Moni Ovadia, Stormy Six: Benvenuti nel ghetto

2 Maggio 2013

“È forse là, dove qualcuno resiste senza speranza, il luogo dove inizia la storia e la bellezza dell’uomo”. I versi di Yiannis Ritsos aprono Benvenuti nel ghetto nato dalla collaborazione di Moni Ovadia e degli Stormy Six, in scena all’Ariosto di Reggio Emilia. Con lo spettacolo gli artisti milanesi hanno voluto rievocare, a settant’anni di distanza, la rivolta del ghetto ebraico di Varsavia del 19 aprile 1943, finita con l’annientamento degli ebrei e con la distruzione del ghetto più grande d’Europa. Versi incisivi, quelli scelti da Ovadia, che calano lo spettatore subito nel cuore del tema. E il tema non è qui solo lo spaventoso sterminio delle migliaia di ebrei del ghetto, ma è soprattutto la resistenza armata che uomini e donne, vecchi e bambini, ragazze e ragazzi, guidati dal ventiquattrenne Mordechai Anielewicz e riuniti nella Zob (Organizzazione Ebraica di Combattimento), per la prima volta hanno saputo opporre per 27 giorni alle SS del comandante Jürgen Stroop. Una rivolta, questa, morale più che militare, essendo chiara la volontà di Hitler di ripulire l’Europa dagli ebrei e altrettanto chiara, in ciascuno di loro, la consapevolezza della fine. Si trattava perciò di un atto inutile a salvarsi la vita, ma necessario per riaffermare la dignità umana di fronte alla barbarie del totalitarismo nazista.

 

È questa dignità, “l’estrema dignità del ghetto di Varsavia che muore bruciando, ma non gridando”, che Moni Ovadia, insieme allo storico gruppo musicale degli Stormy Six, porta in scena nella formula di un “recital oratorio con canzoni”. Vi si intrecciano, in un misurato accordo, il racconto e il canto, il primo affidato alla voce narrante di Moni Ovadia e il secondo a quella di Umberto Fiori e alle musiche degli Stormy Six, nate con e per il progetto di Ovadia.

 

 

Il set è essenziale, ed è volutamente trascurata ogni azione e movimentazione scenica. Riempiono il palco gli strumenti degli Stormy Six (batteria, mandolino, basso, due violini, quattro chitarre) e, sulla sinistra, solo un microfono e un leggio da cui Ovadia fa avanzare il racconto. I brani narrativi che si alternano alle parti cantate di questo oratorio tragico sono in realtà il frutto di un sapiente ed equilibrato lavoro di montaggio di quattro volumi, tutti scritti da protagonisti o testimoni diretti della catastrofe: Storia del ghetto di Varsavia di Isreael Gutman (Giuntina 1996), Arrivare prima del Signore Iddio di Hanna Krall (Giuntina 2010), Il canto del popolo ebraico massacrato di Yitzhak Katzenelson (Giuntina 1995), Yoss Rakover si rivolge a Dio di Zvi Kolitz (Adelphi 1997), dal quale già nel 2001 il regista aveva tratto l’omonimo spettacolo teatrale. Da quelle pagine emergono storie diverse, storie di orrore quotidiano. Ovadia riprende testimonianze, testamenti di partigiani, resoconti sulla carriera degli ufficiali nazisti, e quella dolorosa invettiva-invocazione ai vagoni ferroviari diretti al campo di sterminio di Treblinka, recitata in una scena semibuia con le note del violino in sottofondo che fanno da contrappunto struggente, e che si impone come momento lirico fra i più alti dello spettacolo:

 

[…] i vagoni sono già di ritorno! … Hanno ancora fame! Niente li sazia.
Aspettano gli ebrei! Quando glieli porteranno?
Vagoni vuoti! Eravate pieni, ed eccovi di nuovo vuoti.
Cosa ne avete fatto degli ebrei? Dove sono finiti?  
[…]
E ora? Ora siete vagoni, e state a guardare,
testimoni muti di un tale carico, di una tale pena.
In silenzio tutto avete osservato. Oh, ditemi, vagoni,
dove andate, dove avete portato a morire il popolo ebraico?
[…]
Non è colpa vostra – vi caricano e poi vi dicono: andate!
Vi fanno partire pieni e tornare vuoti.
Voi che tornate dall’altro mondo, ditemi una parola.
Vi prego, ruote, parlate, ed io, io piangerò…

 

L’invocazione è destinata a restare senza risposta. Responsabili dello sterminio non sono i vagoni dei treni, testimoni muti e indifferenti, corrieri disumani di morte. Altri sono chiamati a dar conto della tragedia ebraica. Primo fra tutti Jürgen Stroop, ufficiale tedesco, servitore mediocre e più o meno consapevole del male, che diventa il protagonista di una delle canzoni dello spettacolo, in cui sembra uno dei tanti fratelli, e non solo nazisti, di Adolf  Eichmann della Banalità del male:

 

Da bambino dicevo le preghiere
con babbo e mamma, prima di ogni pasto.
Da grande avrei voluto fare il pompiere
poi ho trovato un impegno al catasto.

 

Le sonorità degli Stormy Six, nelle quali si coglie ancora l’atmosfera del progressive rock che ha in buona parte segnato l’esperienza artistica del gruppo, in nessun momento dello spettacolo si presentano come mero accompagnamento musicale, ma diventano parte fondante del tessuto narrativo, portando in scena con il canto i protagonisti, le fasi e i luoghi salienti del dramma. Così accade nel Canto dei sarti ebrei, nel brano dedicato a Mordechai Anielewicz, o nelle note disperate e graffianti di Umschlagplatz (“Non è la meta, questa. È solo un transito/qui si entra nel carico e si va, è Umschlagplatz”). E ancora in Devarim la musica liricamente accoglie passi profetici del Deuteronomio sull’olocausto (“Le tue città saranno conquistate/ crolleranno le torri grandi e forti/le porte, i fossi, le alte cancellate/ le mura che dovevano salvarti”). Una componente musicale consustanziale alla rievocazione, che riesce a garantire a questo rito lirico una solida architettura circolare. E così lo spettacolo, che aveva aperto con la Canzone del tempo e della memoria, chiude dopo 1 ora e 30 minuti con l’Invocazione a non dimenticare.

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