Sean B. Carroll / Il caso della nascita della terra e della vita
“Sette anni prima, all’ospedale della città di Tereza, era stata scoperta per caso una forma insolita di meningite e il primario dell’ospedale di Tomàs era stato chiamato per un veloce consulto. Il primario, però, aveva per caso la sciatica, non poteva muoversi, e al posto suo all’ospedale di provincia aveva mandato Tomàs. In città c’erano cinque alberghi, ma Tomàs era sceso per caso proprio in quello dove lavorava Tereza. Per caso prima della partenza del treno gli era rimasto un po’ di tempo libero per andare a sedersi al ristorante. Tereza era per caso di servizio e per caso serviva al tavolo di Tomàs. Erano stati dunque necessari sei casi fortuiti per spingere Tomàs verso Tereza, come se lui, da solo, non ne avesse avuto voglia. Era tornato in Boemia a causa di lei. Una decisione così fatale si fondava su un amore a tal punto fortuito che non sarebbe esistito affatto se il suo capo sette anni prima non avesse avuto la sciatica. E quella donna, quell’incarnazione della casualità assoluta, era ora distesa accanto a lui e respirava profondamente nel sonno.”
Non casualmente, nel leggere il bel volume di Sean B. Carroll, “UNA SERIE DI FORTUNATI EVENTI. Il caso della nascita della Terra, della vita e di tutti noi”, appena pubblicato da CODICE (l’originale è del 2020: anno già pandemico, scrive anche di questo), mi è tornato alla mente un passo di L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, il quale tornando sul tema del caso anche in altre pagine contesterebbe la convinzione espressa da Carroll nel suo gustoso, ultimo capitolo dove costruisce un dialogo immaginario tra Albert Camus, Ricky Gervais, Eric Idle, Eddie Izzard, Bill Maher, Seth MacFarlaine, Jacques Monod, Sarah Silverman, Kurt Vonnegut e Sean B. Carroll stesso, sicuro che “insieme a quello degli scienziati, l’unico gruppo di persone apparentemente meno incline a pensare che tutto accada per una ragione, e convinto invece che il cieco caso governi il mondo, è quello degli scrittori umoristici e dei comici”. Che il ceco Kundera sia a tratti anche umoristico… ci mancherebbe! Ma certo la definizione di genere, come per Camus, come per Vonnegut, per non parlare di Monod, gli andrebbe un po’ stretta.
“Io – così Carroll anticipa le sue conclusioni, commentando un passo di Darwin a circa tre quarti del suo libro – esprimerei il concetto in un altro modo: guardiamoci intorno e ammiriamo tutta la bellezza, la varietà e la complessità degli organismi. Viviamo in un mondo di errori, governato dal caso”. Conclusione per molti difficile da accettare, figuriamoci quando guardandosi intorno si osserva anche la bruttezza, l’insignificante omogeneità e la rozzezza semplificante di troppe convinzioni. Eppure sì: bello o brutto, viviamo in un mondo di errori, governato dal caso. Punto.
Un libro dedicato a Jacques Monod e al suo Il caso e la necessità, un nuovo libro per dare a quello di Monod, scritto nel 1970 una seconda possibilità (a second chance!). E non certo perché cinquantadue anni fa non ebbe il suo meritato successo: in Francia, quell’anno, fu secondo nelle vendite solo alla traduzione di Love Story di Erich Segal, e scatenò anzi un vero e proprio pandemonio conseguente alla minaccia che rappresentava per le idee più tradizionali sull’origine e il fine ultimo dell’umanità: “L’uomo è stato il prodotto di un numero incalcolabile di eventi fortuiti […] Il risultato di un grande gioco d’azzardo, da Casinò di Montecarlo, in cui alla fine è uscito il nostro numero, anche se avrebbe potuto non farlo […]
Fra tutti i concetti di natura scientifica, quello del caso distrugge più degli altri ogni antropocentrismo”. Sarà stato anche per questa ragione, l’ennesima detronizzazione di homo sapiens, che il clamore e il dibattito intorno a quel libro si spense, invece, dopo poco tempo? E che il nome di Jacques Monod, ancora oggi, rimane conosciuto solo nella esclusiva cerchia di coloro che frequentano il lavoro e il pensiero scientifico? Due buone ragioni per offrire un’altra chance a un libro così fondamentale.
Magari ripartendo dalla ragione più nota, e assolutamente casuale, per cui possiamo indulgere nell’antropocentrismo. Saremmo qui a raccontare questa storia, infatti, senza l’impatto del meteorite che circa 66 milioni di anni fa determinò l’estinzione di massa di circa tre quarti di tutte le specie viventi sulla Terra, compresi i dinosauri, gli pterosauri, i mososauri ma anche le ammoniti e i foraminiferi di taglia grande? La storia della “cosa venuta dallo spazio” è troppo nota per raccontarla di nuovo, così come ricordare gli artefici di questa scoperta: Walter, il figlio geologo, e Luis Alvarez, fisico, veterano del progetto Manhattan e vincitore di un Nobel (e c’entra anche la strada statale SR 298 appena fuori Gubbio), siamo comunque a metà degli anni ’70 del secolo scorso. Le osservazioni dei due Alvarez identificarono il limite e il passaggio tra il Cretaceo e il Paleogene (K-Pg, in abbreviazione) e le analisi geologiche ripetute in diversi e distanti parti del mondo, tutte evidenziando una straordinaria concentrazione di iridio nelle formazioni argillose che separano strati di rocce calcaree di colori diversi, portarono diretti alla conclusione di una possibile causa celeste: l’iridio è relativamente raro sulla terra, assai abbondante in certi tipi di asteroidi.
L’Alvarez padre, il fisico, calcolò la dimensione che l’“oggetto dal cielo” doveva avere per riuscire a ricoprire di iridio il globo: almeno 10 km di diametro. In proporzione, nota Carroll, sarebbe la stessa differenza tra un pallino sparato da una pistola a aria compressa e una casa di due piani (il diametro della Terra è di 13.0000 km): trascurabile. Ma se si calcola la velocità del “pallino”, a circa 80.000 Km orari, quella “trascurabile” evenienza si trasforma in una sfera di fuoco che entrando nell’atmosfera provoca un cratere di 190 Km di diametro e 40 di profondità. È quello che successe: il meteorite percorse gli ultimi 15-16 Km in un secondo; la collisione fece collassare la piattaforma continentale dello Yucatan provocando uno tsunami con onde alte più di 200 metri; l’esplosione spianò ogni cosa nel paesaggio circostante fino a oltre 1.600 km di distanza mentre la massa di roccia fuoriuscita dal cratere veniva scagliata in ogni direzione precipitando in varie parti dell’America settentrionale. Nello stesso momento l’aria riscaldata di diossido di carbonio, vapore acqueo, zolfo gassoso, roccia vaporizzata e pezzetti del basamento roccioso colpito scagliò i materiali verso l’alto sfuggendo alla gravità universale (a una velocità superiore ai 40.000 km ora): tutto raggiunse l’atmosfera per poi ricadere sotto forma di migliaia di miliardi di meteore incandescenti su tutta la superficie del globo.
L’effetto immediato della pioggia incandescente fu un innalzamento della temperatura dell’atmosfera che raggiunse i 250°C: il legno secco prese fuoco causando incendi in tutto il pianeta, la massiccia immissione di diossido di carbonio nell’atmosfera a partire dal sito ricco di carbonati (ci arriviamo tra poco) determinò una repentina acidificazione degli oceani: “ogni forma di vita venne cotta, poi congelata e infine ridotta alla fame”. L’apocalisse. Ma non per tutti. Le felci, ad esempio, sono tra le prime piante che ripopolano in ambienti devastati dopo un’eruzione vulcanica. Prima della bomba dal cielo, questo era letteralmente riempito dagli uccelli del Cretaceo: dopo scomparvero, quasi tutti. Ma quasi. Oltre gli uccelli, tutti i principali vertebrati di terra ferma, rettili, anfibi, mammiferi, subirono perdite quasi definitive. Ma quasi. Qualcuno di loro, per ogni fila, si annovera fra i superstiti. Perché, cosa li ha aiutati? Piccole dimensioni, metabolismo più lento, ridotte necessità alimentari, tasso di riproduttività più rapido tipico negli animali di taglia più piccola… e via, si riparte! L’albero filogenetico che oggi siamo in grado di ricostruire ci racconta che le specie oggi viventi discendono da poche linee evolutive sopravvissute all’estinzione del Cretaceo: il mondo dopo K-Pg somiglia pochissimo a quello precedente.
Estinti i dinosauri, bastarono poche centinaia di migliaia di anni ai mammiferi per diventare molto più grandi di quello che erano stati in qualunque momento nei precedenti 100 milioni di anni “… sembrerebbe ragionevole pensare che senza l’impatto dell’asteroide i dinosauri sarebbero ancora qui mentre i primati no, e noi con loro”. Tra vincitori e vinti, solo fortuna. Ma sfacciata. Che se la storia dell’asteroide si può dare per universalmente nota, c’è meno consapevolezza della contingenza per cui, oltre alle dimensioni della “cosa venuta dallo spazio”, a contare fu anche il punto d’impatto: il cratere di Chicxulub. Le rocce intorno all’area colpita nello Yucatan sono ricche di idrocarburi e zolfo, conformazione che ha determinato la produzione di enormi quantità di fumi e aerosol capaci di deflettere la radiazione solare. “I geologi hanno calcolato che soltanto una superficie compresa tra l’1 e il 13% della Terra contiene rocce capaci di generare un simile stufato di materiali distruttivi”. Ora, se si calcola che la Terra ruota a una velocità di 1.600 Km orari, se l’asteroide fosse arrivato trenta minuti prima sarebbe precipitato nell’Oceano Atlantico, trenta minuti dopo si sarebbe inabissato in quello Pacifico: un gran botto in ogni caso, altro che gli tsunami di Fukushima e, di recente, a Tonga. Pure i dinosauri sarebbero ancora qui. Mezz’ora in più, mezz’ora in meno, per un evento la cui frequenza è calcolata a “uno per ogni 500 milioni di anni, forse più”, e sarebbe stata tutta un’altra storia. Di quanti minuti sono fatti 500 milioni di anni? Di quanti secondi? Siamo qua a raccontarcela per il ritardo – o l’anticipo – di un treno celeste per appena 30 minuti, 1800 secondi…era destino?
Di questa serie di incredibili fortunati eventi, Sean B. Carroll, continua a raccontare tra le “cose che capitano” in tutta la prima parte del libro, compresa la “collisione che cambiò il mondo”: la placca tettonica dell’India, ai tempi del meteorite, era più o meno vicina all’attuale Madagascar, muovendosi a una velocità media di 2-4 centimetri l’anno; sicché qualche fortuito evento, invece, ne aumentò la velocità fino a 18-20 e con quella velocità di regata andò a schiantarsi con l’Asia più o meno 40 milioni di anni fa. Risultato: altopiano del Tibet e montagne dell’Himalaya. La crescita di quelle montagne, asportando sempre più CO2 dall’atmosfera a partire dalla fine dell’Eocene, cambiò il futuro del clima della Terra: arrivava un periodo di freddo. Ad ogni cambio di epoca, Eocene, Oligocene, Miocene… Olocene corrisponde un cataclisma climatico (suona qualche campanello?) e oggi viviamo in un periodo interglaciale che è iniziato 11.700 anni fa: sulla Terra esiste una rigida corrispondenza tra i livelli atmosferici di CO2 e le temperature superficiali nei cicli considerati (ricorda qualcosa?). E meno male che homo sapiens si è rivelato l’animale più capace di adattarsi a oscillazioni climatiche molto irregolari, vere e proprie “fibrillazioni”. Tra 1,2 milioni e 400.000 anni fa ci furono almeno sedici grandi oscillazioni ambientali. Freddo-caldo ma anche umido-asciutto: per arrivare a l’altroieri… tra 5000 e 11.000 anni fa il Sahara era verde!
E se l’asteroide del limite K-Pg avesse mancato lo Yucatan (non dico la Terra), se la placca indiana avesse viaggiato più lentamente verso l’Asia, se non ci fossero state tutte le innumerevoli oscillazioni climatiche durante le ere glaciali…? “La conclusione esplicita, o implicita, è dunque che noi siamo qui per caso”.
C’è caso e contingenza, ammonisce Carroll, la contingenza è successiva al caso: quel che accadde 66 milioni di anni fa fu un caso ma divenne contingenza per la successiva ascesa dei mammiferi, dei primati e della nostra specie. Per la quale i casi sono stati e sono altrettanto numerosi, oltre che fortunati.
Tutta la seconda parte del volume, infatti, è dedicata agli accadimenti, altrettanto fortuiti, che agiscono dentro ogni organismo vivente, con il conseguente tributo alla pericolosa idea di Darwin: “Sia negli animali che nelle piante, qualunque modificazione strutturale può essere realizzata dall’accumulo di numerose piccole variazioni, che potremmo definire casuali, a patto che siano in qualche modo convenienti”, anche se Darwin non sapeva ancora quale fosse la ragione delle variazioni e il ruolo del caso. Il tributo, di necessità, passa a Crick e Watson (ma anche a Esther e Joshua Lederberg che chiarirono il carattere causale dell’antibiotico resistenza).
Pure questa meravigliosa storia possiamo ragionevolmente darla per conosciuta: con quale frequenza compaiono gli errori di trascrizione del DNA, come sono distribuiti, perché esistono questi errori; la mutazione che è una caratteristica intrinseca del DNA, e non un bug; la mutazione e il cambiamento che sono inevitabili, con tanto di transizione quantica tra stati chimici (spiegazione, per chi si vuole dilettare di chimica, alla fine del capitolo 4); il caso che introduce l’innovazione e la selezione naturale che la propaga. Un’utile lezione da ripassare – per quanto la si dovrebbe dare per scontata almeno dalla scuola dell’obbligo –, tanto più di questi tempi, così da capire come l’origine delle pandemie virali sia anche essa dovuta al caso, magari in parte controllabile “evitando di accoppiarsi con scimpanzé, baciare cammelli, mangiare civette o pangolini: gli spillover e le pandemie potenziali essendo eventi accidentali soltanto in attesa dell’occasione giusta per verificarsi”. Se non la facilitiamo, meglio!
E se ci concentriamo su di noi, proprio noi individualmente? Terza parte del libro. Sempre riferendoci a conoscenze scolastiche, sappiamo che ogni genitore contribuisce alla fecondazione con 23 cromosomi: quanti figli geneticamente unici può produrre una coppia di genitori? 23? 46? 92? Vediamo un po’: sappiamo anche che ogni spermatozoo e ogni ovulo riceve – casualmente! – un solo cromosoma per ciascuna coppia genitoriale. Il numero possibile di combinazioni a partire da 23 cromosomi è 2 elevato alla ventitreesima: 8.388.608 differenti spermatozoi; stessa cosa per l’ovulo, altri 8.388.608. Il numero di combinazioni possibili di spermatozoi e ovuli è il prodotto dei due numeri, ovvero: 70.398.744.177.664, in lettere un po’ più di settantamila miliardi. La matematica dimostra che ognuno di noi è unico, anche quando ci somigliamo tantissimo. Se poi consideriamo che si hanno più o meno 20-35 nuove mutazioni (cfr sopra) per spermatozoo e ovulo: la distribuzione casuale dei cromosomi negli spermatozoi e negli ovuli, lo scambio casuale di parti tra cromosomi, le mutazioni casuali e la casualità della fusione tra quello specifico spermatozoo e quell’altro specifico ovulo fa sì che “ognuno di noi porta in sé una combinazione senza uguali di cromosomi, geni e mutazioni. Siamo tutti eventi accidentali”.
Fortunati o meno. Il 5% dei bambini è portatore di qualche disturbo genetico determinato (e più o meno il 20% è dovuto a mutazione assente in entrambi i genitori), generalmente negativo. Ma tra questi c’è stato anche un bambino nato nel 1947, Stephen Crohn (Burril Crohn, suo prozio aveva descritto per primo il morbo gastrointestinale che prese il suo nome), una cui mutazione genetica impediva ai suoi linfociti T di produrre il recettore CCR5, che è una parte del portale sulla superficie dello stesso linfocita, il pertugio attraverso il quale accede il virus HIV. Stephen Crohn era omosessuale, il suo compagno si era ammalato ed era morto, così come molti altri della sua comunità: perché lui no? William Paxton, un medico, prendendo campioni del suo sangue espose la sua popolazione di globuli bianchi a dosi massicce di HIV: le cellule non s’infettavano. Di qui la scoperta. Di lì la sintesi di nuovi, efficaci farmaci. Il caso. E rimanendo al sistema immunitario: il corpo può produrre un numero di anticorpi 10.000 superiore alla somma di tutti i segmenti genetici presenti nel genoma: se consideriamo tre processi, il mescolamento e l’unione di segmenti genetici, la combinazione indipendente di catene leggere e pesanti di ogni anticorpo, l’ipermutazione somatica, il corpo umano è capace di produrre 10 miliardi di anticorpi diversi: la gradinata dell’autodifesa (mutazione-selezione, mutazione-selezione, mutazione-selezione, etc.) chiarisce perché ci vacciniamo… dovrebbe!
C’è una parte finale, anche questa molto interessante, dedicata alla serie di sfortunate coincidenze che può portare al tumore: un altro evento in cui la casualità gioca un ruolo tutt’altro che marginale. E se si può fare molto per prevenirne l’insorgenza, e va fatto, pure “una cosa gentile che possiamo dire a chiunque abbia un figlio con un tumore è che non ha sbagliato nulla e non avrebbe potuto fare nulla per prevenirlo”.
Cosa si dovrebbe fare, invece, su cosa potremmo riflettere? Sull’insegnamento più rivoluzionario di Monod: “Dobbiamo creare cose e anche idee. C’è un equivoco di fondo a proposito del ruolo della scienza: si pensa che il suo scopo sia creare tecnologia, ma la tecnologia e le sue applicazioni sono invece prodotti secondari della scienza. I risultati più importanti in campo scientifico sono quelli che hanno cambiato l’idea che avevamo di noi stessi, il senso della nostra esistenza”.
I risultati che dovrebbero cambiare l’idea che abbiamo di noi stessi, che potrebbero… se nell’equazione della stragrande maggioranza delle nostre dispute – quelle sui social, certo, ma non solo – provassimo a mettere tra parentesi l’incognita del “piano”, dell’“intenzione”, del “plot” (e relativo “com-plotto”), e considerando invece la possibilità di quella del caso… quante volte ci divideremmo, e su cosa? Non potremmo, veramente, cambiare l’idea che abbiamo di noi stessi, il senso della nostra esistenza? E dovremmo, solo per questo, avere paura che nulla abbia più senso?
Torniamo laddove abbiamo cominciato, rileggiamo le parole di Milan Kundera:
“Ma non è invece giusto il contrario, che un avvenimento è tanto più significativo e privilegiato quanti più casi fortuiti intervengono a determinarlo? Soltanto il caso può apparirci come un messaggio. Ciò che avviene per necessità, ciò che è atteso, che si ripete ogni giorno, tutto ciò è muto. Soltanto il caso ci parla. Cerchiamo di leggervi dentro come gli zingari leggono le immagini formate dai fondi del caffè in una tazzina […] Non certo la necessità, bensì il caso è pieno di magia. Se l’amore deve essere indimenticabile, fin dal primo istante devono posarsi su di esso le coincidenze, come gli uccelli sulle spalle di Francesco d’Assisi”.
N.B. Sarà un caso, ma se ti chiami Sean Carroll – con o senza B. come middle name, fisico o biologo che tu sia – hai una marcia in più come divulgatore scientifico.