La Grande Pelle / Basta stare in superficie?

4 Luglio 2016

Un tocco e via, siamo “touch” come i nostri schermi, ci sfioriamo e organizziamo i nostri comportamenti guardando alle superfici, le altre superfici che ci circondano. Non è che siamo superficiali, è che i tempi che abbiamo a disposizione per le nostre vite sono troppo condizionati dall’accumulo di impegni. L’arrembaggio quotidiano non ammette troppi approfondimenti, gli attacchi alla nostra stabilità economica, sociale, psichica, devono essere respinti ora e qui, senza lente sedimentazioni. Fissate le nostre priorità (donne/uomini, motori, il prossimo, abbigliamento, lavoro, sport, figli, istruzione, far soldi, la letteratura …) tutto il resto è sbrigato in velocità, con poca partecipazione, scarsa riflessione, se non insofferenza e irritazione. Non è affatto facile accudire la profondità di ogni aspetto dell’esistenza. Come dire, è la realtà che ci spinge verso la superficie. E se Hegel aveva ragione a dire che “non c'è niente di più profondo di ciò che appare in superficie”, forse è il caso di indagare.

 

Essere superficiali è una questione solo personale, dei singoli individui che accettano o decidono di essere dei cattivi investimenti per gli altri a causa del loro poco spessore. È che la superficie sembra esercitare un vero magnetismo su tutti, e che abitare la superficie nel nostro mondo è nei fatti una prassi comoda e diffusa. Diciamo che siamo tirati su.

 

Se accetto di giocare con quel poco che percepisco dal mondo saturo di comunicazione senza recepirne le articolazioni (fino a pensare che un migrante sia comunque terrorista-e-islamico), se l’indefinizione dei fenomeni diventa la cifra del reale sociale in cui vivo (fino a pensare che l’onestà sia intrinsecamente contro destra e sinistra), se posso concepire l’idea che uccidere per davvero in fondo non è una cosa così lontana dalle mie possibilità concrete (anche perché le movenze teatrali di quell’atto le ho televisivamente “sussunte” fin dalla tenera età), se tutto ciò è mio, che posso fare in una intera società così determinata?

 

Il mantenersi alla superficie è fatto sostanzialmente di una limitata consuetudine allo scambio di contenuti e di una conseguente mancanza di elaborazioni. Se anch’io, come i molti in questa società, aderisco nell’esercizio quotidiano a questa modalità di relazione, allora significa che la superficie in cui sono trattenuto è il mio tramite autentico, la grande pelle di cui sono rivestito e con la quale sto nel mondo, attraverso la quale vivo. Non è l’esteriorità, che sarebbe maschera e copertura di qualcosa d’altro, ma una soglia, un limes oltre il quale non vale più avventurarsi. Basta stare in superficie.

 

C’è un tratto epocale che fa della superficie quasi un luogo di elezione: è come se avessimo accettato il fatto che di più non si può fare, che le nostre forze oltre non si possono spingere e che non fruire abitualmente (e quindi perdere) abilità preziose come, ad esempio, la memorizzazione, il calcolo, la complessità linguistica, la capacità di analisi, non sia poi tutto questo problema. In fondo, l’organizzazione sociale protegge le nostre vite quotidiane con le sue complesse articolazioni e, tutto sommato, per vivere “banalmente” non ci vuole molto, no? Non sarà che la superficie è diventato un luogo in qualche modo confortevole?

 

Si vive la paradossale condizione di stare alla superficie delle cose anche se poi uno nel chiuso della sua persona non è affatto superficiale e questo innanzitutto a causa dell’eradicazione dal recente passato: è un momento storico in cui gli ancoraggi dei saperi (scientifici, etici, politici) sono diventati con assoluta evidenza instabili e risulta più facile accomodarsi (praticare la mimesis) piuttosto che tentare di elaborare nuove idee insieme al prossimo. La motivazione all’aggregazione sociale è fiaccata. Le istanze di emancipazione dei tre-quattro decenni passati sembrano fuori corso. I comportamenti collettivi sono sempre più un abbandono ai flussi informi (imitativi, appunto) della società e la fragilità dell'“individuo parziale” si dispiega prevalentemente in superficie, nei contatti. L’educazione sessuale di un adolescente, la formazione di un’opinione politica, la comprensione di un fenomeno sociale (i migranti, la fenomenologia gender), tutto si svolge tra persone “di superficie”, tutto diventa una dinamica tra superfici.

 

Cambourakis, 2015

 

Filippo La Porta nel suo Gli indaffarati (Bompiani 2016) mi pare abbia ben evidenziato la prevalenza del fare sul pensare quotidiano dei giovani. Quasi che, rifletto, i giovani d’oggi siano destinati, come categoria sociale, a una specie di ritorno all’adultità rude delle società in cui i giovani non si potevano permettere un’età di mezzo per crescere, ma dovevano presentarsi al mondo già cresciuti.

Cosa c’è di più epidermico del contatto nel web? Di recente una ricerca dell’ong Vox-Osservatorio sui diritti condotta con le università di Milano, Roma La Sapienza e Bari ha mostrato come l’insulto in rete passi “quasi sempre per la dimensione corporea e l’atto fisico, con un processo di disumanizzazione per tenere chi si sta insultando il più lontano possibile da sé” (Silvia Brena).

Io guardo te che guardi lui che guarda me. In orizzontale, in una grande pianura piatta. Ma questa superficie non è la frontiera che regolamenta il traffico tra un dentro e un fuori dell’individuo, quello che Freud chiama “barriera di contatto” (a partire dalla quale Didier Anzieu definirà il suo Io-pelle), piuttosto è la soglia su cui ci si arresta, alla quale si decide di appartenere, diventiamo soglia e ci relazioniamo con le altre superfici-soglie.

 

Rifaccio la domanda: non sarà che la superficie è diventata un luogo in qualche modo confortevole? È più bello stare al sole sulla superficie del prato tra i fiorellini profumati invece che scavare tra le misteriose insidie della profondità geologica. E osservare il mondo in orizzontale, vivere tra superfici. In fondo veniamo al mondo grazie al tatto, cioè grazie alla pelle. Come dice William Merriwether, lo scienziato protagonista di Le figlie degli altri di Richard Stern, “Un centimetro di pelle umana contiene due macchine sensoriali per il freddo, dodici per il caldo, tre milioni di cellule, dieci peli, quindici ghiandole sebacee, un metro di vasi sanguigni, cento ghiandole sudorifere, tremila cellule sensoriali all’estremità delle fibre nervose, quattro metri di nervi, venticinque punti cutanei sensibili alla pressione per gli stimoli tattili, duecento cellule nervose per registrare il dolore. Questa fantastica fabbrica è la nostra superficie. Non c’è da meravigliarsi che i nostri sentimenti siano così esposti. Abbiamo il cuore in mano” (Calabuig, 2016, p.62).

 

E allora, preso atto della superficializzazione, bisogna forse provare anche a considerare la “piattezza” non un ostacolo, ma semplicemente un altro punto di vista. Se gli “individui parziali”, pensiamo innanzitutto ai molto giovani, ordiscono trame nuove e diverse, grazie la loro stare alla superficie, se moltitudini di individui della società complessa si muovono nei fatti grazie alla loro volontà di superficie, allora parlare per concetti ridotti, conoscenze accennate, e muoversi solo con abilità di base, deve per forza diventare una necessità, una nuova necessità. Bisogna parlare la lingua della superficie, dell’“individuo parziale”. Per la società kantiana in cui ancora siamo, si impone uno sforzo enorme.

 

L’azione è, credo, già ampiamente nella consapevolezza dei big brothers della rete, lo è meno nelle “formazioni discorsive” politiche (le pratiche sconclusionate ma momentaneamente vincenti del M5S lo dimostrano, e le crisi degli altri partiti lo dimostrano in negativo) e culturali. Non sarà che la superficie è diventato un punto di forza? Nella Flatland di Edwin Abbott (1884) era la benefica irruzione della terza dimensione della sfera a sconvolgere l’ingiusta società degli esseri bidimensionali.

Prima che tutto finisca in una nuova medievalizzazione globale, cioè una ricostituzione di gerarchie socialmente opprimenti per la maggioranza degli individui, non facilmente reversibile, forse è il caso di correre (correre!) a capire le moderne superfici. 

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