingegnere, che arriva da Milano con un carico di dolori, di sensi di colpa verso il fratello malato, con una vita incompiuta alle spalle, che non conosce le montagne ma ne apprezza la bellezza. “Pensai a Giovanni. Non vedevo mai mio fratello, eppure si stagliava nella mia vita come quelle cime: la sua presenza immutabile e ghiacciata riempiva tutto lo spazio, tanto che a me non ne rimaneva poi molto”.
È un ingegnere competente, deciso a fare bene il proprio mestiere, ed entusiasta all’idea di partecipare a un’impresa epica: non per la competizione con i francesi, una gara di velocità che avvenne realmente, ma per la necessità di superare le grandi difficoltà dello scavo e congiungere due nazioni passando all’interno della montagna più alta d’Europa.
C’è una storia d’amore in questo libro, Nina è un personaggio femminile appassionato e al tempo stesso razionale, anche lei ha un passato difficile, con ombre e ambiguità che la rendono tanto interessante quanto sfuggente. Anche quando le pagine raccontano di lei, incombe l’ambiente naturale in cui si trovano a vivere i personaggi: “Nina mi fissava: i suoi occhi erano scuri e vasti, una valle immersa nel buio ma costellata di piccole luci, case abitate”.
Emergono forti anche la solidarietà tra gli uomini che parteciparono all’impresa, un sentimento legato alla comunanza di obiettivi e di sentire, e la diffidenza, il rispetto, la competizione nei rapporti personali.
Ettore è una persona apparentemente distaccata, ma non esita a impegnarsi nel conoscere meglio la montagna e gli uomini che lì sono nati, come il capocantiere Hervé, con il quale intreccia un legame di stima reciproca e di leale rivalità. Sale con fatica e curiosità i sentieri del Monte Bianco, sino al Pavillon, ma anche quelli della Val Sapin, nascosta e ancor oggi di una bellezza selvaggia. Non si tira indietro neppure con Nina, nonostante siano entrambi oppressi da ombre e rimorsi: “Avevo vissuto in apnea tutta la vita, perdendo pezzi che non erano più recuperabili. Non le sarebbe mai bastato ciò che ero. Non bastava neppure a me”.
Tra i personaggi, due sono realmente esistiti: il geometra Pietro Alaria, noto per aver svolto rilievi topografici su molte cime del gruppo del Bianco, assumendosi grossi rischi personali, e l’ingegner Dino Lora Totino, colui che per primo, sin dal 1946, promosse la Compagnia per il Traforo e stese un progetto. Il personaggio di Samiel, è invece frutto d’invenzione narrativa: si tratta di un rabeilleur, una sorta di guaritore che con le mani aggiusta slogature, distorsioni e forse anche mali dell’anima.
Sara Loffredi ha una lunga esperienza come editor in una casa editrice giuridica e due romanzi alle spalle, La felicità è in un altro posto, pubblicato da Rizzoli nel 2014, che prende spunto dal terremoto di Reggio Calabria del 1908, e Non sarà sempre così, edito da Piemme nel 2017. Fronte di scavo è pubblicato da Einaudi con una suggestiva immagine d’epoca, peccato che la seconda di copertina non ne riporti l’origine: si tratta della foto di una grotta all’interno di un iceberg, scattata durante la British Antartic Expedition del 1911.
Questo suo ultimo libro evidenzia il raggiungimento della piena maturità stilistica: la storia si dipana con chiarezza e velocità, la conoscenza dello scavo non appare mai didascalica, è invece sempre funzionale alla narrazione, la personalità dei personaggi si dipana plasticamente dai fatti e dalle parole, e la storia emoziona.
Sono assenti i difetti di parte della narrativa italiana degli ultimi anni: l’eccesso di autoreferenzialità, il vocabolario limitato, l’insistenza su eventi soggettivi privi d’interesse, gli svarioni storici, l’assenza del tema del lavoro. In una vicenda che racconta la riuscita di un’impresa difficile e di imponenti proporzioni Sara Loffredi rinuncia alla fin troppo abusata parola “sfida”, che ritroviamo una sola volta nel libro e non riguarda il tunnel.
Ben venga un’autrice dalla scrittura chiara, che sa raccontare fatti ed emozioni con precisione e abilità di incastro. Che studia la storia e i documenti, e li traduce in scrittura fluida. Non resta in attesa passiva dell’ispirazione, prima approfondisce con cura eventi e nozioni tecniche, e poi lavora di cesello sulla scrittura e sui personaggi.
In questo libro la grande storia e quella dei piccoli uomini che ne determinano le sorti è un fiume narrativo che corre incalzante verso la conclusione: il successo del fronte di scavo e la realizzazione del tunnel. Le vicende personali lasciano segni profondi e conclusivi, ma non tragici, perché sono la libertà di scelta e il saper accettare le decisioni altrui che rendono civile e accettabile il nostro vivere inquieto.