Norman Manea. Il rifugio magico

8 Febbraio 2012

Il nuovo romanzo di Norman Manea, Il rifugio magico (Il Saggiatore) offre al lettore una vertigine di stupore e intelligenza e al recensore regala anche la scelta della chiave di lettura da individuare. Si tratta infatti di un libro dalla complessa stratificazione tematica, in cui la biografia dell’autore e la sua profonda sensibilità si intrecciano con la storia contemporanea e con una vasta cultura letteraria; fin dall’esordio si entra al cospetto di un’opera di grande respiro che ha tutte le caratteristiche di un capolavoro.

 

L’autore, rumeno di origine ebraica nato nel 1936, è stato internato da bambino in un lager per poi essere perseguitato come dissidente dal regime di Ceauşescu. Nel 1986 la via dell’esilio lo porta negli Stati Uniti, dove, dopo una trafila di disagi, ottiene una cattedra di letteratura al Bard College di New York (in cui oggi è Professor of European Culture). Tutto questo gli ha inferto profonde ferite e al tempo stesso dato grande lucidità nell’analisi politica dei fenomeni totalitari, di cui ha offerto un ottimo saggio con la raccolta Clown. Il dittatore e l’artista (1999). Tra i massimi scrittori rumeni viventi (non si può non citare almeno Il ritorno dell’huligano tra i tanti romanzi), è stato al centro di dure polemiche per aver criticato le contiguità tra i regimi nella Romania post-comunista da parte del ‘nuovo’ nazionalismo ansioso di cancellare vicende scomode e vizi ricorrenti che il potere si tramanda come un retaggio e una maledizione. Noto è l’attacco che ha subito dalla stampa in seguito alla sua ricostruzione della militanza di Mircea Eliade nel gruppo fascista della Guardia di ferro: una cartina di tornasole del cortocircuito tra estrema destra e estrema sinistra, che in Romania hanno trovato nel nazionalismo culturale un tratto comune. Lo stesso cortocircuito che a un intellettuale dissidente come Ioan P. Culianu è costato la vita.

 

Ma la politica è solo un elemento che fa da detonatore della grande letteratura. Lo stile di Manea ricorda Thomas Mann riscritto dal Philip Roth più nevrotico con la sensibilità di un Elias Canetti visionario e l’eleganza di un Borges più ironico; un ultimo classico che vive (scomodo) nella riflessione post-moderna, sbocco naturale per un umanista europeo sradicato e sbarcato su un pianeta alieno chiamato America.

I fantasmi della svastica e della falce-e-martello si fondono nella mente dei personaggi del libro con quelli della mezzaluna, nel cielo annerito dagli aerei che si infrangono sulle torri gemelle e in un continuo rispecchiamento tra vecchio e nuovo mondo e tra passato e presente. L’identità ebraica e quella cristiana si rincorrono sullo sfondo babelico della Grande mela; l’eros e la malattia giocano a nascondino nei campus puritani, tra le tentazioni tentacolari del paese della libertà sfrenata; la gioventù e la vecchiaia si scrutano senza comprendersi perché la prima vive di sogni e l’altra di ricordi. È un libro in cui i numeri tatuati sull’avambraccio degli anziani e i codici che identificano i rapporti della polizia segreta di oltrecortina ricalcano le sequenze delle schede magnetiche, carte di credito o della social security, che ugualmente possono fare la differenza tra vivere e morire.

 

Ne Il rifugio magico tre alter ego di Manea vivono alcune sue esperienze reali: fantasmi si intrecciano e si incontrano con personaggi che sono ispirati a veri compagni di esilio come Eliade e Culianu. Si telefonano istericamente nelle ore notturne per trovare scampo dalle proprie ossessioni o per alimentarle. Ma la questione del riconoscimento di ciò che è vero o immaginario è irrilevante di fronte a uomini che prima di essere ricoverati per un intervento cardiaco vivono le stravaganze di Mynheer Peeperkorn, i tradimenti di Dulcinea e le pigrizie di Oblomov come questioni personali e urgenti, palinsesti sui cui cercare se stessi. Ed è una questione cancellata da una scrittura viva, febbricitante e pulsante, che la traduzione dal rumeno di Marco Cugno rende con fedeltà e felicità. Nota bene: Manea non scrive in inglese; l’esule non può tradire anche la lingua madre.

 

Molto più che testimonianza delle molteplici tagliole di cui è disseminato il Secolo, questo è un vero romanzo, la cui protagonista è la letteratura: latana(che è il titolo originario, Vizuina, migliore di quello editoriale) è proprio “la trappola dei libri”, “dove si poteva stare da soli, dimenticare tutto”. Onirico, sfuggente e aporetico, a tratti magistralmente sfocato, il libro è il romanzo della solitudine e dell’esilio raccontati da una serenità postuma. Di ogni esilio e di ogni solitudine. Perché, del resto, stai leggendo questa recensione – tu, ipocrita lettore – mio simile e fratello?

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